Nel suono nasciamo immersi come siamo, nel bagno del ritmo del battito cardiaco materno che accompagna la nostra crescita quando nell’utero siamo accolti.
Nel suono incontriamo l’altro offrendo lui le nostre produzioni sonore (le parole); nella negazione del suono evitiamo o respingiamo l’altro (la negazione della parola).
Si parla, si canta, si tamburella un ritmo.
Una certa melodia è mia, una tua, sua e spesso nella “nostra canzone” incontriamo e rinsaldiamo l’amore.
Questo è il mio suono: uno shampoo veloce di prima mattina in una giornata di almeno 30 gradi. I capelli grondanti percorrono i solchi della schiena mentre stendo i vestiti porgendoli all’ingordo sole che da loro, risucchia tutta l’acqua..
Una gonna leggera e colorata, della scarpette di tela senza lacci, una canotta sottile e corta un bracciale pesante e avvolgente quasi su, vicino la spalla.
Si corre in strada, in studio.
Si prende un caffè al volo, magari a via Duomo, c’è il vociare del mercato, le canzoni che le signore cantano nelle loro cucine vista blu profondo.
C’è calore, c’è suono..
C’è emozione.
I capelli sono ormai asciutti e un riccio continua imperterrito a cercare l’affetto del rossetto rosso che avido ricopre le labbra.
Lo studio è in un vicolo fresco che squarcia -facendo l’occhiolino- la bollente strada principale.
Canto perché questo so fare: giocare con il ritmo, prendermi gioco del suono, abbracciare il silenzio e camminare -mano nella mano- con il palcoscenico della vita.
Tu: che suono sei?
Dott.ssa Giusy Di Maio, Ordine Degli Psicologi della Regione Campania, matr. 9767
“Ho una domanda da farvi -Docs- ma voi, dopo che sentite tutti i problemi della gente, non vi sentite male? No davvero.. me lo chiedo sempre perché io, per esempio, quando parlo con qualche mia amica che ha qualche problema, dopo mi sento.. ceh.. mi sento proprio male. Come fate?”
Durante un colloquio in co-conduzione, una ragazzina di 11 anni -straordinariamente intelligente- ha posto questa domanda.
La sua curiosità mi ha profondamente commossa, cosa che le ho prontamente riferito, perché uno spostamento del genere nei panni dell’altro è cosa assai rara.
Potrei argomentare in molte maniere e modi ma preferisco tenere la realtà che va sempre accolta, amata e protetta, per me e per chi ha vissuto quel momento.
Non fermiamoci mai a ciò che “passa” online sui nostri giovani.
Conosciamoli -davvero- mantenendo il giudizio fuori dal nostro incontro che altrimenti, diventa scontro.
Dott.ssa Giusy Di Maio, Ordine Degli Psicologi della Regione Campania, matr. 9767
L’approfondimento che propongo oggi al lettore è una riflessione piuttosto piccola e centrata.
Il focus della mia proposta concerne l’evidenziare come l’adolescente violento, quello che la “normalità” * tende ad indicare come cattivo ha -in qualche modo- imparato la violenza.
Risulta importante sottolineare che nella fase adolescenziale va fatta una distinzione tra aggressività e violenza e tra violenza come forma di comunicazione e la violenza agita per espellere e disfarsi della capacità elaborativa.
La prima è un agito con caratteristiche protosimboliche (come spesso avviene in questa specifica fase di vita) , la seconda -invece- ha delle caratteristiche di crudeltà e/o di sadismo in cui il piacere (il più delle volte erotizzato), è legato al bisogno di potere sull’altro nonché al bisogno di provocare sofferenza.
A causa della natura fisiologicamente traumatica** dei processi evolutivi, l’adolescente può vivere un “doppio trauma” se entra in collusione con funzionamenti traumatici pregressi che possono aver caratterizzato il funzionamento familiare.
Pertanto l’adolescente tenta di sbarazzarsene, perché impossibilitato nell’elaborazione, attraverso la proiezione di queste parti di Sé ripudiate e repellenti. Questo processo gli permette un temporaneo sollievo, può funzionare come argine di un possibile breakdown ma soprattutto può innescare l’organizzazione di una personalità negativa perché costruita sull’onnipotenza, sulla negazione della dipendenza e sull’illusione di una totale autosufficienza.
