“Mi pesava, di continuo. Nel suo borsello aveva gli scontrini con il mio peso per controllare che ogni volta che ci vedessimo, fossi più magra e che non fossi ingrassata. Mi guardava con occhi strani… Non riuscivo a capire. Una volta mi regalò un completino intimo e nonostante fossi comunque magra mi guardò schifato… e girando la faccia disse: sì, ci sono rimasto male. A casa sua parlava addirittura con i suoi genitori (con quella sua ricca famiglia), della mia forma fisica, di quanto le luci potessero modificare o incentivare la visione di certi inestetismi, discromie o solo lui sa di cosa cazzo vedesse (o non vedesse). Per lui non ero una donna, un amore, un desiderio o una condivisione… Per lui dovevo essere la perfezione: la sua, perfezione.
Quanto pesa un amore?
E quanto pesa un corpo innamorato?
Da quell’incontro, io: non amo più”.
Il racconto di un primo amore a 17 anni. Grazie di cuore a (..)per la sua testimonianza.
La Signora è stata puntuale -pure troppo- e come al solito comincia a vomitare su di noi tutte le pene d’amore.
Il caldo è forte.. così forte da avere un profumo e un sapore specifico; riesco a riconoscere il caldo di tutte le città in cui sono stata, anche delle città estere.. conosco sapore e odore.
Il calore di oggi è quello che t’avvolge quando meno te lo aspetti, quello che si fa acqua corporea, si fa abbraccio non richiesto, mani che cingono la gola come un foulard di seta che si infiamma..
E la signora parla.. ammazza se parla!
Per un momento un pensiero si affaccia alla mente “Ma sempre le stesse cose.. lui, lei l’altra”. Nello stesso istante in cui il pensiero si sta facendo forma e strada nella mia stanca mente, la Doc che è in me scuote il corpo e con un colpo a mo’ di frusta dice “Non è mai la stessa storia o la stessa cosa. Ogni persona ha un istante diverso che la rende diversamente uguale al dato momento che già per sua natura è esso stesso diverso dalla sua stessa genesi, inoltre, ogni persona vive l’esperienza in modo specifico”.
La signora va via e mentre chiamiamo il bar per il solito caffè, qualcosa sedimenta dentro di me.
Quanto può permanere un affetto in assenza di corpo?
Mi torna alla mente la permanenza dell’oggetto e Piaget quando diceva “la conoscenza è un processo di costruzione continua”. La permanenza dell’oggetto consiste nella capacita cognitiva del bambino di riconoscere che un oggetto nascosto, che non c’è più (ad esempio la mamma che va via per lavoro), continua ad esistere indipendentemente dalla sua assenza. Si tratta della capacità cognitiva di poter pensare l’oggetto fino a sostituire l’esperienza con l’oggetto stesso. L’oggetto (concreto) è sostituito dal pensiero dell’oggetto stesso.
Quanto permane, in età adulta, l’oggetto?
Quanto siamo disposti ad usare il pensiero in luogo del corpo fisico?
Danilo bussa alla porta. Il caffè è sulla scrivania. La nuvoletta di fumo riempie tutte le pareti così anche i disegni dei pazientini assumono l’aroma della tostatura.
Tutto sa di terra, intorno a me.
Mi rilasso, metto la musica e penso ai miei oggetti.. a quelli che permangono anche in assenza di carne.
Quando l’essere umano prende coscienza della possibilità che un dato momento, possa essere collegato con una serie di altri momenti, quando prova a decentrarsi e a porsi non tanto come attore ma, questa volta, come spettatore di una sequenza di eventi di cui lui è solo una parte (anche piuttosto piccola)..
E’ in quel momento che comincia la ricerca del significato della propria vita.
Il significato non è qualcosa che viene acquisito in un particolare momento della propria vita (non è in sostanza una tappa di sviluppo raggiungibile in un determinato momento), ma si configura come un processo che avviene analogamente al processo di crescita di un organismo.
In sostanza, ad ogni età dello sviluppo, compatibilmente con i mattoncini costituiti dal grado di sviluppo psico cognitivo -raggiunto- aggiungiamo un po’ di conoscenza circa il significato cui stiamo aspirando di giungere.
Accade spesso di vedere genitori convinti che la mente dei propri bambini, sia come la loro.. come se le idee (su se stessi, sul mondo o sul significato della vita), non debbano avere il tempo di svilupparsi lentamente come il corpo e l’intelletto (i genitori sono convinti che i bambini nascano equipaggiati di tutto un bagaglio di conoscenza uguale e standard).
