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“Come fate?”

“Ho una domanda da farvi -Docs- ma voi, dopo che sentite tutti i problemi della gente, non vi sentite male? No davvero.. me lo chiedo sempre perché io, per esempio, quando parlo con qualche mia amica che ha qualche problema, dopo mi sento.. ceh.. mi sento proprio male. Come fate?”

Durante un colloquio in co-conduzione, una ragazzina di 11 anni -straordinariamente intelligente- ha posto questa domanda.

La sua curiosità mi ha profondamente commossa, cosa che le ho prontamente riferito, perché uno spostamento del genere nei panni dell’altro è cosa assai rara.

Potrei argomentare in molte maniere e modi ma preferisco tenere la realtà che va sempre accolta, amata e protetta, per me e per chi ha vissuto quel momento.

Non fermiamoci mai a ciò che “passa” online sui nostri giovani.

Conosciamoli -davvero- mantenendo il giudizio fuori dal nostro incontro che altrimenti, diventa scontro.

Dott.ssa Giusy Di Maio, Ordine Degli Psicologi della Regione Campania, matr. 9767

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Nella stanza della psicologa: l’importanza della famiglia durante la presa in carico dell’adolescente.

Con l’approfondimento odierno intendo presentare al lettore due casi clinici da me seguiti. Ho scelto due adolescenti (un ragazzo e una ragazza) con situazioni familiari piuttosto equiparabili (mi riferisco, come a breve vedremo, all’atteggiamento della famiglia) che ben si prestano ad evidenziare la centrale importanza dell’intero sistema famiglia, quando un suo membro (il paziente designato) si fa portatore del sintomo che cela, in realtà, la disfunzionalità di tutto il sistema familiare stesso.

Riporterò storia e dati dei due casi clinici ma sempre in accordo con le leggi che regolano il segreto professionale1. Dividerò le due storie in “Caso A” e “Caso B”, non con l’intento di meccanicizzare la realtà, ma solo per rendere più comprensibile e fruibile la lettura.

Breve introduzione: evoluzione storico-culturale dell’adolescenza.

L’adolescenza è la fase del ciclo di vita che risente maggiormente della componente storica e socio-culturale. Cosa vuol dire quanto appena detto? Procedendo con un piccolo excursus sia storico che tra le diverse culture è possibile notare come non è sempre possibile individuare un periodo di sviluppo assimilabile a quello che oggi intendiamo noi come adolescenza, questo perché la fase di inizio e fine è soggetta a significazioni (e ri-significazioni) molto diverse nelle varie epoche.

Nell’antica Roma repubblicana la fine dell’adolescenza era segnata dallo sviluppo fisiologico2 . Presso i Masai il giovane, alla fine dell’adolescenza, si sottopone alla cerimonia del salto della siepe. Più le società hanno una organizzazione economica semplice, più il passaggio dal mondo infantile a quello adulto è breve e -soprattutto- sancito da riti di passaggio e/o iniziazione.

In Europa è con l’industrializzazione e con il sistema scolastico obbligatorio (specie con la scuola superiore) che si giunge ad allungare, per così dire, la “permanenza” nella fase adolescenziale. Si è infatti allungato il tempo per l’ingresso nel mondo del lavoro e non vi sono modelli predefiniti da seguire per sancire la definitiva uscita dalla fanciullezza e l’ingresso nel mondo adulto. Il termine stesso adolescere evidenzia ab origine la condizione di “passaggio” dell’adolescenza stessa: non più un bambino ma nemmeno un adulto; un passaggio che la nostra contemporaneità fatica a gestire ma che vede sempre più farsi lungo3.

L’adolescente vive quindi un periodo della vita particolarmente delicato, caratterizzato da indeterminatezza, sospensione e attesa in cui la famiglia gioca un ruolo fondamentale.

Caso A: la storia di Lele.

Lele è un ragazzino molto dolce di 15 anni. Giunge in consultazione scortato dalla madre che, preda delle sue mille preoccupazioni, non sa più cosa fare con questo figlio sempre più pigro, svogliato e apatico. Il giorno del nostro primo incontro, la madre di Lele mi porta una cartella piene delle più svariate analisi ospedaliere fatte fare al figlio per una serie di problemi che la donna non riesce più a gestire4… La mamma di Lele è un fiume in piena di parole, grandi sospiri e accenni di lacrime; mentre lei parla io continuo a guardare Lele, per comprendere le sue risposte emotive al racconto così tanto devastante, che la madre mi sta portando. Accolta la richiesta della signora, la invito gentilmente ad uscire così da poter parlare con il ragazzo.

