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L’autolesionismo

L’autolesionismo (in adolescenza) si potrebbe definire come una forma di aggressività auto diretta atta a “scaricare e svuotare” una sensazione di “pieno” malessere interiore che può essere legato a situazioni personali o interpersonali..

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“Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi

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Adolescenti violenti: #autolesionismo #psicologia #adolescenza (promozione del benessere psicologico).

Se una cosa significa “qualcosa”, vuol dire che significa per qualcuno e se significa per qualcuno, merita la nostra attenzione.

Cosa sta accadendo ai nostri giovani? Perché tutte queste forme di malessere, tutte queste forme di acting out?

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Abbiamo innanzi un crescente, dilagante e preoccupante aumento di condotte aggressive/violente attuate dai nostri adolescenti. Aggressività verbale e fisica, forme di autolesionismo (cutting), tutte forme di malessere agito e non più solo pensato, nascosto. Cosa potrebbe significare questa forma di acting out che ci rende visibile, sempre di più, il malessere che i nostri adolescenti stanno vivendo? Sono realmente solo delinquenti o può esserci qualcosa in più? Una riflessione da fare, insieme, su una fase del ciclo di vita (l’adolescenza), tra le più delicate e complesse.

Dott.ssa Giusy Di Maio.

Lacerazione del vestito Identitario: H. e il cutting.

Photo by Andre Moura on Pexels.com

Una ragazza di origini straniere arriva al consultorio su invio della madre. La giovane di 15 anni è in realtà molto felice di essere da noi (le motivazioni intrinseche appaiono pertanto piuttosto forti sin da subito), e H. non ha problemi a raccontarci la sua storia.

Brevemente: la ragazza si presenta come una giovane molto carina e curata; è leggera quando si muove nello spazio, quasi sembra sia fatta di seta, resistente e di spessore sottile. Ciò che colpisce è – tuttavia- una sorta di spettralità che quasi avvolge la ragazza; una sorta di alone di tristezza che si mescola con la sua evanescenza dei movimenti.

La giovane dice di essersi trasferita in Italia con la madre quando lei aveva all’incirca 3 anni; del padre non si sa nulla. La madre aveva un ottimo lavoro nel paese di origine ma ha deciso ugualmente di trasferirsi.

Dalla raccolta anamnestica sappiamo che la famiglia (composta dalle sole 2 donne) si trasferisce frequentemente: pur restando nella stesa regione, la diade cambia comune di residenza almeno 2 volte l’anno. H. non ha amici e nemmeno un fidanzato (cosa che vorrebbe, invece con tutto il cuore); ama il teatro ma non può frequentare nessuna compagnia a causa dei continui trasferimenti; ha smesso gradatamente di mangiare “tanto mangio sempre da sola!” dorme sempre meno (fa un uso smodato delle maratone netflix), non ha interessi per nulla e dice di sentirsi pesante nel petto.

Da successive informazioni e un ulteriore colloquio con la madre, sappiamo che H. da qualche tempo usa infliggersi tagli sul corpo.

Circa il 70% dei giovani tra i 12 e i 14 anni usa provocarsi ferite, piccoli tagli e/o bruciature. L’autolesionismo è stato inserito nel DSM V all’interno dei “disturbi diagnosticati per la prima volta nell’infanzia, fanciullezza e adolescenza” come autolesionismo non suicidario e autolesionismo non suicidario non altrimenti specificato.

Nock, 2006 o Fliege, 2009, evidenziano come l’autolesionismo in adolescenza sia associato con la depressione, relazioni familiari disfunzionali, isolamento scolastico, ansia, etc; sembra inoltre che tale condotta possa essere letta come una strategia disadattiva di coping. Le strategie di coping sono infatti tutte quelle con le quali le persone affrontano le situazioni potenzialmente stressanti. Il coping viene definito come l’insieme degli sforzi cognitivi, affettivi e comportamentali di un individuo attivati per controllare specifiche richieste interne.

Sappiamo – con Freud, 1928- che l’Io è innanzitutto un’entità corporea, è infatti il derivato sia di tutte quelle sensazioni corporee che di quelle provenienti dalla superficie del corpo; è ciò che Winnicott – ad esempio- ci rende noto quando parla dell’handling materno ovvero di tutte quelle attività che riguardano la manipolazione del corpo del neonato (pulizia, massaggi, coccole, e così via).

