Un recente studio sembra confermare la nota idea secondo cui la fame ci renda più irritabili e meno propensi e inclini a godere delle sensazioni piacevoli.
Se ci fate caso, il temine con cui in inglese si indica la fame hungry, è molto simile al termine angry che indica la rabbia. Gli anglosassoni hanno, inoltre, coniato un termine colloquiale per indicare ambedue le sensazioni : hangry.
Uno studio pubblicato su PLoS One, mostra come la sensazione della fame, porti i soggetti a sentirsi più arrabbiati e irritati. Questo studio è stato condotto per la prima volta, fuori dal laboratorio; i ricercatori hanno monitorato l’effetto della fame sulle sensazioni delle persone.
Il team, guidato da Stefan Stieger, della Karl Landsteiner University of Healt Sciences in Austria, ha mostrato che la sensazione di fame è direttamente collegata all’aumento dello stato di irritabilità nel 37% dei casi, a un aumento della rabbia nel 34% dei casi e alla diminuzione delle sensazioni di piacere nel 38% dei casi.
Tali effetti sembrano essere indipendenti da fattori come il sesso, età, indice di massa corporea o tratti di personalità particolari.
Era già noto, in letteratura, che il cibo avesse particolari legami con le emozioni, ma il legame con le sensazioni piacevoli o spiacevoli non era ancora stato ancora confermato.
Gli autori dello studio riferiscono
“Nonostante la ricerca non proponga modi per mitigare le emozioni negative indotte dalla fame, i risultati suggeriscono che essere in grado di riconoscere l’origine può aiutare a regolare la loro intensità”.
Si tratta, tuttavia, di una ricerca unica nel suo genere perché fornisce un quadro completo di come le persone sperimentano gli esiti emotivi della fame nella vita di tutti i giorni.
La Sindrome da Alimentazione Notturna è stata descritta per la prima volta nel 1955 da Albert Stunkard.
Questa sindrome è ormai riconosciuta come un Disturbo del Comportamento Alimentare ed è inserita nel DSM IV (come disturbo alimentare non altrimenti specificato) e più recentemente nel DSM V (nella categoria “Other Specified Feeding or Eating Disorder”).
Nello specifico questo disturbo è caratterizzato da una perdita del controllo sul cibo durante le ore notturne (iperfagia serale) e un alimentazione quasi nulla durante le ore diurne. Che significa generalmente, scarso appetito durante il giorno e anoressia mattutina. In genere la quantità di cibo consumata di sera e di notte è tra il 25% e il 50% dell’introito energetico giornaliero.
Questo Sindrome può essere associata anche a disturbi del sonno. Infatti, chi ne soffre, si sveglia durante le ore notturne per consumare grandi quantità di cibo calorico (snack, patatine, gelato..). Spesso vengono consumati cibi ricchi di carboidrati e dolci. Vengono quindi consumati per lo più cibi di conforto e ipercalorici.
Le persone con questo disturbo hanno spesso problemi di sovrappeso o di obesità. Le loro abbuffate notturne sono caratterizzate da vissuti di tensione, stress, ansia, paura e sensi di colpa, quando finiscono di mangiare. Descrivono inoltre un grande senso di inadeguatezza, sconforto, angoscia, disgusto per se stessi e rimorso per il loro comportamento. Provano vergogna a riferire dei propri problemi e tendono a nascondere il cibo che consumano, agli altri.
Questo disturbo del comportamento alimentare è speso collegato con disturbi legati allo stress e alla depressione, ma anche a immagine di sé negativa, perfezionismo e preoccupazione per il proprio peso e per la propria forma. Il cibo è come se venisse usato come “automedicazione”; una sorta di “ristoro” emotivo dopo giornate passate a rimuginare su pensieri negativi o vissuti d’ansia, stress e depressione.
Secondo il National Istitute of Mental Health questo problema tocca circa l’ 1,5% della popolazione, senza differenza di genere e circa il 6/16% dei soggetti obesi.
Come per altri disturbi alimentari, un trattamento efficace per la Sindrome d’Alimentazione Notturna richiede in genere un approccio multidisciplinare.
In genere si inizia informando i pazienti sulla loro situazione, poi lavorando sulla consapevolezza e sugli aspetti emozionali e psicologici, si può procedere attraverso una sorta di rieducazione ai modelli alimentari corretti. Questo lavoro necessita ovviamente di un approccio multidisciplinare con lo Psicoterapeuta e il Nutrizionista (o Dietologo). A questi interventi può essere molto utile affiancare anche una “riabilitazione fisica”, attraverso l’introduzione di esercizio fisico. Ovviamente nei casi in cui vi è una comorbidità con altri disturbi psichiatrici può essere necessaria anche una terapia farmacologica.