Non è una esagerazione: l’esperienza clinica insegna.
Il bambino, crescendo, impara gradualmente sempre di più (o almeno ciò dovrebbe avvenire) a capire meglio se stesso e gli altri fino a raggiungere un equilibrio in cui è capace di dialogare con se stesso e gli altri in maniera intima e profonda.
Per trovare un significato, però, è necessario abbandonare una visione egocentrica, uscire dalla propria limitata visione e guardare un po’ più in là (compito questo che spetta prima ai genitori che, decidendo di abbandonare la posizione egocentrica proprio con la genitorialità stessa, dovrebbero essere stati in tal modo, più desiderosi di arricchire l’altro ponendosi in secondo piano)…
A tal proposito, per aiutare i bambini a trovare risposte circa i loro personali dubbi sul senso di quanto li circonda, uno strumento valido sono le favole.
Perchè una storia riesca a catturare l’attenzione dei bambini, questa deve divertirlo e deve suscitare la sua curiosità. La favola, inoltre, per essere qualcosa di profondamente accattivante deve stimolare l’immaginazione del bambino stesso e deve aiutarlo a sviluppare il suo intelletto.
Una fiaba deve aiutare il bambino a chiarire la natura, funzione e significato delle emozioni (le sue, in primo luogo), deve armonizzarsi con le sue ansie e aspirazioni; deve aiutarlo a riconoscere le difficoltà che sta vivendo suggerendogli al contempo soluzioni.
La favola deve pertanto toccare ogni aspetto della personalità del bambino e questo – cosa fondamentale- senza mai sminuire la difficoltà che il bambino magari sta in quel momento vivendo. Accade frequentemente (troppo, direi) che genitori o chiunque si prenda cura del bambino, sminuisca una sua paura, un suo disagio, leggendolo con gli occhi di un adulto (già formato), evitando di contenere ma gettando in faccia al bambino, questa sua paura (magari anche deridendolo).
Le fiabe sono un potente strumento che consente un arricchimento e/o una proiezione del mondo interno del bambino stesso.
Durante i colloqui anche i bambini con le difese più forti, riescono con una parolina alla volta, sussurrata, a restituire il proprio mondo interno, sotto forma di racconto.
Ascoltiamo spesso di mostri, armi, ombre nere e minacciose..
Ascoltiamo spesso di improbabili (per noi, forse) figure terrorifiche che prendono il sopravvento fagocitando, da dentro, i nostri piccoli pazienti.
Difficilmente sentiamo storie di principesse rosa che cavalcano pony in attesa che il principe azzurro, le salvi.
Dobbiamo provare ad accogliere i nostri piccoli anche – e soprattutto- quando hanno paura delle ombre nere; aiutiamoli leggendo loro più favole.. parliamo con loro, spieghiamo loro chi è e cosa fa un principe, chi è la principessa.. Cosa fa un supereroe.. perchè esiste il mostro cattivo..
Proviamo a scrivere insieme a loro una favola..
Non si sa mai..
Magari insieme a loro- con un pizzico di magia- riusciremo a trovare anche noi, nella terra di molto, molto lontano.. il nostro personale senso delle cose..
L’altro giorno – in supervisione con il collega- abbiamo effettuato un colloquio clinico con un ragazzino di 14 anni.
Il ragazzo ha iniziato il percorso di psicoterapia su “invito/invio” della madre, preoccupata per il figlio che non viene più riconosciuto: “Non ti riconosco più, a mamma..”.
Dall’analisi della domanda, abbiamo avuto modo di sapere che il ragazzino (appena iscritto al liceo), presentava disturbi forse riconducibili ad un disturbo d’ansia.. altre volte dal racconto emergevano probabili riferimenti alle fobie (ad esempio quella di parlare in pubblico o quella di uscire da solo).
Dal marasma creato dalla madre, profondamente preoccupata per il figlio tanto da ricorrere spesso ad un altissimo tono di voce; voce gettata al vento quasi come un martello pneumatico fastidiosissimo, siamo passati al colloquio con il ragazzo.
Ciò che è emerso fin da subito, è stato lo stato di sollievo provato dal ragazzo (sollievo tale che ad un certo punto, senza rendersene conto, il giovane si è quasi tolto le scarpe, segno di un grande rilassamento e sensazione di benessere generale).
