
In passato ho già descritto -.brevemente- secondo la teoria di Melanie Klein, l’aggressività in termini psicodinamici. Oggi voglio invece parlare della rabbia intesa come emozione centrale del e per l’essere umano.
La rabbia è un’emozione prototipica perché in essa si possono identificare un’origine funzionale, antecedenti, manifestazioni espressive e modificazioni fisiologiche. La rabbia può essere osservata anche nei bambini molto piccoli (è un’emozione primaria) anche se viene inibita dalla cultura (o modificata) .
Secondo autori come Stenberg e Campos, la rabbia è osservabile anche in bambini di pochi mesi; secondo i due autori -infatti- in bambini di 4/7 mesi è stato possibile evidenziare la presenza di espressioni facciali e vocalizzi riconducibili alla rabbia.
Le espressioni facciali della rabbia sono riconoscibili in tutte le culture e secondo un test (test di Rosenzweig), sembra che le persone aggressive siano più portate a tollerare l’ira altrui.
Averill sostiene che siamo più portati ad arrabbiarci con le persone a cui vogliamo bene, coloro con cui siamo affettivamente legati (sembra che la motivazione sia nel fatto che queste persone possano farci del male molto più facilmente; che abbiamo paura di perderle e che queste possano più facilmente modificare un comportamento che mal tolleriamo, se abbiamo una discussione).
La storia di V. il ragazzo che brucia.
Il colloquio con V., si presenta come uno di quegli incontri di difficile gestione perché il ragazzo ha mostrato fin da subito (motivo dell’invio fatto dal Tribunale dei Minori), una crescente e ingestibile rabbia/aggressività.
V. è un ragazzone di 18 anni (compiuti pochi giorni prima del nostro incontro); appare come un giovane in sovrappeso, vestito molto alla moda.. una moda che lo penalizza e lo fa apparire goffo. Il jeans è di almeno una taglia più piccola ed evidenzia i suoi kg di troppo rendendone lento il movimento nello spazio; ha una felpa grigia che non appare proprio pulitissima, un giubbino piumino extra lucido di un colore improponibile; le unghie delle mani distrutte tanto da mostrare carne viva morsa e lacerata dai suoi affilati denti ma.. la cosa che colpisce ancora di più è l’evidente occhio (destro) nero, il labbro fratturato e diverse cicatrici (più o meno recenti) sul volto.
I diversi colloqui saranno tenuti tutti in lingua; l’uso della lingua napoletana non è dovuto all’incapacità del ragazzo di usare l’italiano ma alla sua personale sfida verso gli interlocutori
“Si fa come dico io.. dice V., o me ne vado”
Inizialmente gli è stata data l’illusione di avere le redini del “gioco” anche se di fatto.. così non è stato.
V. ti guarda con occhi di fuoco, occhi che difficilmente ho visto nella mia vita; non è semplice rabbia quella che lo attraversa. V., brucia il mondo circostante, non vive nello spazio ma lo rende cenere analizzandolo con quegli occhi rossi di livore; occhi al veleno che sputa ad ogni parola gettata su chi ha innanzi nella speranza di “avvelenarlo”, come hanno fatto con lui.
La storia di V è complessa e per diverse ragioni ho deciso di saltare molti passaggi. Posso dire che il ragazzo è stato vittima di abusi nella vita; abusi fisici e psicologici continui, costanti e pressanti. Ha vissuto rimbalzato tra case famiglia e/o tutori di turno incontrando anche in questi ambienti il degrado, il freddo e il gelo; gelo a cui ha deciso di rispondere bruciando (anche solo con lo sguardo) ogni cosa.
V., sembra non capire perché sia da noi, certo.. ha bruciato diverse persone usando la lama del coltello riscaldata con l’accendino, si è spesso cacciato in risse, fa piccoli furti.. ma a lui non interessa.
(Vista la complessità, il lavoro su V., è stato condotto in equipe lavorando con la neuropsichiatra infantile, anche se il ragazzo dal momento dell’invio – in cui era minorenne-, al primo colloquio è diventato maggiorenne, l’assistente sociale, la psicoterapeuta e la psicologa).
Ti guarda e ti brucia, percepisci solo quello quando guardi V., non saprei come altro descrivere la sensazione di calore che gli occhi di quel ragazzo ti inviano. I giorni passano, le sedute si susseguono e l’unica cosa che sembriamo ottenere è che V, torni (le altre colleghe pensavano che lui non sarebbe tornato, io si). Percepisco in tutto quel fuoco piccole risorse disseminate; risorse che si presentano come piccolissime gocce di acqua pronte a rendere meno vive le fiamme di V.
Decidiamo di provare con la boxe; proviamo in sostanza a veicolare la rabbia in qualcosa che sia costruttivo e non distruttivo. V non capisce il senso di tirare cazzotti a vuoto o in maniera regolare, ma giorno dopo giorno sembra prendere coscienza della possibilità di trovare sfogo, senza distruggere per davvero ma solo “per finta”; tirando cazzotti “a vuoto” capendo che anche solo “provare a fare a botte”, provare, può diventare un mezzo per sentire.
Il percorso di V., sarà lunghissimo.. una fatica immane volta a prendere a cazzotti tutto il passato, una storia che il ragazzo non voleva percorrere di nuovo, sentendola come estranea e altro da sé: “Io non sono quel finocchio che prendeva botte, io scasso tutto e tutti”.
Una volta mi chiese perché io facevo le domande e non rispondevo mai; gli ho ricordato che noi non eravamo lì per me e che se voleva poteva farmi una sola domanda a cui avrei risposto, poi basta.
V., mi guarda e sfoderando un perfetto italiano dice
“Dottoressa lei è una che non ama il freddo, vero?”
“Finisce bene quel che comincia male”.
Dott.ssa Giusy DI Maio.