La risposta lì per lì, da parte della donna, è di panico totale. La signora diventa rossa in volto ha quasi un accenno di svenimento poi capisce che deve uscire.

Lele è molto timido, ha degli enormi occhiali, un pantaloncino corto da cui emergono le lunghe gambe e il suo corpo che comincia lentamente a trasformarsi. Le mascherine coprono i volti e Lele mi dice chiaramente che se non avessimo questi dispositivi a coprirci sarebbe molto difficile, per lui, guardarmi negli occhi (in realtà, Lele è uno dei pochi ragazzi che mi ha davvero sempre guardata negli occhi; durante i nostri colloqui cominciati nel pieno della pandemia Lele spesso abbassava la mascherina e continuava a parlare senza mai abbassare lo sguardo).

Il ragazzo è da subito disposto a cominciare il percorso psicologico; mi colpisce la sua intelligenza, il porsi domande ben oltre la sua età anagrafica, la voglia di scoprire e riscoprire la vita (il lockdown avrà una grande incidenza sulla salute psichica del ragazzo che, proprio in corrispondenza dello scoppio della pandemia, era diventato vittima di atti molto violenti da parte dei bulli). Se la mamma di Lele dopo un iniziale stato di shock sarà molto disponibile e attenta, arrivando ad allacciare una buona alleanza con me, non si potrà dire lo stesso del padre.

Il papà di Lele è un uomo dalla scolarizzazione completamente assente (sarà la moglie ad evidenziare ripetutamente come il marito sia ignorante), completamente anaffettivo, aggressivo e non di rado violento, non farà altro che riferirsi al figlio con frasi del tipo “perché ti ho riconosciuto alla nascita?” “non sei mio figlio, finocchio del cazzo”. La continua svalutazione del padre aveva reso impossibile, in Lele, misurarsi e confrontarsi con aspetti di fragilità e emotività tanto da spingerlo verso modalità adesive (la dipendenza materna) nelle quali non c’era spazio per la tridimensionalità e una pseudoadultizzazione, rendendo vano lo sviluppo di meccanismi identificatori e l’espressione di vissuti dolorosi. Lele però non molla e continua, scortato dalla madre, a venire ai nostri incontri. Il ragazzo comincia lentamente a prendere coscienza dei suoi bisogni e delle sue emozioni; vuole conoscere una ragazza, sente pressante il bisogno di conoscere il sesso (la sessualità e sensualità); vuole ricominciare ad uscire e comincia lentamente a rompere quell’involucro di vetro che il padre ha costruito. Ci saranno sedute drammatiche, con eventi che pur potendo, mi sarebbe difficile restituire al lettore, tanto che un giorno il padre, capisce l’importanza del nostro lavoro, l’importanza del suo apporto al supporto che sto portando avanti e avviene la svolta. Lele il ragazzino che era stato dato per malato, fa vacillare le fondamenta fangose della famiglia e con uno scossone riposiziona i ruoli. Il padre capisce la sua funzione fondamentale, fratelli e sorelle non daranno più per scontato il ragazzino, la madre capisce che non può continuare ad “offrire il seno” ad un uomo in formazione.

Lele oggi è un ragazzo sereno e sicuro. Ha una fidanzata, ha cambiato scuola ed ha molti amici che sente come parti fondamentali della sua vita. La madre ha trovato un lavoro e il padre trascorre molto tempo con i 3 figli che non appella più con aggettivi di dubbio gusto.

Dal disagio di Lele ogni membro ha capito che era a sua volta portatore di qualche piccola ferita di cui era necessario prendersi cura.

Le cicatrici condivise, quando esposte, fanno meno male.

