Siamo davvero sicuri di saper ascoltare l’altro? Ascoltare (e comprendere il vissuto emotivo dell’altro), è un’azione molto più complessa di quanto siamo disposti ad ammettere. Capire come si sente l’altro non vuol dire sostituirsi completamente al suo vissuto emotivo..
I conflitti e le incomprensioni, con il partner, con i figli, con i colleghi, sono spesso legati a difetti di comunicazione. La comunicazione è uno strumento eccezionale e fondamentale, ma non viene usato sempre nel modo giusto.
Fortunatamente c’è la possibilità di comprendere i difetti e gli errori di comunicazione in cui perseveriamo e imparare ad evitarli e quindi ad utilizzare al meglio le nostre abilità comunicative.
Ad esempio, le parole spesso vengono utilizzate male e magari danno solo l’illusione a chi le usa di aver comunicato qualcosa di chiaro e definito, ma in realtà “comunicano” solo confusione o messaggi incomprensibili, a chi le ascolta.
Alcuni parlano moltissimo, ma non ascoltano gli altri e le loro risposte, creando così fraintendimenti, frustrazione o noia nell’altro, che diventa, suo malgrado, esclusivamente un ascoltatore passivo.
Tante volte, nelle terapie con i giovani e gli adolescenti e le loro famiglie, osservo che alla base dei conflitti tra i membri della famiglia e dei disagi psicologici individuali, ci sono dei veri e propri “vuoti comunicativi” causati da una mancanza di una comunicazione autentica e chiara tra i genitori e i figli.
Ad esempio, atteggiamenti intransigenti e uno stile comunicativo inquisitorio e/o giudicante può creare oppositività, incomprensioni, rabbia, frustrazione, confusione..
Per favorire il dialogo è utile partire dal presupposto che probabilmente se uso un tono e uno stile comunicativo con gli altri, che trovo personalmente desiderabile, allora anche gli altri lo useranno con me. Inoltre se vogli creare una interazione soddisfacente e costruttiva, devo “parlare” di argomenti che possono favorire il dialogo con chi ho davanti.
Ciò significa che un adulto parlerà con un bambino anche per il solo piacere di ascoltarlo e non solo per dovergli insegnare qualcosa, per dargli “una lezione”, per farsi obbedire o per imporre il suo punto di vista di adulto. Lo scambio interattivo in una comunicazione è sempre a doppio senso; quindi non basta che il figlio si metta a parlare di sé e delle sue cose al genitore, ma è necessario che anche il genitori ricambi, parlando di sé al figlio.
Bisogna sempre considerare che una buona comunicazione si comincia a costruire in famiglia a partire dall’infanzia.
“Un ascolto che fa mostra di comprendere ciò di cui l’altro soffre non è ascolto, è paura di ascoltare; anche questa sarà una perversione del linguaggio: qualificare come “umanista” un ascolto impaurito, “neutro” e “benevolente”, mentre ciò che oggi si può intendere è che questo “umanesimo dell’ascolto” può mascherare barbarie o indifferenza”.
Pierre Fédida.
Sintonizzarsi con l’altro essendo/CI comporta la possibilità di entrare in gioco come dualità in costruzione e in incontro (incontro e ascolto empatico, spoglio di tutte quelle sovrastrutture che mettono il mio desiderio e il mio essere, prima del tuo, creando – invece- una circolarità in cui entrambi ci sentiamo al sicuro e sicuri di poter esprimere il nostro essere).
“Quando qualcuno ti ascolta davvero senza giudicarti, senza cercare di prendersi la responsabilità per te, senza cercare di plasmarti, ti senti tremendamente bene. Quando sei ascoltato e udito, sei in grado di percepire il tuo mondo in modo nuovo ed andare avanti”.
Carl Rogers.
La capacità di attuare un ascolto empatico, sincero e attento è un cardine della mia professione; qualcosa in cui da sempre credo. Il canale uditivo (a cui sono legata anche a causa dell’altra parte delle mia vita, quella fatta di suoni e musica) ha il potere di creare sintonizzazione con il detto e il non detto.
Ognuno può dire “cosa meglio crede”; le parole possono essere usate in un certo senso a piacimento e di converso, colui o colei che ascolta può filtrare l’informazione e comprenderla (o meno), come meglio crede.