Qual è il funzionamento familiare delle famiglie che contribuiscono alla genesi del comportamento violento?
Le caratteristiche principali di queste famiglie sono: l’acting out, la concretizzazione,l’incapacità di concepire il tempo, la difficoltà a contenere le tensioni, a tollerare le frustrazioni, a contenere gli impulsi ma, soprattutto, a pensare e ad accedere ad una capacità simbolica (Nicolò, 2009)
*chi scrive usa il termine con fare quasi provocatorio. Ci si sente spesso normali e giusti nella propria posizione ma basta davvero poco a sovvertire l’ordine costituito del tutto.
**questo è un altro punto che merita la nostra attenzione. Proprio in virtù della “normalità” cui accennavo sopra, dimentichiamo con troppa facilità la natura intrinsecamente traumatica di alcuni processi evolutivi. Non di rado mi capita di ascoltare genitori, insegnanti, adulti in generale che sottolineano come “ai miei tempi… io all’epoca.. io non ero.. io non ho…”. L’adolescenza è una fase delicatissima del ciclo di vita, complessa e traumatica per tanti vissuti simbolici (e una possibile frattura identitaria sottesa), da considerare tutte le volte che ci si approccia a un giovane. Anche gli adulti tutto “Io” hanno molto probabilmente avuto una qualche piccola lacerazione, da qualche parte. Che non lo vogliano ammettere è un’altra cosa.
Dott.ssa Giusy Di Maio, Ordine Degli Psicologi della Regione Campania, matr. 9767
Quando studiavo all’università durante un corso il professore (uno degli analisti lacaniani migliori nel territorio nazionale) uno di quelli che l’esame te lo fa sudare a colpi di notti insonni e mal di testa ricorrenti, cominciò a parlare della questione secondo cui, nella nostra stanza d’analisi, siamo tenuti ad analizzare tutta una serie di cose.
Ci è stato insegnato che sin dal momento della telefonata con cui il paziente chiede un incontro, si getta un piccolo seme che comincia ad intessere le proprie (future) radici. Questo infinitesimale semino, è irrigato dall’attivazione delle prime fantasie -fantasie- che si attivano da ambo le parti (nel paziente e nel terapeuta stesso).
“Chi ha chiamato, come sarà, mi è sembrato così (così), ho avuto questa sensazione, questo feedback.. mi sono sentito in questo modo…”
La nostra relazione terapeutica è già cominciata.
Si giunge al momento “della porta”. Il nostro primo incontro -accogliere l’altro- che gran mistero e che azione straordinariamente potente.
Si stringe la mano (si o no, molto dipende dall’interlocutore perché non siamo tutti uguali), ci si presenta: si sorride.
Si invita l’altro a penetrare nel nostro mondo mentre noi penetreremo in lui, la compenetrazione del sentire: la risonanza emotiva.
Ci si apre allo sconosciuto che si apre ad altrettanto sconosciuto: diventiamo porto d’attracco per nave in mezzo al mare che io, l’altro non lo lascio di stenti a morire…
Il professore di cui sopra, cominciò allora a dirci di quante micro cose dobbiamo tener conto; di quanto -nel comportamento dell’altro- ci sia, nella nostra stanza, da analizzare.
Ci raccontò a tal proposito di un suo paziente che soleva avere una certa abitudine/usanza, quando andava da lui. Tale abitudine era del tutto “insignificante”, nel senso che, in una situazione non analitica non avrebbe minimamente destato interesse nell’altro che sicuramente nemmeno ne avrebbe colto sfumatura.
Ricordo vivamente le lezioni dei miei professori, le ricordo soprattutto perché sono integrate nel mio agire la “pratica” clinica.
(Leggere un libro da soli non è minimamente paragonabile ai training che si possono seguire, ai “segreti” da carpire, alle sfumature di cui godere.)
Un mio paziente un giorno mi chiede di poter fumare nello studio.
Lo guardo e lui mi rende, quasi come uno specchio, due enormi occhi castani, spalancati accompagnati da un sorriso gigante.
“Dai Dottoressa, sarà il nostro piccolo segreto!”