Caso B: la storia di Gaia

Gaia è una ragazza di 17 anni giunta in consultazione portata obbligatoriamente dalla madre. Il giorno del nostro primo incontro Gaia è annoiata non tanto perché si trova dalla psicologa (a 8 anni era già stata in cura da una collega), quanto dal fatto che la madre continua ad essere pressante e invadente. Il motivo della richiesta di supporto psicologico risiede nella presunta aggressività della ragazza mista a diversi “deficit” diagnosticati con assoluta certezza dalla madre della ragazza a sua figlia5 . Entro subito in sintonia con Gaia e riferisco in maniera piuttosto veloce, alla madre della giovane, che per le diagnosi che lei propone, non mi sembra vi siano elementi idonei ma propongo ugualmente di fare dei test per avvalorare o meno la sua tesi, di procedere con la terapia e, per eliminare qualsiasi altro dubbio, di rivolgersi al reparto specifico di (…) per avere ulteriori test.

Gaia a dispetto di quanto mi era stato riferito, ha una intelligenza notevole ed ha la capacità di fare astrazioni molto più complesse anche di tanti adulti. Certo è annoiata e svogliata; sembra non aver minimamente voglia di vivere la vita.

Per ragioni di spazio e privacy sono costretta a compattare di molto gli eventi.

Accade durante il nostro percorso che andrò ripetutamente a scuola di Gaia per parlare con i professori che nel frattempo, avevano iniziato una guerra con la famiglia. Dai test somministrati sia da me che dai colleghi, non emergeranno punteggi o deficit tali degni di essere legalmente riconosciuti; più che di freddi numeri personalmente mi baso principalmente sui colloqui (le diagnosi fatte con strumenti psicodiagnostici sono fondamentali soprattutto perché consentono un riconoscimento legale pertanto un accesso alla pensione di invalidità; va comunque specificato che non tutte le commissioni ragionano allo stesso modo e che spesso non basta la sola indagine psicologica ma l’argomento esula dal post odierno) e da questi Gaia appare come una ragazza in linea con i compiti di sviluppo richiesti per la sua età salvo che per una leggerissima alessitimia e una difficoltà molto leggera nell’area logico matematica (si parla di punteggi al limite della significatività).

Ciò che emergerà dai colloqui e dal mio conoscere sempre di più il sistema familiare di Gaia è, invece, che si tratta di una famiglia caratterizzata da estremo caos; una famiglia portatrice di una intensa e subdola conflittualità dove ogni membro cerca continuamente di far fuori l’altro con un enorme disprezzo che affonda le sue radici nell’incapacità di riuscire a contenere le proiezioni dell’altro. La terapia diviene oggetto del contendere; elemento di conflitto in cui ciascun genitore a parti alterne evidenzia l’inutilità del supporto. Gaia però resiste e diventata maggiorenne torna da me. La madre di Gaia appare altamente ambivalente a tratti severa e rigida poi estremamente amichevole tanto da instaurare un rapporto tra pari con la figlia. Questa confusione genera altra confusione con Gaia che diventa improvvisamente la babysitter della madre che tradisce il marito.

Faccio esperienza della rabbia, nel controtransfert.

Nel momento in cui Gaia sembra imboccare la strada giusta, instaurando una relazione sana, trovando un lavoro e poche ma salde amicizie, la madre crolla.

Ho la sensazione che ci sia una pesante ancora che vuole tirare giù, nel mare della confusione Gaia, una ragazza nella cui fragilità si incista un seme di forza e tolleranza estremo.

La lotta per scalfire i sensi di colpa è lunga ma Gaia è una guerriera che senza l’ausilio di armi ma con la sola costanza, con qualche lacrima e un pizzico di coraggio, sta imparando a nuotare anche -e soprattutto- in apnea.

“Finisce bene quel che comincia male”

Dott.ssa Giusy Di Maio, Ordine Degli Psicologi della Regione Campania, matr. 9767

1Tutti i dati sensibili saranno opportunamente camuffati al fine di proteggere il cliente, secondo quanto espresso dagli articoli in merito al segreto professionale e alla tutela del cliente, ART.4,9,11,17,28, Codice Deontologico degli Psicologi

2Raggiunta la pubertà, durante una cerimonia religiosa il giovane deponeva la toga praetexta e la bulla (simboli dell’infanzia)e rivestiva la toga virilis.

3Non vi è al momento una età rigida e certa che sancisce la fine dell’adolescenza ma, studi alla mano, l’età sembrerebbe aggirarsi attualmente fin ai 25 anni (post-adolescenza o famiglia lunga del giovane adulto, Scabini e Donati, 1988).