I suoni: acuti, gravi, sussurrati, soffiati ad orecchie più o meno empatiche dicono di noi; raccontano o restano muti..
Dire mentre non si dice o non dire mentre si dice, implica avere dall’altro lato qualcuno che sia pronto a ricevere una informazione non necessariamente chiara, a cui non va applicato giudizio, a cui non va risposto “tu sei”.. ma
Molti genitori vivono il momento della “prima parola” detta dai propri figli, come un momento denso di apprensione. Mamme, papà e nonni vivono talvolta con ansia il momento in cui il proprio bambino dirà la fatidica parolina magica “mamma”.
Molti pensano che il proprio bambino sia un genio “com’è precoce.. come è avanti con lo sviluppo”.. altri di converso vivono con timore il fatto che “questo/a ancora non parla”..
Come si sviluppa pertanto il linguaggio nei bambini? Scopriamolo insieme.
Buona lettura.
Lo sviluppo del linguaggio nei bambini sembra essere una capacità così precoce, tale da evidenziare una predisposizione biologica nello sviluppo di tale funzione.
Sin dalla nascita, infatti, il neonato riesce a cogliere la simmetria esistente tra i suoni uditi e i movimenti delle labbra di colui che emette il suono. In una ricerca del 1979, Dodd evidenziò come i bambini fossero capaci già a 3 mesi, di distogliere lo sguardo ogni volta che si trovavano innanzi una persona che pronunciava delle parole a cui, non corrispondevano i movimenti delle labbra; è emerso inoltre che i bambini – nello stesso periodo di sviluppo- , tendano a preferire l’ascolto di una persona che nel parlare mantiene le normali caratteristiche del linguaggio parlato (in termini di pause e intonazione), piuttosto che un tipo di linguaggio meno regolare e di converso più confuso.
Intorno ai 6 mesi di vita il bambino riesce a discriminare tutti i contrasti fonetici, anche quelli non presenti nella lingua madre. Questa abilità però dopo gli 8 mesi viene persa poichè il bambino sarà più portato a discriminare i suoni della lingua madre a cui è esposto. A tal proposito- ad esempio- studi sui bambini cinesi dimostrarono che questi bambini dopo gli 8 mesi, non sono più in grado di discriminare la r dalla l in quanto nella loro lingua madre non v’è distinzione tra i due fonemi.
La comprensione del linguaggio ne precede la sua produzione: prima di parlare infatti, comprendiamo.
Secondo Markman (1980) nel procedere con la comprensione di una parola, un bambino costruisce e segue tutta una serie di ipotesi che sono biologicamente predeterminate. All’inizio il bambino procede seguendo l’oggetto interno per cui apprenderà che un “nome di”, riferisce a quell’oggetto nella sua globalità; dopo aver appreso il nome, si passa alla generalizzazione secondo cui quel nome non è legato solo a quel dato oggetto, ma a tutti gli oggetti a lui simili. Successivamente si passerà a discriminare e ampliare attraverso sinonimi o classi quella parola appresa da altre che possono poi significare altre cose:
La parola margherita indica inizialmente quello specifico fiore indicato così dagli altri (oggetto interno); successivamente con la generalizzazione, il termine margherita viene estesa a tutto ciò che essa circonda “erba, terreno” a tutto ciò che con essa si può fare “profumarla, regalarla” e a tutti gli altri fiori che le somigliano. Con la discriminazione il bambino capirà che “margherita” non sostituisce la parola “fiore”, ma che la comprende così come “infiorescenza”.
Secondo gli studiosi (Markman e Hutchinson, 1984), queste capacità non sono apprese tramite le osservazioni, ma sono inscritte nei geni e si sono evolute insieme all’uomo stesso.
Se noi siamo pronti ad ascoltare, i bambini parlano… eccome se parlano!
La vita dell’essere umano è scandita fin da subito (dall’esperienza intrauterina), dalla presenza del ritmo. Le esperienze prenatali includono infatti la regolare presenza del battito cardiaco e del respiro materno; esperienze a cui seguirà dopo la nascita l’uso di tutta una serie di “suoni” che chi si prende cura del bambino, userà per comunicare con quest’ultimo/a. Tra i primi suoni utilizzati per comunicare o attirare l’attenzione del bambino, abbiamo l’uso delle filastrocche o ninnenanne.