Sappiamo che H. si trova in quella delicata fase della vita che è l’adolescenza.. un adulto in divenire che lotta continuamente con le spinte regressive (che lo vogliono ancora bambino) e le spinte date dal suo nuovo corpo sensuale e sessuale che chiede e domanda.. un corpo che (si) sente adulto.

Nella labilità identitaria sperimentata da H., labilità che vede non solo la presenza della fase del ciclo di vita connotata dall’adolescenza, ma anche una labilità che fa sì che H., sia una ragazzina senza origine e senza alcun legame con la sua storia familiare, la giovane sembra infliggersi dolore su l’unica parte che sente (forse) ancora appartenerle: la pelle.

H., non ha un padre e non ha un centro stabile, un fulcro generazionale e familiare che la inscrive in un lignaggio di provenienza; un lignaggio che le fa sentire che lei sia parte di quel qualcosa; di quella famiglia, di quel luogo.

H., sperimenta quotidianamente un dolore: il dolore del sentirsi estranea a se stessa, straniera nel suo stesso corpo nudo, sprovvisto di quel vestito identitario che dovrebbe identificarla.

Il dolore psichico forte, impensabile..

Il dolore per quel buco identitario si attesta nel registro del reale con la lacerazione della pelle. Il dolore rende reale una sofferenza psichica che sarebbe altrimenti senza corpo; la vista del sangue caldo che sgorga rende viva e reale la sua sofferenza..

Poi il nulla..

Lo stato onirosimile in cui la giovane cade dopo aver compiuto il suo gesto.

H., ha davanti a sé un lungo percorso, un percorso che per forza di cose vede in prima linea anche sua madre. Le due donne avranno molto da dirsi, da raccontarsi. Ci saranno molte ferite da disinfettare, molte da suturare cominciando lentamente ad intessere punto dopo punto la leggera trama di cui H., è fatta.

Ogni punto segnerà una piccola scoperta nella storia familiare della ragazza e la madre – come un ago tenuto tra le mani da un sapiente chirurgo- dovrà lentamente legare con sottili fili di congiunzione, ogni passaggio della storia della ragazza.

Come la seta H. è resistente, ma dovrà imparare ad avere cura delle sue (molte) cicatrici.

“Finisce bene quel che comincia male”.

Dott.ssa Giusy Di Maio.

Autolesionismo, cutting, self-harm – Podcast

L’autolesionismo è un problema abbastanza diffuso, in particolare tra i giovani. Ha un peso specifico non indifferente nelle vite delle persone che ne soffrono e per le loro famiglie. Potremmo definire l’atto autolesionistico come un atto e un’espressione fisica di un dolore psichico profondo, per lo più celato e difficilmente condivisibile.
Buon Ascolto!

Autolesionismo, cutting e self harm – Podcast – In viaggio con la Psicologia

“Nessuno può farti più male di quello che fai tu a te stesso.”

Mahatma Gandhi
Autolesionismo, cutting e self harm – Podcast – Spotify

“Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi

Dottoressa sono un mostro: La famiglia del dolore celato.

Photo by Pixabay on Pexels.com

Rubrica Settimanale.

Disclaimer:

Coloro che inviano la mail, acconsentono alla resa pubblica di quanto espressamente detto. Tutte le informazioni personali (ad esempio nome), così come tutti gli altri dati sensibili, sono coperti dal segreto professionale e dalla tutela del cliente (ART.4,9,11,17,28, Codice Deontologico degli Psicologi). Le fonti di invio delle mail sono molteplici (non legate al solo wordpress).

La storia che decido di condividere oggi non è delle più semplici. Sono stata un po’ in dubbio sul procedere o meno e alla fine, in accordo con la diretta interessata, ho deciso di fornire una versione dei fatti che potesse rendere l’idea di quanto accaduto. E’ una donna a contattarmi una sera (molto tardi).

Ho accolto subito la richiesta perché ho percepito un dolore forte e visibile; un dolore capace di attraversare lo schermo nello stesso momento in cui ne stavo “soltanto” leggendo la descrizione.