Possono le nostre emozioni condizionare le nostre scelte alimentari? In che modo possono spingerci a mangiare meglio, di più o di meno? Lo stato d’animo che abbiamo in un determinato momento (arrabbiati, sereni, allegri, tristi, ansiosi, positivi) può condizionarci e orientare le nostre preferenze alimentari?
Le nostre emozioni e gli stati d’animo, uniti ad una modalità comportamentale orientata alla ricerca del soddisfacimento immediato hanno inevitabilmente una conseguenza diretta, che riguarda l’assunzione di cibo e che può incidere anche sul nostro peso.
Quello che viene definito da M.P. Gardner come “mangiare emotivo” è una modalità di comportamento piuttosto frequente nelle persone e che, a lungo termine, può portare al sovrappeso e all’obesità.
Secondo l’ipotesi di Gardner, in diverse situazioni, le persone con problemi di obesità, possono essere condizionate nella scelta del cibo da mangiare, sia dal tono dell’umore che da una percezione del tempo “particolare”, che induce le persone a soddisfare il bisogno subito. Questo modo “irruento” di soddisfare il bisogno e lo stimolo della fame (legato al tono dell’umore), non permette alle persone di percepire lucidamente al momento i “danni” (a lungo termine) del cibo di conforto (confort food), ma solamente i benefici derivati dall’assunzione di quel cibo in quel momento.
Praticamente, queste persone non penseranno al fatto che mangiare cibi con moltissime calorie (ma saporiti) per compensare stati emotivi negativi, a lungo andare farà prendere loro molti chili, con la probabilità di poterli far ammalare in futuro. Penseranno, invece, al piacere immediato, e alla sensazione di sollievo che quei cibi possono dargli nell’immediato.
Numerose ricerche nell’ambito della psicologia del comportamento e della prevenzione dell’obesità negli adulti e bambini hanno accertato che:
Essere di buonumore spinge a guardare al futuro, desiderare di vivere in salute e scegliere, di conseguenza, cibi sani e nutrienti.
Vivere uno stato d’animo negativo spinge a prediligere un’immediata soddisfazione del bisogno di gestire, nel concreto, il cattivo umore, attraverso il consumo di cibi “comfort”.
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Insomma, oggi è sempre più indicato un approccio integrato con l’Esperto in Nutrizione e lo Psicologo per rendere efficace e risolutivo un percorso personale di rieducazione alimentare e supporto psicologico. Inoltre, in alcuni casi, è necessario intraprendere anche un percorso di Psicoterapia per affrontare aspetti del proprio vissuto personale che possono assumere un “peso specifico” nella propria storia di obesità e nel vissuto emozionale correlato.
Da un po’ di anni a questa parte una delle problematiche più allarmanti e preoccupanti per la salute psico-fisica è legata all’obesità. In generale, le stime e i dati che diffondono le diverse organizzazioni (Helpcode , Istat) sono emblematici di un problema sempre più diffuso che ha molte sfaccettature e per questo assai complesso.
Si stima che l’Italia (L’indagine multiscopo “Aspetti della vita quotidiana” del 2016, a opera dell’Istituto Nazionale di Statistica, fornisce una chiara visione delle abitudini alimentari della popolazione italiana. Nello specifico si rileva che il 45,9% della popolazione di età ≥18 anni ha un peso ponderale in eccesso, di cui il 35,5% sovrappeso e il 10,4% obeso, mentre il 51% è in condizione di normopeso e il 3,1% è sottopeso) sia uno dei paesi europei più affetti da sovrappeso e che al sud (trend dei bambini in sovrappeso è superiore al 35%) ed in particolare in Campania il problema riguarda il 44,1% dei bambini (primato nazionale). I dati del 2015 sono stati poi confermati nel 2019. L’obesità è un problema molto serio, è una sindrome complessa e multi determinata, può diventare una malattia cronica invalidante, che porta inevitabilmente ad una grossa spesa sanitaria, ad una qualità di vita peggiore e ad una riduzione dell’aspettativa di vita.
I motivi che spingono un bambino, un adolescente, una persona, una famiglia a sviluppare abitudini alimentari scorrette e quindi portare all’obesità, come ho accennato in precedenza, possono essere molti (metabolici, genetici, psicologici, economici, sociali, culturali).
