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Psicologia e Sport. Motivazioni Olimpiche.

Si stanno svolgendo ormai da quattro giorni le Olimpiadi 2020 di Tokyo ed è molto interessante e appassionante guardare le varie gare dei numerosi sport. Ancora più appassionante è vedere gli atleti superare i propri limiti, sfidando il tempo, la gravità e le varie leggi della fisica.

Ma come fanno gli atleti a gestire tutta quella tensione e qual è la loro arma vincente per diventare grandi campioni?

In questa giornata di gare è abbastanza sconvolgente imbattersi in questa notizia: Ginnastica: Biles sostituita durante la finale (msn.com). La Biles è praticamente una fuoriclasse della ginnastica, più volte campionessa Olimpica. Quindi molto forte e molto esperta. Dopo la prova al volteggio, già in apparente difficoltà, ha abbandonato di sua spontanea volontà la gara e non ha voluto più continuare, facendosi sostituire per le altre prove.

Dopo non molto su uno dei suoi social appaiono le sue parole sull’accaduto: “Ho il peso del mondo sulle spalle. Non è stata una giornata facile o la mia migliore, ma l’ho superata. A volte mi sento davvero come se avessi il peso del mondo sulle spalle. So che lo spazzo via e faccio sembrare che la pressione non mi colpisca, ma dannazione a volte è difficile: le Olimpiadi non sono uno scherzo”.

© Fornito da Rai Sport – Simone Biles

Probabilmente la Biles (interpretando i momenti della gara e le sue successive parole) non è riuscita a gestire la tensione emotiva del momento storico ed è letteralmente crollata psicologicamente. Anche i campioni come lei, abituati a pressioni estreme e a palcoscenici importantissimi possono cedere.

Questo episodio ci fa comprendere quanto nello sport e per gli atleti la variabile mente sia determinante, per raggiungere obiettivi ambiziosi.

La gestione delle stress e delle difficoltà ha un peso specifico non indifferente nell’affrontare impegni sportivi di un certo livello, ma ad avere un ruolo ancor più determinante è la motivazione.

Per affrontare gare così importanti, come alle Olimpiadi, gli atleti devono necessariamente provare a superare i propri limiti o almeno portare le proprie capacità al limite. Per far questo sono necessari due fattori chiave: il primo consiste nella preparazione fisica che permetterà al corpo di essere in grado di produrre le migliori prestazioni possibili; il secondo fattore ha a che fare con la mente e riguarda la motivazione. A cosa serve avere un Ferrari potentissima senza avere anche la volontà e la possibilità di spingerla al massimo delle sue possibilità?

Photo by Anthony on Pexels.com

Quindi potremmo dire che la chiave di tutto è: nella gestione dello sforzo fisico; delle difficoltà che possono succedersi durante una gara; dello stress legato alle aspettative (personali e altrui) e all’ansia del momento.

In alcuni esperimenti, in cui sono stati coinvolti degli atleti, si è potuto osservare che ad un livello equivalente di allenamento (in atleti esperti e di alto livello) è la motivazione spesso a fare tutta la differenza. La motivazione è infatti in grado di spingere più in avanti il limite dello sforzo personale, oltre il quale il cervello e quindi l’individuo interrompe il suo sforzo. La zona del cervello interessata a questa attività di “controllo” è l‘insula. Questa regione del cervello riceve dal midollo spinale alcune connessioni neuronali di natura propriocettiva (che informano il cervello sullo stato fisico dei muscoli) e nocicettiva (messaggi legati al dolore in situazioni di sforzo intenso).

La motivazione ha inoltre il merito di “far dare di più” nonostante le difficoltà fisiche e psichiche. Un atleta molto motivato sarà quasi indifferente al giudizio altrui, non si farà condizionare dai risultati e dalle vicende negative, resterà concentrato sul proprio obiettivo e mostrerà una determinazione elevatissima.

“Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi
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Psicologia e sport: quando i fuoriclasse diventano “di troppo”.

Tutti vogliono una squadra di campioni e fuoriclasse. Tutte le squadre e tutti i tifosi (di qualunque sport) competono, nelle così dette “finestre di mercato” per accaparrarsi i migliori giocatori, spesso non badando ai bilanci.

Ma avere troppi campioni in squadra porta sempre dei benefici?

In una ricerca pubblicata su “Psychological Science” da Roderick Swaab e altri colleghi nel 2014, sono state messe a confronto le prestazioni di alcune squadre che avevano introdotto in squadra dei campioni. La ricerca ha preso in considerazione tre sport nello specifico: basket, calcio, baseball.

Individuati i migliori atleti, i ricercatori hanno calcolato la percentuale di campioni per ogni squadra dividendo, squadra per squadra, il numero dei grandi giocatori per quello totale dei giocatori nella rosa. Alla fine sono state considerate le prestazioni delle squadre misurando il rapporto tra sconfitte e vittorie, nel corso di dieci anni.

Michael Jordan

Sia per il basket che per il calcio, i ricercatori hanno trovato che il numero di campioni poteva condizionare positivamente il successo della squadra, ma solo fino ad un certo punto. Inoltre, i ricercatori hanno scoperto che aumentando il numero dei campioni, i risultati possono cominciare a peggiorare. Infatti le squadre di basket e calcio con un grande numero di talenti in squadra, avevano mediamente risultati peggiori delle squadre che avevano un equilibrio più moderato tra campioni e giocatori buoni e ottimi.

Perchè questi risultati strani?

Il gioco di squadra conta troppo. Il successo è direttamente proporzionale all’impegno e alla collaborazione comune, uno sforzo comune rivolto ad un obbiettivo condiviso. Paradossalmente con un eccessivo numero di campioni e fuoriclasse in squadra può subentrare in maniera consistente l’interesse per il prestigio individuale, e questo rischierebbe di invalidare gli obiettivi di squadra. Pensate ad esempio, ad un calciatore che pensa alla classifica della scarpa d’oro (miglior marcatore europeo) e nelle ultime partite di campionato, pur di segnare un gol, sbaglia passaggi, assist e occasioni da gol per i compagni di squadra.

Insomma bisognerebbe trovare un equilibrio e un compromesso tra campioni e lavoro di squadra. Nello studio sul basket, i ricercatori hanno visto che le squadre che avevano più superstar avevano fatto registrare meno assist e rimbalzi difensivi e percentuali più bassi dei tiri su azione. Queste debolezze nella collaborazione di gioco, minavano l’efficacia della squadra.

Nello studio sul baseball invece il numero dei campioni non pregiudicava le prestazioni complessive della squadra.

Questi risultati suggeriscono che livelli troppo alti di giocatori di talento possono diventare dannosi per la squadra, o almeno bisognerebbe avere una strategia ben coordinata per assemblare una squadra di campioni. Perché il narcisismo e la ricerca del successo personale possono andare a scapito degli altri compagni di squadra.

La riflessione più interessante è che questi concetti possono tranquillamente essere allargati anche agli altri ambiti di lavoro. Dove il lavoro di squadra è fondamentale bisogna trovare un buon equilibrio e un buon coordinamento delle risorse umane eccellenti, affinché non vengano sprecate, utilizzate male e quindi perse, solo per interessi personali di carriera.

“Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi