C’è una parolina fatta di 8 lettere; 8 letterine che evocano un concetto che spesso mi perplime: possesso.
Senza scomodare troppo i tecnicismi – possesso – indica un potere di fatto su una cosa (che si manifesta in un’attività corrispondente a quella esercitata dai titolari di diritti reali sulla cosa stessa); tale attività non è sempre corrispondente all’esercizio di proprietà.
Si può avere possesso direttamente oppure tramite altra persona, che detiene la cosa stessa.
Da dove nasce la questione…
“Io posseggo questo; Ti posseggo; possiedo ciò”, sono tutte frasi o termini che sento con sempre più frequenza. L’idea di possedere, di prendere quasi senza chiedere il permesso, l’altro o una cosa, il sottolineare con aggressività l’atto di possedere pur senza avere i diritti della cosa stessa ma “come se” quei diritti fossero nostri, mi inquieta.
Possiedo, specie in ambito relazionale, divide e lacera.
Questo è mio, questo è tuo: questo è il mio possesso questo il tuo possesso.
Le relazioni in cui ciascuno rivendica il proprio possesso di una cosa o di una certa questione, mi fanno rabbrividire. Amo molto la pittura e i pennelli perché un insieme di setole compatte concorre nello stesso atto, l’atto fatto dall’imprimere una certa forza al pennello stesso, per generare un segno grafico.
Prova a fare un cerchio con un pennello… Poi mi dirai.
Possedere mi sa di abitare senza essere stati invitati; rimanda a qualcosa che insiste legando fino a soffocare.
“Io ti possiedo” quasi come tu stessi rinunciando alla tua essenza, quasi come io ti stia abitando senza che tu possa opporre resistenza o ne possa avere opinione.
Al possesso ho sempre preferito l’infinito.
“Finisce bene quel che comincia male”.
Dott.ssa Giusy Di Maio.