Durante il racconto, il ragazzo, ha evidenziato le grandi difficoltà che ha sperimentato durante la pandemia (prima era sempre stato un ragazzo attivo, sportivo, sorridente e sereno), poi è arrivato il cambio di scuola – il temuto passaggio al liceo- e la DAD.
Non entrerò nel merito dei disagi psicologici cui i giovani sono esposti a causa della pandemia, né tanto meno andrò nello specifico nella questione dad ciò però che mi ha colpito è stata una frase ben specifica, diretta netta e sincera che il ragazzo ha detto
“Non provo emozioni, sono senza emozioni in DAD mi sento come un’ameba.. Non provo interessi mi sento solo passivo e fermo”.
Il racconto del ragazzo lasciava emergere lo stato di stasi che lui stesso sentiva dentro e fuori di sé; con il ritorno il classe non è cambiato molto poiché frequentando al 50% non conosce metà della classe (in sostanza siamo quasi a fine anno e ancora non conosce metà dei suoi compagni di classe); le lezioni sono sempre tutte uguali e gli insegnanti preoccupati solo del risultato finale “se continui così rischi l’anno”.
Perché rischi l’anno? perché continui così? perchè ti senti passivo?
Nessuno ha mai chiesto queste cose, al ragazzo e nessuno gli ha mai chiesto come stai a scuola, e non cosa hai fatto a scuola!
Emerge, dai racconti, un continuo e pressante riferimento alla performance; tutti vogliono che lui sia il migliore e che abbia chiaro l’obiettivo finale “per la vita”.
Vuoi essere medico? biologo? ingegnere? allora studia.. studia 20 ore al giorno e vedrai che sarai il migliore… Perchè tutti prendono 9 e tu no? hai qualche problema?
Devi sempre essere il migliore altrimenti nella vita fallirai.
La maggior parte dei ragazzini che arrivano in studio, sentono attualmente forte il senso di competizione (una competizione spesso indotta da terzi che sono i genitori o gli stessi insegnanti), una competizione senza sosta dove “tu devi primeggiare”.
Questa competizione eterna, altamente veicolata dall’uso del mezzo informatico che ormai è così parte di noi da apparire quasi come un nuovo organo del corpo, va dall’essere sempre in forma, belli e curati (immagine corporea), all’essere sempre intelligenti e impeccabili (avere ottimi risultati scolastici, nella carriera o nelle performance sportive). In sostanza ci si aspetta che le future generazioni siano come degli automi in cui non c’è più spazio per le paure, i bisogni, i sentimenti e i desideri.. automi per cui l’incertezza non è contemplata per lasciar spazio all’eccellenza.. alla vittoria facile e da ottenere ad ogni costo..
Il dubbio non esiste, la diversità non esiste, l’errore non esiste.
Immaginiamo ora una classe in cui 20 persone devono necessariamente essere le migliori; tutte e 20 devono avere 10; tutte e 20 devono essere perfette e infallibili e non per volere personale ma per volere di terzi.
Un genitore incapace di gestire il proprio senso di inadeguatezza e incapace di contenere le proprie paure evacuandole nel figlio, facendolo diventare contenitore del disagio genitoriale, rischia di creare proprio nel figlio tutte quelle paure, quelle ansie e quelle sensazioni di inadeguatezza che il figlio eliciterà, in un secondo momento.
Nel caso brevemente citato, la madre ha avuto grande consapevolezza dell’esser stata (insieme al marito), una grande (con)causa nel senso di schiacciamento provato dal figlio (il riferimento è a specifici vissuti familiari).
Una psicoterapia familiare strutturata procedendo con incontri sia individuali (solo con il ragazzino), poi di coppia e infine tutti i membri del nucleo familiare, appare un buon progetto terapeutico: un progetto che ha l’obiettivo di facilitare la comunicazione tra i membri della famiglia passando però prima attraverso una consapevolezza del proprio qui ed ora.
Prima di entrare in relazione con l’altro dobbiamo avere consapevolezza delle nostre emozioni, delle nostre sensazioni, di ciò che ci circonda perché solo avendo consapevolezza di ciò che ci accade, possiamo accettare e aprirci al confronto con ciò che accade.
Flavio è un giovane uomo di 40 anni. Si presenta in studio portando tutta la sua altezza e la corporatura massiccia contenuta in un pantalone di cotone leggero dai toni chiari, e una maglietta sottile che lascia intravedere il torace prestante da “uomo fatto”. Flavio è calvo, ha degli enormi occhi marroni e delle belle labbra disegnate quasi a matita, i lineamenti del volto sono abbastanza regolari e lui si muove nello spazio con fare sicuro e diretto.