Il dolore è sempre una condizione altamente personale, che va contestualizzata e compresa.

Buona Lettura.

“Buonasera Dottoressa,

mi scuso per l’orario di invio mail ma sono stata molto titubante sul procedere o meno con questa richiesta. Sono in una sorta di spirale da cui non riesco più ad uscire e non credo esista aiuto per me, per la mia condizione. Sono una donna sposata da un po’, insieme a mio marito decidemmo anni fa di adottare un bambino perché per cause che sono state definite psicogene, non siamo riusciti a concepire una vita. Abbiamo entrambi un ottimo lavoro, siamo ben inseriti nel contesto sociale; non abbiamo problemi economici né “riconosciute” problematiche di salute. Mirko, nostro figlio, è ormai prossimo all’adolescenza e sta avendo diversi problemi comportamentali, nonostante ciò a noi ha voluto subito bene e non è mai stato aggressivo con noi.

Ora che rileggo ciò che ho scritto, rido.. Piango mentre rido perchè sono tutte cazzate.. cazzate che mi racconto ogni giorno per stare bene.

Mio marito ha un vita parallela da non so quanto tempo (l’ho scoperto per caso durante la quarantena; lei non è nemmeno chissà quanto più giovane e bella di me.. lui è proprio innamorato di lei: cosa ha lei che io non ho? perchè?)

Io sono sotto cura farmacologica da sempre; non ho mai voluto parlare dei miei problemi perchè la mia azienda ha bisogno di una me che sia ricettiva e pronta (specie con questa crisi senza fine) e Mirko..

Mirko è un delinquente! Sto maledicendo il giorno in cui abbiamo deciso di adottarlo! quanto siamo stati stupidi.. noi e questa storia dei “figli sono di chi li cresce”.

Lo so.. sono un mostro.. Ma a quanto sembra non ho via di uscita, evidentemente merito tutto questo: merito i tradimenti, le corna, i silenzi.. merito di non avere un figlio che sia mio.. Merito di stare male.. merito di avere crisi isteriche, di pianto, di vergogna; merito le parestesie..

Credo che la mia vita sia inutile.

Sto seriamente pensando a compiere quel famoso gesto lì.. quello pensato tante volte nella vita.”

“Gentile (..)

leggo di te e del tuo dolore che sbatte con forza su di me, in questa prima sera d’estate. Sei una donna coraggiosa, e ti ringrazio per questo coraggio che mostri mettendo in gioco te stessa attraverso il tuo sentire e la tua sofferenza.

(..)

Leggo dell’apparenza che circonda la tua vita; quel sottile velo che tiene ma non contiene la realtà dei fatti che è -invece- ben più complessa. Tuo marito ha una vita parallela con una donna che – a tuo dire- non ha e non è niente di più di quanto hai o sei tu. Soffri nel non comprendere il motivo della sua relazione; soffri nel non comprendere perché lui ami un’altra donna..

Una donna che – ne sei certa- è meno di te. Allora perchè?

Dici che per cause psicogene, non siete riusciti a generare una vita e che questa vita l’avete acquistata (parola della donna usata durante la consultazione), convinti del fatto che per essere genitori non serva portare in grembo, dentro di sé, una vita.

Racconti poi dei farmaci, dell’autolesionismo, delle parestesie e le tue numerose crisi.. Dell’efficienza lavorativa e di quel piccolo punto di buio che si sta allargando a macchia d’olio rischiando di avvolgere tutto il tuo essere: la faccio finita.

(Rifletto a lungo, durante la lettura della lunghissima mail. Ho come la sensazione di vedere (..) innanzi ai miei occhi. La immagino mentre forte e decisa racconta poi il crollo, le lacrime, le urla.. i pugni sul corpo.. le domande senza risposta. Il dolore puro).

C’è un sottovalutare la condizione dell’adozione e questo ho potuto constatarlo durante i corsi che la mia collega psicoterapeuta teneva (sia corsi adozione che la valutazione delle competenze genitoriali).