Le filastrocche o comunque tutte quelle canzoncine usate, sono di solito caratterizzate da elementi comuni ovvero: estrema regolarità, semplicità e ripetitività. Si tratta in sostanza di canzoncine molto semplici (sia dal punto di vista ritmico che melodico), che riescono a creare come una sorta di sospensione, di attesa, un “prima o poi qualcosa accadrà”, che riesce a tenere i bambini calmi e sereni, analogamente a quanto accadeva quando nell’esperienza intrauterina erano cullati e coccolati dal suono della voce materna.
Numerose ricerche hanno affrontato il tema poc’anzi esposto. In generale si potrebbe dire che tutti nasciamo con una “certa” predisposizione ai suoni (proprio in vista delle esperienze intrauterine vissute), tuttavia i ricercatori hanno deciso di indagare ulteriormente la questione. Si è quindi deciso di valutare se, in qualche modo, essere sottoposto a giochi o attività musicali abbastanza precocemente possa rendere successivamente più bravi a distinguere/riconoscere i suoni oppure a percepirne la loro regolarità/irregolarità. La domanda a cui provare a rispondere diventa pertanto se l’allenamento possa essere un valido aiuto nello sviluppare la capacità di elaborazione dei suoni, oppure se solo chi in partenza ha una sensibilità più spiccata è poi successivamente più propenso a dedicarsi alla musica.
Christina Zhao e Patricia Kuhl, dell’Università di Washington, hanno distinto le due possibilità dividendo circa 40 bambini di nove mesi in 2 gruppi e facendoli poi giocare per un mese con i genitori: un gruppo ha ascoltato musiche complesse (ad esempio un Valzer) aiutando i genitori a batterne il ritmo mentre l’altro gruppo si è dedicato a giochi come quello delle macchinine; gioco simile a quello dell’altro gruppo (in termini di intensità e interazione di movimenti), ma senza musica.
Lo step successivo è stato far ascoltare altre musiche dai ritmi simili ma con anomalie e interruzioni del ritmo. I successivi esami dell’attività cerebrale (magnetoencefalografia) hanno mostrato che chi aveva ascoltato musica attivava di più le aree uditive e la corteccia prefrontale in risposta alle anomalie; si dimostrava pertanto una maggior capacità di attenzione e analisi dei suoni. Il dato interessante fu tuttavia un altro, ovvero che questi bambini erano anche maggiormente capaci di attivare una “risposta” in seguito all’ascolto di una lingua straniera.
“L’ascolto musicale precoce sembra migliorare la capacità dei bambini di decodificare suoni complessi individuandovi regolarità, un aspetto importante nella comprensione del linguaggio, e quindi potrebbe favorire anche l’apprendimento linguistico”, Zhao et Kuhl, “Proceedings of the National Academy of Sciences”.
L’importanza dell’educazione all’ascolto musicale fu compresa anche da Maria Montessori che nel suo testo “Il metodo della pedagogia scientifica”, comprese come “la musica aiuta e potenzia capacità di concentrazione, ed aggiunge un nuovo elemento alla conquista dell’ordine interiore e dell’equilibrio psichico del bambino” evidenziando inoltre come questa capacità fosse di sostegno allo sviluppo del linguaggio e all’ampliamento del vocabolario.
Da musicista e psicologa ho sempre sostenuto l’importanza della musica. Credo sia fondamentale potenziare l’educazione all’ascolto; la capacità di concentrazione e sintonizzazione sul proprio e altrui Sè, che ascoltare un qualsiasi pezzo musicale richiede, è un potente mezzo nonchè una potente risorsa che l’essere umano ha. Investiamo tanto tempo nella velocità del nostro tempo moderno, dimenticando di fermarci ogni tanto, anche solo per una piccola pausa. E’ la musica che ce lo insegna.. ogni tanto prendiamo un piccolo respiro, un piccolo silenzio tra le mille note che riempiono la nostra giornata e impariamo ad ascoltare.. più intensamente. Di più.