Flavio dice di aver bisogno di un consulto con la psicologa motivo per cui è venuto direttamente senza chiedere un appuntamento.
Flavio si è infatti “introdotto” tra un colloquio e un altro, nello studio, senza minimamente pensare al fatto che prima di un consulto, ci sia tutto un iter da seguire. In realtà la presenza dell’uomo non appare invadente; si è infatti reso quasi subito conto della gaffe fatta e continua a chiedere scusa invece di approfittare per chiedere informazioni e fissare un nuovo colloquio.
Il giorno del colloquio un puntualissimo Flavio varca la porta dello studio. Questa volta abbiamo innanzi un uomo stanco (dirà che ha da poco smontato da un turno in fabbrica), pulito e curato ma meno ansioso di parlare rispetto al precedente incontro.
Flavio ti guarda e aspetta una domanda, una mossa (la sensazione è proprio quella di una partita di bridge in cui vivi l’ansia dell’impasse ). L’aria di sospensione viene mossa dall’eco del colpo di tosse di Flavio a cui seguiranno parole dette creando un circolo di chiusura intorno alle stesse
“Dottoressa io sento qualcosa che non so cos’è; non so darle una definizione del mio stato di malessere che poi non so nemmeno se è reale malessere; mi sento .. Boh! Sa che non so dirle come mi sento? Mi crede?”
Dico a Flavio di poter capire la sua sensazione e che se vuole, può aiutarmi a capire ancora di più così da provare a dare insieme una definizione di questo suo malessere che tanto lo infastidisce, lo mortifica, ma di cui sembra non conoscere la reale natura.
Flavio fa un cenno con la testa e guarda in un punto vuoto dello studio.
Si sente un respiro molto profondo nella stanza a cui seguiranno le parole dell’uomo:
Avevo un amico, Dottoressa.. un amico fraterno, speciale.. (NO! io non ce la faccio.. dice mentre ride in maniera stizzita cominciando a piangere)
Gli dico che non è obbligato a parlarne, non ora se non vuole, ma di considerare l’idea che in questo spazio neutro che a lui è dedicato, può abbandonarsi a qualsiasi tipo di sensazione ed emozione senza ricevere giudizi o pareri “è il tuo spazio e noi siamo qui per te. Considera questa possibilità e prova a capire se può essere utile per te, in questo momento della tua vita, ricevere il supporto necessario per affrontare il tuo malessere; un supporto con cui tu potrai provare a dare un nome alle tue sensazioni”.
Flavio accenna un sorriso e va via.
Il giorno del terzo incontro l’uomo dice di essere capace, oggi, di raccontarci la sua storia.
Figlio unico di una famiglia fredda e assente, Flavio si lega in un’amicizia unica, fedele, fraterna ed eterna al suo amico Salvo. Flavio si descrive come un ragazzo tutto sommato normale, con la difficoltà a legarsi sentimentalmente (si è sempre spiegato questo punto come il derivato di esperienze familiari affettive deprivanti) ma con il suo amico ha vissuto in pieno la vita. Hanno viaggiato tantissimo lui e Salvo; hanno goduto dei tramonti di ogni parte del mondo (racconta di un viaggio zaino in spalla fatto fino al Vietnam).. racconta dell’Islanda.. l’Africa.. ore e ore a lavorare nei turni più assurdi in fabbrica (insieme) per permettersi questi viaggi.
Mai un litigio.. mai un muso lungo.. un amore di amicizia che nemmeno nelle famiglie più unite “ha presente il detto il sangue non si sceglie?” Ecco.. Salvo ed io ci siamo scelti che nemmeno le migliori relazioni d’amore.
Flavio si tocca continuamente la testa e racconta di quando portava le treccine e Salvo le ha tagliate perchè continuavano ad impigliarsi nello zaino mentre stavano facendo il cammino di Santiago, così.. in una notte sotto le stelle “mi ha evirato, Dottorè! “.
Mentre ride Flavio scoppia in un pianto improvviso, senza sosta e incontenibile.