4Lele è stato sottoposto a diversi accertamenti medici da cui però non emerge nessuna componente organica nei disturbi che racconta la madre, ecco perché la donna ha deciso di ricorrere all’aiuto dello psicologo.

5La signora è fermamente convinta delle sue capacità nell’effettuare delle diagnosi sulla figlia. L’ambivalenza che la donna mi porta è da manuale: non c’è bisogno di uno specialista per fare una diagnosi di un certo disturbo ma al contempo pretendo che tu faccia la diagnosi a mia figlia rilasciandomi un certificato spendibile, ad esempio a scuola.

L’inconscio va in scena: l’uso delle marionette in terapia

Racconti terrorizzanti, angoscianti, spaventosi.

Racconti eccentrici, avvincenti, pericolosi…

L’approfondimento di oggi ci porta ad indagare un campo di indagine affascinante e complesso. Nel corso di un supporto psicologico può accadere che il bambino, l’adolescente o il giovane adulto, possa vivere una difficoltà nel verbalizzare un certo tipo di contenuti. In questo caso è possibile utilizzare degli strumenti che aiutino la persona ad elicitare, a cacciar fuori, il contenuto inconscio terrorizzante, spaventante, a cui non si riesce a dare un nome.

Scopriamo l’uso delle marionette in terapia.

Dott.ssa Giusy Di Maio, Ordine Degli Psicologi della Regione Campania, matr. 9767

Piccoli delinquenti: fenomeni delinquenziali in adolescenza. Psicopatologia.

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Il titolo “piccoli delinquenti” è stato usato, da chi scrive non con l’intento (del tutto lontano dal proprio agire) di etichettare, quanto per evidenziare una componente spesso sottovalutata -che va invece considerata- quando ci approcciamo al lavoro con l’adolescente deviante.

L’approfondimento odierno mira ad evidenziare il legame (possibile), esistente tra disagio giovanile, devianza sociale e comportamenti a rischio. Come detto in un precedente approfondimento, non vi è una correlazione diretta tra disagio giovanile/devianza e minori adottati ma un rischio evolutivo maggiore a fronte di carenze e traumi subiti.

Oggi presenterò all’attenzione del lettore l’opera di Bowlby, il cui contributo si è reso fondamentale non solo per lo studio e la comprensione della teoria dell’attaccamento, ma anche per la comprensione dei fenomeni delinquenziali negli adolescenti.

L’autore evidenziava come il legame di attaccamento del bambino alla madre fosse un’esperienza primaria non solo per via della gratificazione dei bisogni fisici e psicologici apportata dalla madre al bimbo, ma anche perché costituiva una funzione biologica di protezione (Bowlby, 1979). Era in virtù di questo legame che i bambini reagivano alla perdita del referente materno – a seguito dell’instaurarsi di un attaccamento affettivo – manifestando un vero e proprio lutto.

Per quanto concerne, invece, il disagio giovanile e la devianza sociale le idee di Bowlby hanno cominciato a costruirsi nel suo studio intitolato Forty-four juvenile thieves (1944), nel quale si prefiggeva di studiare e valutare le possibili connessioni fra la delinquenza e quello che definì “il carattere anaffettivo”.

In tale contesto egli osservava che ben il 40% dei soggetti delinquenti presentava un vissuto di lunghe separazioni – sei mesi o più – dalle madri naturali o adottive nei primi cinque anni di vita, a fronte del solo 5% di incidenza a delinquere nei soggetti (del gruppo di riferimento) che non avevano vissuto quella esperienza. Partendo da questa osservazione Bowlby (1944) individuava due principali fattori di potenziale valenza eziologica:

  1. Il primo era la separazione stessa: “In tal modo il fattore essenziale che tutte queste
    separazioni hanno in comune è che, durante il primo sviluppo delle sue relazioni
    d’oggetto, il bambino viene improvvisamente spostato e sistemato con estranei.
    Egli viene strappato via dalle persone e dai luoghi che gli sono familiari e che ama
    e messo con persone ed in ambienti che sono sconosciuti ed allarmanti.”*
  2. Il secondo fattore era la “inibizione ad amare causata dalla rabbia e da fantasie
    che erano l’effetto della rabbia”**
    . La rabbia, spesso associata a distruttività,
    rappresentava l’agito del bambino all’assenza dei genitori.
    Come già osservato
    dalla Klein prima e da Bion poi, il genitore è una presenza rassicurante in grado di
    mediare fra le pulsioni negative e la realtà, ma se egli è assente, o peggio è egli
    stesso aggressivo e violento, nel bambino continuano ad albergare fantasie di odio e vendetta che possono successivamente esplodere nel comportamento delinquenziale:
    “La determinazione a tutti i costi di non rischiare ancora una volta
    la delusione e la rabbia e gli struggimenti conseguenti, che può derivare dal voler
    tanto qualcuno e non essere capace di averlo […] una politica di autoprotezione
    contro i colpi e le frecce delle proprie emozioni turbolente”.***

Bowlby trovò conferma alle proprie intuizioni, rafforzandole, nel corso della sua esperienza alla Child Guidance Clinic, presso la quale ebbe modo di effettuare vari studi retrospettivi partendo dalle esperienze vissute da bambini e adolescenti lì ricoverati. Successivamente arricchì il suo pensiero attraverso i risultati di numerose osservazioni condotte su bambini separati dai loro genitori. Egli sosteneva che i bambini -soprattutto se istituzionalizzati a partire da una età inferiore ai sette anni – privati della cura e dell’affetto materno potevano presentare una seria compromissione del loro sviluppo fisico, intellettuale, emozionale e sociale. Osservava poi come i minori con un’età compresa tra i 12 mesi ed i 3 anni reagissero al distacco dalla madre con una protesta, cui seguiva la disperazione che, infine, sfociava nell’apatia.

Continua.

“Finisce bene quel che comincia male”

Dott.ssa Giusy Di Maio

*Bowlby, J (1944) Forty-four juvenile thieves: their characters and home-life. Int J Psychoanal 25:19-53, 107-128
**Ibidem ***Ibidem

“It doesn’t even matter…”

“Cosa dovrei fare di quel che sono e di quel che mi accade? Continuo a dirmi che Hey non importa! Segui un po’ quello che succede, vedi un po’ come va eppure -alla fine- torno sempre allo stesso punto: crollo! Sa Dottoressa, a 35 anni mi sembra di stare seduto davanti la tv come nelle case di riposo, ha presente il nonno dei Simpson? Esatto.. Non so dove cominci la fine dello spettacolo e dove inizi la vita vera oppure non so, l’inverso..

Certe volte mi stupisco dei miei stessi pensieri tanto da non riuscire più a capire se siano miei oppure no. Ultimamente non so nemmeno se mi interessi sapere la realtà delle cose; 2 anni di pandemia sono stati troppo, per me.

Una convivenza appena iniziata e finita ancor prima di potersi chiamare tale “vivere con”… poi scopri che quella era solo una sconosciuta e quindi con chi vivevi? Sempre e solo con te stesso. Un lavoro osceno fuori regione, al freddo degli affetti e del clima e ti trovi a rimpiangere lo stronzo che sei stato che è voluto andare via solo per fare il figo e dire -Io sono qui, e voi? Guardate come sono realizzato!- Ho scoperto però che lo sfigato ero io che sono soltanto scappato perché di certi bias culturali mica ci si libera facilmente.

Allora?

Cosa importa/Non importa..

Ci ho provato e sono caduto ma non ero pronto ad una caduta che fosse uno schianto in totale assenza di terreno, in effetti è di questo che si tratta: mi sento in costante caduta libera.

Me lo offre un paracadute di emergenza?

Ma devo tirarla io la leva di attivazione?”

“Finisce bene quel che comincia male”.

Dott.ssa Giusy Di Maio

*Tutte le informazioni personali (ad esempio nome), così come tutti gli altri dati sensibili, sono coperti dal segreto professionale e dalla tutela del cliente (ART.4,9,11,17,28, Codice Deontologico degli Psicologi). Ogni informazione personale è stata pertanto opportunamente camuffata.

“Il cuore l’ho lasciato ad una stronza”

“Mi chiamo Antonio e ho 34 anni. Mi muovo in maniera convulsa, nello spazio. Mi gratto continuamente la piccola porzione di pelle tra l’orecchio e la tempia; lo faccio così tanto che la pelle è completamente lacerata; spesso escono piccole gocce di sangue e il processo di rimarginazione dell’epidermide non riesce mai a cominciare perché inevitabilmente penso troppo e mi gratto.