La gravidanza non è mai solo una gravidanza fisica; esista un’altra (e paradossalmente più importante) gravidanza che è quella psicologica. I 9 mesi di gestazione sono mesi che vanno pensati, immaginati e sentiti soprattutto nella mente. Prima dell’arrivo del bambino reale (banalmente anche quando siamo giovani e pensiamo ad un figlio) creiamo uno spazio che, nel momento della venuta del bambino, troverà un “già lì”, uno spazio di accoglimento pieno già di proiezioni genitoriali che.. il (povero) nuovo nato potrà o meno confermare “somiglia a te.. no a me.. farà il dottore.. ma quando mai ha i piedi da ballerino..”

Il bambino attraversa, è vero, il corpo materno; il bambino si fa spazio tra le viscere materne e analogamente si farà strada nella mente della madre e del padre, richiedendo loro un grandissimo sforzo: il riposizionamento di quanto in loro è stato (ed è) il narcisismo, l’edipo, l’amore, l’odio, l’aggressività (..)

L’infertilità “psicogena” attesta una condizione molto forte, nel registro del reale: Io non sono pronto. Io non voglio. Io non so se sono Io.

La condizione di Mirko è difficile; tutti i bambini adottati prima o poi (anche nelle adozioni meglio riuscite quindi non si tratta di mancato rispetto verso la famiglia adottiva), cercano le proprie radici. Questi bambini vivono sulla pelle la condizione della propria frattura identitaria: sono come talee che non riescono ad attecchire nonostante l’estremo nutrimenti, l’acqua e la cura che ricevono.

Manca loro il contatto con la terra che li ha generati.

La donna di questa mail è attualmente in cura farmacologica seguita dalla sua psichiatra (che ha deciso di lavorare in equipe mostrandosi molto aperta verso la psicoterapia); la donna segue una psicoterapia con il Dott. Rinaldi (alternando anche incontri di coppia, tenuti sempre dal Dott. Rinaldi, insieme a me) e Mirko sta procedendo con una consultazione psicologica con me.

La famiglia è seguita da un team che è qui per loro; un team che gli ricorda che nessuno è un membro isolato preda e vittima del suo sentire. Nessuno ha certamente il diritto di tirare giù, nella sua spirale l’altro, ma il lavoro sulla comunicazione resta sempre il fulcro.

La donna ha saputo – infatti- opportunamente contenuta in un setting stabilito, cosa il marito ha trovato nella sua amante; Mirko ha pianto perché sente essergli stata negata la possibilità di sapere “chi è”; la donna ha smesso di avere ideazioni suicidarie.

Questa famiglia è per me la famiglia del dolore celato.

Ma il dolore prima o poi trova valvola di sfogo e come la pressione della caldaia può decidere se farsi abbassare o salire a dismisura.. fino.. ad esplodere.

“Finisce bene quel che comincia male”.

Dott.ssa Giusy Di Maio.

Autolesionismo (Self injury) – Il dolore celato.

Questa sera ripropongo un articolo di qualche tempo fa sull’autolesionismo. Un problema abbastanza diffuso tra i giovani e i meno giovani, che ha un peso specifico non indifferente nelle vite delle persone che ne soffrono. L’espressione fisica di un dolore per lo più celato, non condivisibile.. ma spesso l’impossibilità del non detto e dell’espressione emotiva, diventa emulazione pericolosa. Insomma un problema molto complesso e dalle tante sfaccettature. Buona lettura!

ilpensierononlineare

L’autolesionismo (in adolescenza) si potrebbe definire come una forma di aggressività auto diretta atta a “scaricare e svuotare” una sensazione di “pieno” malessere interiore che può essere legato a situazioni personali o interpersonali.

È
un fenomeno comportamentale già ampiamente trattato e discusso in letteratura.
Ha radici ampie e molto profonde nelle persone, nella società, nelle diverse
culture e religioni.

Negli ultimi anni questo comportamento pare abbia assunto connotazioni differenti. Difatti la diffusione delle immagini e dei video degli “atti” di self injury, attraverso la rete e i social, funge da rapido “veicolo contenitore” e da amplificatore, per le nuove generazioni di adolescenti. Questi “luoghi del virtuale” raccolgono l’espressione di una collettività che vuole restare invisibile, ma che cerca la visibilità e che si serve del mezzo virtuale per trovare altri simili e limitare così la solitudine che…

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