20 minuti prima il ragazzo aveva spento il cellulare. Si tratta di un giovane che vive per il suo telefono così tanto da aver esplicitamente detto che lui si sente il suo stesso telefono. Quando per un motivo X, chiedo di spegnere cortesemente il telefono, tendenzialmente gli adulti sono molto restii a farlo mentre i ragazzi sono sempre pronti e ricettivi.
Di solito non lo chiedo e sono loro stessi, in autonomia a mettere il cellulare in modalità aereo.
Lui lo aveva spento direttamente perché “ora è inutile”.
E’ stato così che S. ha terminato la sua seduta settimanale mentre un po’ ridendo, un po’ piangendo, si è comodamente fumato la sua sigaretta.
Dall’altro lato della scrivania, io mi godevo la naturalezza con cui un ragazzo è passato dall’essere una App, al diventare un fiume in piena di ricordi, sentimenti e bisogni accettando -anche- qualche “colpa”.
Al termine del nostro colloquio ho scritto il mio resoconto.
Mi sono ricordata del professore G. e ho pensato ad un cosa: il mondo del non detto è il mondo con più detto in assoluto.
Mi piacciono, tra le tante cose, per la loro indiscussa capacità di saper accogliere.
L’uomo d’isola porta impastato dentro di sé l’essere molo, pezzo di congiunzione tra la terra e il mare essendo egli stesso movimento perpetuo, costantemente aperto all’orizzonte.
I popoli di mare accolgono, facendo pochissime parole e molti fatti, nei limiti di quel che l’aria di sale, concede loro.
Granello dopo granello.
Mano a mano.
Prendere posizione su ciò in cui si crede -fortemente- è fondamentale poiché “fondante” dell’essere umano..
“Cosa dovrei fare di quel che sono e di quel che mi accade? Continuo a dirmi che Hey non importa! Segui un po’ quello che succede, vedi un po’ come va eppure -alla fine- torno sempre allo stesso punto: crollo! Sa Dottoressa, a 35 anni mi sembra di stare seduto davanti la tv come nelle case di riposo, ha presente il nonno dei Simpson? Esatto.. Non so dove cominci la fine dello spettacolo e dove inizi la vita vera oppure non so, l’inverso..
Certe volte mi stupisco dei miei stessi pensieri tanto da non riuscire più a capire se siano miei oppure no. Ultimamente non so nemmeno se mi interessi sapere la realtà delle cose; 2 anni di pandemia sono stati troppo, per me.
Una convivenza appena iniziata e finita ancor prima di potersi chiamare tale “vivere con”… poi scopri che quella era solo una sconosciuta e quindi con chi vivevi? Sempre e solo con te stesso. Un lavoro osceno fuori regione, al freddo degli affetti e del clima e ti trovi a rimpiangere lo stronzo che sei stato che è voluto andare via solo per fare il figo e dire -Io sono qui, e voi? Guardate come sono realizzato!- Ho scoperto però che lo sfigato ero io che sono soltanto scappato perché di certi bias culturali mica ci si libera facilmente.
Allora?
Cosa importa/Non importa..
Ci ho provato e sono caduto ma non ero pronto ad una caduta che fosse uno schianto in totale assenza di terreno, in effetti è di questo che si tratta: mi sento in costante caduta libera.
Me lo offre un paracadute di emergenza?
Ma devo tirarla io la leva di attivazione?”
“Finisce bene quel che comincia male”.
Dott.ssa Giusy Di Maio
*Tutte le informazioni personali (ad esempio nome), così come tutti gli altri dati sensibili, sono coperti dal segreto professionale e dalla tutela del cliente (ART.4,9,11,17,28, Codice Deontologico degli Psicologi). Ogni informazione personale è stata pertanto opportunamente camuffata.
Quando qualcuno muore in mare con i polmoni rigonfi di acqua salata: “torna a casa tua!” -Gli dicono-
Quando qualcuno muore per ipossia tra la folla, calpestato e fracassato: “la prossima volta restavi a casa tua, invece di uscire!” -gli dicono-
Quando una bomba sminuzza in mille pezzi un corpo: “questa è casa mia!” -gli dicono-
Quando in un centro commerciale, una lama improvvisa recide e lacera l’epidermide: “casa tua è più bella della mia” -gli dicono”
Me lo chiedo spesso.
Quando una lumachina perde la strada ma reca con sé, ovunque nel mondo, la propria casa e allora basta rimetterla su una data via: saprà da sola, cosa fare.