In generale, si può affermare che nei casi di obesità infantile viene evidenziata spesso una difficoltà delle madri a riconoscere quelli che sono i bisogni fisiologici, affettivi ed emozionali del loro bambino. Quindi, come conseguenza, si può osservare una propensione ( da parte della madre e di tutti i componenti della famiglia) a tranquillizzare con il cibo ogni segnale di disagio del bambino.
In tal senso, se il cibo verrà utilizzato ogni volta come mezzo per consolare qualunque sia la causa del malessere del bambino, questi “crescerà con idee confuse e sarà incapace di distinguere tra l’avere fame e l’essere sazio, tra il bisogno di mangiare e altri stati di tensione o disagio”.
L’incongruenza delle risposte degli adulti di riferimento al bambino, priva il bambino di alcune capacità essenziali (cognitive ed emotive) necessarie a costruire una identità capace di poggiare su basi e fondamenta “sicure”.
In particolare, è stato evidenziato in diversi studi, che le dinamiche familiari e le relazioni che le caratterizzano abbiano un ruolo decisivo nel mantenimento e nella cronicizzazione di tale patologia. Nelle famiglie “obese” il cibo è un tramite emotivo, un mezzo attraverso il quale le relazioni, le frustrazioni vengono filtrate. Gli obesi crescono in ambienti familiari restrittivi e ipercontrollanti, dove il cibo è protagonista, nel bene e nel male. Frustrazioni, sensi di colpa, affetti, emozioni, sono tutti placati e resi più “accettabili” dal cibo. In particolare, in alcuni studi è stato evidenziato che le madri dei ragazzi obesi tendono ad avere un atteggiamento di possessività nei confronti dei loro figli e abbiano come centro esclusivo di interesse, la propria famiglia. Assumendo atteggiamenti sacrificali, vogliono che tutti riconoscano acriticamente il proprio ruolo centrale, nella famiglia. “Le modalità di relazione e cura appaiono dunque sostenute più dall’esigenza materna di appagare ansie e bisogni propri piuttosto che da una sintonizzazione sulle effettive esigenze del figlio”.
In tal senso il comportamento di iperalimentazione nei bambini obesi ( ma riscontrabile anche negli adulti) sarebbe legato alla tensione generata dai contatti sociali o da un senso di vuoto interno, di noia e dalla sensazione di non avere più un vero è proprio controllo sulla propria vita. Inoltre si potrebbe dire che l’iperfagia possa essere considerato un modo per difendersi dall’ansia e dalla depressione, in quanto (usando una visione dinamica) attraverso l’incorporazione del cibo implicitamente si vuole negare la “perdita dell’oggetto familiare”. Riempirsi di cibo allontana l’attenzione da se stessi e da pensieri ed emozioni difficili da sostenere, come la rabbia, il desiderio, l’ansia, la paura, le difficoltà quotidiane. Il “corpo pieno” diventa così un salvagente, una corazza che contiene e consola. “Il cibo rappresenta fonte di sostegno, conforto, soddisfazione per i soggetti e la risposta immediata al controllo delle emozioni”.
Le persone obese, in particolare le donne, Si riferiscono al
proprio corpo come qualcosa di estraneo, non riescono ad identificarsi con
questo “oggetto” antiestetico e scomodo in cui si sentono rinchiusi.
“Di conseguenza la
comprensione delle dinamiche alla base dei pattern comportamentali del paziente
obeso è un asse centrale per la programmazione di futuri interventi preventivi
e riabilitativi, mirati non solo al controllo dei comportamenti alimentari
disfunzionali, ma anche alla ristrutturazione delle credenze irrazionali su se
stessi e sulle proprie competenze, alla gestione flessibile dell’affettività,
al ristabilire un equilibrio emotivo tra interno ed esterno, rendendo il paziente
protagonista attivo del suo trattamento”.
È auspicabile, per la gestione degli interventi psicoterapeutici, di riabilitazione e prevenzione tener conto sia delle caratteristiche psicologiche e relazionali condivise dalla popolazione obesa sia di quelle del singolo individuo e della famiglia, per una loro efficienza ed efficacia a lungo termine.
Articoli Consultati:
“L’obesità in adolescenza: fattori psicologici e dinamiche familiari”, E. Trombini – Recenti Progressi in Medicina,98,2,2007 –
“Il metodo Rorschach per la valutazione dell’obesità: studio clinico su un gruppo di donne obese”, SABINA LA GRUTTA1*, MARIA STELLA EPIFANIO1,NANCY MARIA IOZIA1, ANNA MARINO1, ROSA LO BAIDO2 – Riv Psichiatr 2018; 53(1): 53-59.