Teorie della mente.. penso che tu pensi

Comunicare con qualcuno potrebbe apparire come una cosa tutto sommato semplice e diretta. Ma non è così. Dietro il sipario della mera comunicazione formale tra due persone esiste un mondo fatto di teorie e supposizioni.

Buona parte dei nostri scambi interpersonali, ad esempio, è basata sul tentativo di comprendere cosa il nostro interlocutore sta pensando o stia provando in quel momento. Questo modo di “mentalizzare“, comprendere e prevedere il comportamento dell’altro è stato studiato nel 1978 da Premack e Woodruff (Theory of Mind – TOM). Inizialmente il loro oggetto di indagine era la capacità degli scimpanzé di prevedere il comportamento di un umano in situazioni create ad hoc per lo studio e finalizzate ad uno scopo preciso. Gli sperimentatori scoprirono che gli scimpanzé per risolvere il compito erano in grado di attribuire stati mentali alla persona che era con loro nell’esperimento.

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Dopo circa trent’anni queste prime osservazioni aprirono la strada a diversi studi che hanno provato a descrivere e spiegare la comprensione intuitiva che le persone hanno del mondo e delle relazioni sociali.

E’ come se una persona creasse una “teoria” personale atta a spiegare il comportamento degli altri facendo riferimento ai propri e agli altrui stati interni che hanno potuto determinare quel comportamento, quelle parole e cosi via. Sono tentativi di spiegazione, vere e proprie ipotesi sugli stati mentali dell’altra persona.

Questa nostra abilità ci permette di dare un significato personale a quel comportamento (noi abbiamo bisogno di significare le cose e ciò che succede) e magari di avere degli elementi utili per prevederlo in futuro.

Per stati mentali ci si riferisce al funzionamento mentale che può essere articolato in due categorie: gli stati motivazionali e gli stati epistemici. Quest’ultimi riguardano i pensieri, le credenze e le attività mentali orientate alla conoscenza. Gli stati motivazionali sono invece connessi ad attività mentali come sentire, volere, desiderare, sperare.

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Normalmente noi non agiamo sulla base delle cose come sono realmente, ma sulla base delle nostre rappresentazioni, cioè su come pensiamo che esse siano. Per un bambino acquisire una “teoria della mente” significa avere la capacità di capire che esistono punti di vista differenti dal suo, comprendere che il comportamento manifesto di una persona può non coincidere con il suo stato interno e che questo è prevedibile e spiegabile. Questa capacità insomma permette di distinguere la sfera soggettiva (opinioni personali e valori) dalla sfera oggettiva (i fatti), si rende conto inoltre che le persone possono rappresentarsi la realtà interpretandola in maniera diversa.

Concludendo la funzione primaria della “teoria della mente” è di tipo sociale e personale, serve nelle interazioni sociali per comprendere al meglio il comportamento degli altri. E se questa questa facoltà fosse carente, cosa comporterebbe?

Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi
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17 pensieri su “Teorie della mente.. penso che tu pensi

    1. Gennaro Autore articolo

      Mentalizzare, farsi una idea dell’altro è un meccanismo mentale normale e utile, dovremmo piuttosto allontanarci dai pregiudizi, quelli che che possono influenzarci negativamente o almeno dovremmo essere più predisposti ad accettare le differenze e adattarci. Più flessibili e meno rigidi. Grazie Max per le tue riflessioni!

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    1. Gennaro Autore articolo

      Ciao Giulia! Il concetto di teoria della mente è più vicino all’empatia. Invece le tue parole sono più vicine ad un altro concetto della psicologia, in particolare della psicoanalisi. si chiama identificazione proiettiva. Ed è più o meno quello che hai descritto tu. E’ un concetto che è stato teorizzato da una psicoanalista molto importante, Melanie Klein. Lei in poche parole descrive il “movimento fantasmatico” (cioè a livello di pensiero e fantasia) del bambino che introduce parti di sé scisse all’interno del corpo materno, per poterlo “controllare” a proprio piacimento. Questo meccanismo poi può ripresentarsi anche nella vita adulta. Grazie mille per il tuo feedback!

