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Aiutare gli altri per aiutare se stessi. Gli aspetti psicologici del volontariato.

Avete mai fatto attività di volontariato? Sapete che la maggior parte delle attività di volontariato, se ben centrate sulla persona che vi partecipa, possono portare grandi benefici?

Sono infatti numerose le ricerche che dimostrano che le attività di volontariato oltre ad essere utili alla società, possono anche migliorare la soddisfazione e la salute di chi dedica una parte del proprio tempo agli altri. Quindi il beneficio sarà ben distribuito, tra chi beneficia dell’aiuto e chi invece lo offre.

Secondo diverse indagini statistiche, le persone attive sul volontariato tendono ad avere un umore migliore e tendono a sentirsi meglio fisicamente, rispetto a persone che non fanno volontariato. Questo effetto è più evidente quando il volontariato diventa parte integrante della propria vita. L’impegno sociale può alleviare in parte lo stress proveniente dall’ambiente lavorativo. Infatti in alcune ricerche è emerso che le persone in età lavorativa, che svolgevano una professione a tempo pieno e insieme dedicavano una piccola parte del loro tempo al volontariato, riuscivano a distrarsi dalla routine lavorativa, si arrabbiavano di meno, erano più attenti alle esigenze dei colleghi e si prestavano più facilmente all’ascolto dell’altro.

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Quali sono questi vantaggi e perché?

Chi si dedica al volontariato, in genere si inserisce in un contesto sociale e in un gruppo che è composto da persone che possono avere interessi comuni; ci si relaziona molto, ci sono tanti confronti e si lavora spesso e volentieri in gruppi e squadre. L’inserimento in questi contesti può quindi dare tanti vantaggi psicologici alla persona che ne fa parte; ad esempio ci si distrae dalle preoccupazioni, perché lo stare insieme agli altri riduce il tempo che una persona può passare a rimuginare su un pensiero brutto.

Altro elemento importante riguarda il “senso di appartenenza” e la convinzione che ciò che si sta facendo è molto importante per gli altri e per la propria comunità. Immergendosi in questo contesto si hanno conferme e feedback dagli altri, quindi il proprio impegno ha un senso tangibile.

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Altro vantaggio riguarda l’aspetto puramente sociale. Il volontariato permette di ampliare le proprie conoscenze, le proprie relazioni d’amicizia e il proprio bagaglio culturale. Tutto ciò stimola la fiducia nelle proprie capacità e favorisce un atteggiamento più ottimista verso la vita. Addirittura alcuni studi hanno osservato che impegnarsi nel volontariato in periodi in cui si è in cerca di un’occupazione, aveva un effetto positivo, che poteva aiutare anche nell’obiettivo finale della ricerca.

Ovviamente come in tutte le attività alcune volte capita che le aspettative sull’attività del volontariato e sul gruppo di persone che incontrano, non corrisponda alla realtà dei fatti e ciò può indurre le persone a vivere negativamente l’esperienza del volontariato. Le persone in questo caso si sentiranno deluse e frustrate. Probabilmente in questi casi quel tipo di attività di volontariato non è pienamente compatibile con la persona e con le proprie prerogative. Insomma può essere solo una scelta sbagliata.

“Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi

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“Devo averti, anche se non mi servi”.. Che cos’è lo shopping compulsivo.

Black friday… Natale alle porte.. compleanno o semplicemente voglia di premiarsi, sono queste alcune delle situazioni in cui si sente il bisogno di concedersi un premio materiale (acquistare make-up, borse, scarpe o videogiochi). L’idea di concedersi un premio, un regalo, non è di per sé errata (specie se arriva dopo un lungo periodo di desiderio della cosa), ma in alcuni casi il meccanismo che regge la diade “desiderio/bisogno”, che per loro natura non coincideranno mai, viene sovvertito.

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Lo shopping compulsivo (sindrome da acquisto compulsivo), è un disturbo del controllo degli impulsi, caratterizzato dal desiderio compulsivo e incontrollabile nel fare acquisti. Colui o colei che ne sono affetti, sperimentano un impulso irrefrenabile nel fare acquisti che (anche se) riconosciuti come superflui, eccessivi o inutili, vengono ugualmente compiuti. Questa difficoltà a tenere sotto controllo l’impulso e il ripetersi forte e continuo degli episodi di acquisto compulsivo,comporta ingenti danni dal punto di vista economico, psicologico, sociale e familiare.

Le statistiche raccontano di un fenomeno che riguarda tendenzialmente le donne tra i 20 e i 40 anni (che hanno raggiunto l’indipendenza economica), anche se non sono esclusi gli uomini (di qualsiasi età), con una percentuale in aumento. Inizialmente queste persone sono acquirenti “normali”, intendendo con ciò il fatto che acquistino beni che realmente servono loro. Successivamente però, subentra uno stato di ansia (incontrollabile) sempre più forte tale da obbligare la persona ad acquistare qualsiasi cosa; una volta compiuto l’acquisto, però, segue un crescente senso di colpa innescato dal prendere una sorta di momentanea coscienza derivante dal vedere quanti soldi (per l’ennesima volta) sono stati spesi, proprio a causa della mancanza di controllo che ha portato all’agito compulsivo.