Sullo stesso punto che prude insistentemente e brucia, appoggio i miei occhiali perennemente appannati: dovrei comprarne un paio nuovo ma trovarmi davanti a mille mila modelli tra cui scegliere mi crea agitazione così continuo ad indossare gli stessi occhiali da circa 20 anni (beh.. in effetti dovrei anche fare una visita oculistica).

Una volta avevo dei bei capelli ricci ma la stempiatura si è impossessata di me così tanto che la forfora è palese ed evidente a tutti, ormai.. nemmeno ci faccio più caso se le mie spalle sembrano una pista da sci.

Tremo.

Qualcosa mi impedisce di stare fermo, nello spazio, è come se non riuscissi a trovare il mio fottuto posto qui.

In realtà il mio posto è con lei, quella stronza a cui ho lasciato il mio cuore. L’ha portato via con sé e nel mio petto ha lasciato mezza duna del deserto: aridità, secchezza, pozzi vuoti di emozioni che non ricordo nemmeno come siano fatte.

Dolore sì.. Quella è l’unica cosa che qualche volta riesco a sentire.

Certi mi dicono che sono stato io stronzo perché ho diffuso* sue foto intime e video in cui io mi sono camuffato; sinceramente -dottoressa?- A me non me me ne frega un cazzo se lei ora sta male. Penso che le azioni vadano ripagate con la stessa moneta quindi se lei ha messo fine alla nostra relazione ora deve pagare per quel che ha fatto.

La nostra relazione era intensa e piena; i miei problemi erano irrilevanti perché quando c’è l’amore tu stai vicino al tuo partner “nonostante tutto”.**

Sbaglio?

Mi ricordo quando l’ho vista la prima volta, aveva una gonna rossa con dei fiori blu e una maglietta bianca; mi ricordo che aveva una macchia di caffè sulla maglietta perché era stata al bar con un’amica e si era versata il caffè sui vestiti. Pensai che fosse sbadata e molto diversa da me; la sensazione di sporco lasciò -però- spazio al desiderio di capire di più di quella bionda svampita che prendeva il treno indossando degli improponibili tacchi a spillo.

Stronza.. comunque.. lo è sempre stata”

*Revenge Porn, ovvero la pratica di diffusione nella rete di materiale sessualmente esplicito con il fine di prendersi gioco, deridere o vendicarsi dopo la fine di una relazione, talvolta descritta anche come forma di violenza, abuso psicologico e sessuale. La legge sul revenge porn, in Italia, punisce il reato molto severamente. Il reato è, infatti, punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 5.000 a 15.000 euro. Il reato non è nel mandare proprie foto o video intime (oppure nel farle con il proprio partner), ma nella condivisione fatta da parte di terzi.

** La fine di una relazione è un evento altamente significativo e doloroso. Si tratta di una situazione in cui l’evitamento del dolore è impossibile e -paradossalmente- la via che più facilmente si cerca di percorrere. La mente tende a svolgere un duplice lavoro; nel primo caso tende ad utilizzare una forma di pensiero ricorsivo volto a ridurre la sofferenza (che, come precedentemente detto, è praticamente impossibile da fare) nel secondo caso, si cerca di evitare di ricordare o coinvolgersi in situazioni legate all’ex-partner. Nel fare ciò, la persona tende a mettere in atto comportamenti altamente disfunzionali come: l’assunzione di cibo e alcol, l’attività fisica o l’uso di sostanze con lo scopo di ridurre le sensazioni fisiche di sofferenza oppure si ricorre alla vendetta (Cfr, supra). Ciò di cui la persona non è consapevole, tuttavia, è che perpetuare l’evitamento (esperienziale) non solo non risolve il problema, ma espone a ondate di dolore qualora queste attività vengano a mancare. In tal senso, è utile che al termine di una relazione la persona riesca ad assumere un atteggiamento di compassione verso se stessa. I primi mesi sono i più difficili a causa degli inevitabili momenti di scoraggiamento, paura e confusione; tale presa di coscienza e riconoscimento, si situa come la base per l’elaborazione dell’evento: la rinascita.

“Finisce bene quel che comincia male”

Dott.ssa Giusy Di Maio