“Ciao Dottoressa, eh.. come sto… Sto che ho questo pensiero continuo del cibo… un pensiero che mi terrorizza.. certe volte non capisco se io sia terrorizzata dal cibo in sé o dal pensiero del cibo fatto sta che… che…
Cioè…
Hmmm… Vabbè Doc io mi abbuffo!”
Sara mostrava segni piuttosto evidenti della malattia; i denti gialli/neri altamente corrosi dal vomito acido, le dita molto gonfie con le unghie cortissime piene di calli causati dal vomito autoindotto; spasmi nervosi, tic e dolori ricorrenti descritti analogamente a quanto la ragazza fa con il cibo: nasconde il dolore salvo poi gettarlo tutto via, d’improvviso, con lamenti continui (Sara non mangia oppure, preda della crisi bulimica ingurgita quantità di cibo enormi, salvo poi rigettare tutto velocemente).
Sara puzza; nonostante la giovane sia perfettamente curata, composta, rigida e molto schematica nel suo riferire le emozioni e “le questioni” della giornata, emana sempre uno strano odore.
L’estrema razionalità del contenitore (corpo) di Sara, cozza con la fragilità del suo contenuto; l’Io di Sara è spaesato, perso e sempre in cerca di qualcosa (o qualcuno) che lo contenga allora… quando lui soffre si fionda sul primo cibo (che sia cotto, crudo, congelato, bollente, poco importa) così da non farsi più sentire.
Quando Sara però.. si sveglia dal torpore dei sentimenti, si sente in colpa, si fa schifo e getta tutto via con il vomito.
Il cibo diviene allora un mezzo per dire, per vivere e sentire quando il caos identitario è talmente forte da rendere sordi, ciechi e muti.
“Finisce bene quel che comincia male”.
Dott.ssa Giusy Di Maio