Dai racconti degli shopper compulsivi, viene spesso evidenziato come vi sia un bisogno (urgente e totalizzante) di ottenere “quella determinata cosa”, tanto da essere costretti a passare all’atto perchè questo bisogno è percepito come irrefrenabile. Questa spinta all’acquisto (definita buying impulse), si presenta pertanto come una spinta invalidante e distruttiva che preme per essere soddisfatta, motivo per cui i compratori compulsivi hanno l’urgenza di acquistare continuamente beni (questa spinta tuttavia, non sarà mai pienamente soddisfatta, pertanto l’acquisto sarà continuamente perpetrato).

Tale disturbo è annoverabile per somiglianze, ad altre forme di dipendenza e presenta pertanto elementi come il craving (l’incapacità di controllare l’impulso) o l’astinenza (le crisi sperimentate quando si è impossibilitati a compiere l’acquisto).

La pericolosità dello shopping compulsivo è (come accennato in precedenza) legata soprattutto alle ripercussioni che si hanno sulla vita economica, familiare, sociale e lavorativa. I continui problemi generati dall’incapacità nel controllo degli impulsi, oltre a comportare ingenti danni economici (questi soggetti possono tranquillamente arrivare ad indebitarsi, pur di continuare con i propri acquisti), sono legati anche all’ansia o alla depressione sperimentate quando ci si rende conto che si ha un problema nel controllare i propri impulsi.

Sarebbe pertanto d’uopo considerare piuttosto precocemente l’idea di rivolgersi ad uno psicoterapeuta per comprendere le radici più profonde di un problema spesso sottovalutato; perchè abbiamo continuamente bisogno di riempirci di oggetti? perchè le cose non ci bastano mai? perchè non riesco a godere di quello che già ho e devo invece sostituirlo continuamente con qualcosa di nuovo? Di cosa sento bisogno/necessità?

Dott.ssa Giusy Di Maio

Paura o indifferenza? Il caso di Kitty Genovese e l’assunzione di responsabilità.

Nel 1964 a New York, un triste caso balzato alle cronache diede il via a tutta una serie di ricerche nell’ambito della psicologia sociale. Una donna di nome Kitty Genovese venne aggredita durante la notte da un uomo che armato di coltello la colpì ripetutamente, fino a lasciarla a terra agonizzante. Kitty Genovese urlò così tanto, da svegliare 38 persone che ben presto si affacciarono alla finestra. Queste persone riuscivano a vedere cosa stesse accadendo in strada e si vedevano l’un l’altro; nonostante ciò, nessuno di loro chiamò la polizia prima di mezz’ora. Durante questo tempo di stallo però, l’assassino non stette parimenti con le mani in mano, ma anzi.. ebbe tempo di ritornare indietro e continuare ad infliggere ulteriori coltellate alla donna la quale, ben presto morì.

Salvo ulteriori specificazioni, Fonte Immagine “Google”.

Cosa era accaduto?, Perché nessuna di quelle 38 persone chiamò la polizia non appena Kitty Genovese iniziò ad urlare? Gli psicologi hanno pertanto cercato di indagare sperimentalmente la questione, per provare ad evidenziare quali possano essere degli elementi legati alle circostanze che possono influire (spesso in modo determinante) sulla dimensione altruismo/egoismo, prima di mettere in atto una determinata decisione (che spesso andrebbe presa, come in questo caso, in pochi secondi).

Una delle spiegazioni maggiormente utilizzate dagli psicologi, concerne la possibilità di andare a considerare non i vantaggi (per l’individuo o la specie) del comportamento altruistico (in questo caso la possibilità di salvare una vita, o di sentirsi utili), ma le circostanze che, a parità di altre condizioni, rendono più frequente aiutare o meno un’altra persona.

L’ipotesi proposta di basa sul concetto di assunzione di responsabilità: quanto più un individuo si sente investito della responsabilità di intervenire (per aiutare qualcuno o porre rimedio a una determinata situazione), tanto più è probabile che lo faccia. Sono svariate le circostanze che determinano l’essere o il sentirsi responsabili; tra queste ad esempio avere una posizione di “potere” , come essere il capogruppo o il leader. Altre volte sono circostanze accidentali (come il numero degli individui che si trovano sul luogo di un incidente) a determinare se un individuo che chiede aiuto, sarà o meno soccorso. Cosa c’entra quanto appena detto, con il caso di Kitty Genovese?