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      1. ailuig91

        Ho capito, però mi chiedo una cosa: se io non conosco ciò che l’altro prova, come posso entrare in empatia? Cioè, posso ricercare in me cosa penso che stia provando l’altro, ma è sempre un sentire mio, mai suo. Forse è proprio lo sforzo di capire?

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      2. Gennaro Autore articolo

        Noi ci facciamo delle “teorie” su cosa pensa e prova l’altro in base alle nostre esperienze pregresse. Impariamo a comprendere le emozioni, i comportamenti e il senso delle azioni dell’altro attraverso il nostro sentire. Ovviamente non possiamo mai pretendere di provare allo stesso modo dell’altro. Ma possiamo entrare in empatia con l’altro, metterci nei suoi panni, quindi “sentire con l’altro”.

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      3. ailuig91

        Ultimamente ci sto riflettendo molto sul concetto di empatia, ed è molto affascinante, ma penso che sia un po’ sopravvalutato. Che si sia perso un po’ il concetto del sentire con l’altro senza perdere di vista se stessi e il proprio sentire. Clinicamente parlando, il significato è chiarissimo, è nel comune sentire che secondo me si è un po’ frainteso. Empatia è diventato quasi sinonimo di “annullare se stesso per dare spazio all’altro” (non a caso il compagno del narcisista è proprio l’empatico), alimentando il suo ego e il suo modo di sentire. Creando così una comunicazione errata, per cui l’emozione altrui è più importante della nostra. Invece è importante comprendere e spiegare che tutto passa attraverso noi, il nostro sentire. Che siamo, insomma, un filtro per l’esterno, e per quanto si possa accogliere l’estraneo, rimaniamo comunque padroni in casa nostra.

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      4. Gennaro Autore articolo

        Buongiorno Giulia! Si in effetti è vero il fatto che il concetto di empatia sia stato un po’ “svenduto” e decisamente frainteso negli ultimi tempi. Infatti considerarsi “empatici” quando ci si annulla totalmente, all’interno di una relazione, non ha senso. In quel caso non si è empatici, lì parliamo di qualcosa di molto diverso. Quelle sono relazioni “malate”, in cui entrambi gli attori della relazione sono “complici” loro malgrado di un gioco perverso e distruttivo. Ho comunque intenzione di approfondire la questione narcisismo e le varie implicazioni relazionali nei prossimi giorni. Così se ti fa piacere possiamo poi confrontarci anche direttamente sull’argomento, che è molto interessante, seppure decisamente stratificato e complesso nel suo insieme.

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      5. ailuig91

        Le relazioni tossiche hanno bisogno di veleno per alimentarsi, e spesso quest’ultimo è proprio l’inconsapevolezza di chi ne è parte, complice necessario, che non può farne a meno, ma involontario, perchè cieco del proprio se. È un argomento che mi interessa molto, sarò felice di leggerne di più!

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      6. Gennaro Autore articolo

        Sì infatti è proprio così. Parlammo di questo argomento in occasione della giornata contro la violenza sulle donne. Comunque resta connessa che in questo fine settimana tratterò del narcisismo.

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    1. Gennaro Autore articolo

      Sì è proprio una caratteristica essenziale dello sviluppo emotivo,cognitivo e relazionale del bambino. È una competenza che si acquisisce sin dall’infanzia, che si perfeziona con il tempo e che avrà un peso specifico per l’adulto. Grazie per il tuo feedback.

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  1. Anthony'M

    Très bon article Gennaro
    J’ai beaucoup travaillé sur ce sujet de 2008 à 2012 après une formation en cybernétique appliquée.
    L’étude du comportement et les échanges prédictifs ainsi que l’anticipation cognitive dans le domaine de la sécurité…
    Merci Gennaro pour ce post de qualité.
    Tony

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  2. andream2016

    Uno dei problemi che ha un autistico (anche se lo è in forma lieve) è che la sua teoria della mente, non concorda con quella delle persone cosiddette mentali. Questo crea incomprensioni a volte molto profonde. Poi fortunatamente, almeno per l’autistico ad alto funzionamento, la cultura viene in soccorso. Occorre capire che la mente degli altri funziona a fonte in modo radicalmente diverso … ma si può imparare.
    Ovvio che più l’autismo è grave e più diventa difficile. Consiglio la lettura del libro “il cervello autistico” scritto da una professoressa universitaria autistica (e non in modo lieve).

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