
Durante i colloqui clinici capita -non di rado- di esser oggetto (da intendere nell’accezione prettamente psicoanalitica del termine)*, della curiosità del paziente.
Impariamo nei numerosi e infiniti anni di training che l’intimità del setting e della relazione che in questo viene a crearsi, è unica e irripetibile. Non ci sarà mai un’altra relazione che avrà quelle specifiche dinamiche; il linguaggio usato sarà specifico di quella coppia psicologo/paziente .
Mi piace dire ai miei pazienti che nella loro isola del tempo, in quello spazio e quel luogo che è loro, esiste una sola regola “non ci sono regole”.
C’è la libertà per dire (e per non dire), la libertà per dirsi (o non dirsi), la libertà per sperimentare sperimentarsi (per non sperimentare e non sperimentarsi).
Ci può essere il tu, il lei o il voi.
Ci può essere il silenzio o innumerevoli parole purché ci sia, in quel bacino di accoglienza che è la nostra stanza, spazio per pensare e pensarsi (che sia nell’intimità del non detto o nella condivisione della parola).
Non necessariamente -infatti- un paziente che giunge in consultazione, avrà voglia di parlare.
Può accadere che alcune persone decidano di prendersi la propria isola del tempo (senza tempo), per stare in silenzio.
Antonio Albero Semi dice, a tal proposito, che lo psy deve essere capace di gettare un amo nel silenzio del paziente.
Farsi pescatore tra la confusione e il caos dell’altro è un “gioco” di attesa e pazienza. E’ farsi funambolo su un burrone da cui sporgono ami appuntiti che possono pungere sia il terapeuta che la persona stessa perché tanti di questi ami possono, nel moto ondoso e confuso che fa da padrone nel caos psichico, rivolgere la propria punta appuntita nella persona stessa.
Stare chiuso in una stanza con uno sconosciuto portatore di un disagio psichico e farsi conduttore di tale dinamica, è qualcosa di complesso.
Un giovedì mi trovavo nello studio dove faccio volontariato.
39 gradi, uno studio piccolissimo con una sola piccolissima finestra in alto, niente aria condizionata, una ragazza che chiameremo Martina che mi parla dall’altro alto della scrivania e due mascherine che fanno lacrimare gli occhi.
Martina ha 16 anni, una vita sociale intensa ma non appagante.
I colloqui con la ragazza sono interessantissimi; la giovane porta con sé un segreto gigante, immenso e pensante. Sembra Atlante, Martina, porta infatti sulle sue spalle l’immensità di un mondo che con lei non è stato troppo gentile. E’ intelligente ma non ne è troppo consapevole; nella velocità del mondo moderno, quello in cui il tempo corto prevale sul tempo lungo (vedi la presenza dei vari stati whatsapp o IG, che spariscono dopo qualche ora), dedicare del tempo all’introspezione non è contemplato.
Martina però fa qualcosa di strano e straordinariamente potente.
Nella velocità, nelle brutture e nel caos, trova del tempo (nonostante la mamma non voglia, anche se ha firmato il consenso per la figlia minorenne), di dedicarsi quell’ora (che diventa anche un’ora e mezza).
Martina viene puntualissima ogni settimana ai nostri appuntamenti e mi offre la possibilità di gettare l’amo nel suo caos.
“Guardami nel cervello Doc”
In realtà è Martina a guardarsi ripetutamente dentro, a piangere, ridere..
E’ Martina a crescere ogni settima di più, sotto i miei occhi.
“Doc ti volevo chiedere una cosa. Ma com’è l’amore? Come funziona quando ti innamori?”
(Qui dovrei fare una ulteriore specificazione sul come e quando si risponde a certe domande che i pazienti pongono. Per questioni deontologiche e protettive, della professione stessa, non mi dilungherò. La qualità della relazione terapeutica è completamente diversa da qualsiasi tipo di relazione pensabile).
(…) Martina, non posso dirti cos’è e com’è quando ti innamori o cos’è e com’è l’amore. Non posso dirtelo perché l’amore è il sentire meno descrivibile, per me, in assoluto. E’ qualcosa che si vive, nella condivisione di uno spazio unico e circoscrivibile.
L’amore è la pelle condivisibile; sentire e ri-conoscere la pelle compatibile.
L’amore per me, è un’altra cosa.
E’ l’aroma, la consistenza e la presenza dell’altro che è in me, anche e soprattutto quando non c’è.
E’ risuonare così tanto dal sentirsi soprattutto nell’assenza.
Non sono parole d’amore ma è pensarsi nel bel mezzo di tutt’altro.
E’ attenzione.
Non lo so cos’è l’amore ma mi viene in mente un maglione. Abbiamo tanti maglioni a disposizione, magari anche abbastanza caldi ma uno, di solito, punge troppo, un altro è palesemente sintetico quindi fake , un altro ancora stringerà troppo sui fianchi.
Ci sarà un solo maglione che avvolgerà in maniera calda, comoda e accogliente i tuoi fianchi.
Un solo maglione sarà casa e fuoco caldo.
C’è poi tutta la parte della passione.. il desiderio che non è vero che cali negli anni ma anzi.. si rafforza e si fa certezza; come un mulino che gira e rigira l’acqua forte e fresca le braccia e le mani del partner resteranno sempre le uniche in cui saprai di poter trovare collocazione.
Ci sarà sempre quell’unica sola impronta capace di sciogliere l’enigma di accesso.
(E’ quella rara occasione in cui parlo un po’ di più; la ragazza ormai la conosco da tanto tempo, fa caldissimo e siamo sul finire del suo percorso di supporto psicologico. La domanda è generica e sento di poter contenere la conversazione. Noto però che Martina sta scrivendo qualcosa. Tra le regole del colloquio clinico, c’è anche quella del linguaggio che implica la possibilità di parlare usando la lingua che usa il paziente che, in certi casi, è la lingua madre o il dialetto. Esclamo allora, qualcosa che tradotto in italiano è: Martina ma che stai facendo?)
“OOHHHHHH DOC!!!! com’era la parte della pelle? Uà.. ripeti un attimo così appena esco da qua ci faccio il TikTok sopra.. sai quante visualizzazioni che ci facciamo!!!!!!”
Martì, mo’ te ne devi andare!
“Mi stai cacciando, Doc?”
Sì, stai da due ore. Mo’ te ne devi andare!
“Finisce bene quel che comincia male”.
Dott.ssa Giusy Di Maio
*In maniera molto poco approfondita, possiamo indicare con oggetto ciò verso cui un soggetto rivolge un impulso istintuale. Per Freud l’oggetto è indifferente alla pulsione, ma le è solo “saldato” (verlötet). L’oggetto non serve ad altro che a scaricare energia libidica, non solo nell’atto d’amore. L’impressione è che la teoria freudiana sia poco “oggettuale”. La Klein e Winnicott correggeranno la tendenza, l’una classificando gli oggetti in buoni e cattivi, l’altro teorizzando l’oggetto transizionale come metonimia – la parte – del corpo materno – il tutto.