Due psicologi sociali John Darley e Bibb Latanè, hanno dedicato gran parte della loro ricerca al fenomeno dell’assunzione di responsabilità. Secondo i due autori, è possibile riassumere in cinque punti il processo che porta a prendere o meno la decisione di intervenire.

  1. si presenta una situazione (almeno potenziale) di pericolo
  2. la situazione deve essere definita come un caso di emergenza
  3. la persona che viene a conoscenza del pericolo deve sentire la responsabilità di intervenire in aiuto
  4. questa persona deve avere qualche idea su cosa fare per aiutare
  5. la persona accorre in aiuto.

Il focus delle ricerche dei due autori riguarda il punto 3. Gli psicologi hanno infatti studiato in maniera approfondita le condizioni nelle quali un individuo si sente più o meno responsabile di ciò che accade al suo prossimo. Ciò che viene evidenziato è che non sono tanto importanti le caratteristiche (personalità) di chi deve prestare aiuto, o quelle della persona da aiutare; non è altresì importante l’eventuale pericolosità o gravità dell’intervento. L’ipotesi di Darley e Latanè è invece: quanto più numerose sono le persone che in una data circostanza di pericolo o emergenza sono effettivamente in grado di accorrere in aiuto, tanto meno ciascuna di loro si sentirà investita della responsabilità di agire. In sostanza ciascuno penserà “perchè devo farlo io, sicuramente lo avrà già fatto qualcun altro”.

Sembra quindi che quella sera l’unica “colpa” di Kitty Genovese, sia stata che troppe persone abbiano udito le sue urla disperate.

E voi? Avreste aiutato Kitty Genovese? Pensate di essere persone altruiste oppure no?

Dott.ssa Giusy Di Maio.

Sono esausto! Quando lavorare diventa una forma di disagio a tutti gli effetti.

 

Lavorare è un termine che fin dalla sua etimologia latina “labor” (fatica), mostra il carattere di sofferenza, dolore, insito nell’azione stessa. Strizzando l’occhio anche al resto d’Europa, la situazione non cambia : per i francesi “travaillè” indica dolore, per i tedeschi “Arbeit” comporta “servitù”.

Com’è pertanto possibile che l’attività che dovrebbe rendere l’uomo artefice della propria esistenza , consentendogli non soltanto di provvedere al proprio (e familiare) sostentamento, ma anche la sua piena espressione, possa essere fonte di sofferenza e dolore?

Attualmente il mondo del lavoro continua a subire profondi cambiamenti, appare dunque difficile darne una descrizione dovendo muoversi tra contratti sempre più inesistenti, orari di lavoro sempre più lunghi e mal pagati, qualifiche prima richieste (obbligando il personale a ricorrere magari a corsi a pagamento), per poi sentirsi dire in un secondo momento, che “le troppe qualifiche” non servono per il posto da occupare. In questo mondo così vacillante e incerto , anche coloro che magari un posto “fisso” lo hanno, possono incorrere in difficoltà.

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Burnout – esempio di stress cronico.

Il burnout indica un disagio professionale esito di uno stress cronico, identificato dapprima nell’ambito delle occupazioni sociali e sanitarie, fino ad estendere le proprie radici nelle diverse professioni di aiuto e in quelle in cui è fortemente richiesto lavorare rapportandosi con le persone. .

Il burnout  è caratterizzato da tre componenti:

  • depersonalizzazione: aumenta la distanza psicologica  tra l’operatore (colui che presta il servizio con il proprio lavoro) e l’utente (colui che ha bisogno dell’assistenza) che viene percepito negativamente
  • esaurimento emotivo: dovuto a eccessivo coinvolgimento emozionale che comporta una sorta di effetto boomerang, per cui l’operatore tenderà a provare sempre meno empatia
  • il senso di ridotta autorealizzazione: ci si sente incapaci di poter realizzare sia nel lavoro, che nel rapporto con gli altri, le proprie capacità e aspettative

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Il lavoratore è ancora presente sul lavoro, nel senso che continuerà ad andare quotidianamente a lavorare, ma mostra crisi d’identità, non riconoscendosi nè come persona, nè come lavoratore. La persona tenderà pertanto a mettere in atto risposte difensive come rigidità, indifferenza, apatia, oppure atteggiamenti quali comportamento aggressivo , tono della voce alto, improvvise crisi di rabbia. 

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Il burnout è in definitiva, un disagio da non sottovalutare. Bisogna sempre essere molto accorti e sensibili quando, nel mondo del lavoro, scorgiamo o avvertiamo segnali di disagio.  Non sottovalutiamo un collega (o noi stessi), se incominciamo a provare disagio quando semplicemente pensiamo di dover andare a lavoro . E’ molto importante intervenire tempestivamente al fine di contenere una possibile escalation del fenomeno.

 

Dott.ssa Giusy Di Maio