Salvo è morto un paio di mesi prima per un incidente. Flavio racconta che una sera lui aveva avuto una febbre molto forte e Salvo stava correndo a casa dell’amico per capire se portarlo in ospedale o meno; una manovra sbagliata dal conducente dietro la macchina di Salvo e del giovane uomo è rimasto poco o niente…
Flavio ha un attacco di panico (dei peggiori mai visti); riusciamo a farlo “rientrare” ma l’uomo è esausto, senza forze e dissociato.
Nei giorni seguenti Flavio avrà un atteggiamento di scissione pensandosi e descrivendosi come alternativamente buono e cattivo (sono una persona cattiva, faccio schifo, merito la morte vs. sono una brava persona Dottoressa, non ho colpe). Flavio alternerà momenti di forte negazione giungendo a non affrontare i conflitti emotivi – e le fonti di stress- rifiutando di conoscere alcuni aspetti della realtà (Flavio negherà ad esempio la notizia avuta sul fatto che il conducente dietro Salvo avesse bevuto e consumato droghe); Flavio inoltre metterà in atto un altro meccanismo di difesa che è l’annullamento retroattivo con cui eseguirà una serie di cose (ad esempio indossare per una settimana di seguito la maglia che aveva la sera che Salvo è morto oppure fare 10 giri con la bici intorno allo stesso palo della luce) per annullare e “scontare” il pensiero secondo cui la colpa della morte di Salvo sia solo sua.
Flavio fa un uso enorme dei meccanismi di difesa che paiono enormi iceberg protettivi difficili da sciogliere.
Le sedute continuano, Flavio si presenta regolarmente.. un giorno è curato, l’altro meno.. alle sedute seguono i giorni, le settimane e i mesi.
Sottoposto anche a psicodiagnosi con test specifici e a colloqui con la psichiatra Flavio (preferisco per diverse ragioni, non essere troppo specifica sul tipo di diagnosi), continua nel suo percorso.
Un giorno sembrava un ragazzino.. un piccolo adolescente in (ri) scoperta del mondo. Abbiamo parlato dei viaggi.. del tempo.. del mare e della musica.. Ci siamo chiesti quando – e se- il covid sarebbe finito.. quando – e se- avremmo potuto stringerci la mano per salutarci all’inizio e alla fine di un colloquio.
Flavio è uno di quei pazienti che ti entra dentro e non ti lascia indifferente; ha una storia familiare ben più complessa di quanto detto inizialmente e ha un mondo interno pieno di affascinanti sfumature. Il giovane ha – inoltre- una spiccata sensibilità artistica, scrive, dipinge e suona (realmente, non come tanti che si descrivono come grandi poeti).
Un giorno in cui ammetto la mia difficoltà nel trattenere l’emozione, Flavio entra in studio con una tela. Ha dipinto un tramonto (uno dei tanti visti insieme a Salvo); il tramonto “ride” come il sorriso di Salvo; il mare è fatto di treccine come quelle che gli aveva tagliato l’amico (di cui entrambi ne conservavano una); la spiaggia è fatta con le pietre della spiaggetta su cui bevevano e cazzeggiavano e al centro salvo ha impresso l’impronta della propria mano quella che è sicuro Salvo, non lascerà mai e poi mai..
Luana è una donna di 36 anni che chiede un incontro di consultazione perché la sua relazione è terminata da un po’ e continua a non comprenderne il motivo.
Il giorno dell’incontro Luana arriva all’appuntamento in orario; è una donna piacente, curata e altezzosa. Molto magra, alta con un collo lunghissimo sul quale si poggia un piccolo viso che scruta tutti da lassù con aria da “io sono migliore di voi”.
L’abbigliamento di Luana è palesemente di alta moda; scarpe con tacco a spillo, borsa di vera pelle e cappottino allacciato con fibbia recante il marchio di un noto stilista. Luana indossa inoltre dei guanti di pelle di serpente che quasi richiamano il suo modo- fluido- di muoversi nello spazio.
Luana è prepotente, si siede ma mostra da subito un atteggiamento di sfida “Ah.. siete tutte donne qui.. Da quelle che stanno all’accettazione, le infermiere.. non so.. le dottoresse.. A saperlo andavo altrove.. per carità.. Non si offenda.. ma sa com’è.. da sempre il medico è maschio, uomo… Una dottoressa donna fa sempre un pò strano”..
Le parole di Luana danno già una certa indicazione del suo pensare e del suo vivere ma, facendo un (momentaneo) passo indietro, cerchiamo di avere informazioni più specifiche sulla donna.
Luana lavora in un negozio che rifornisce esperti/consulenti per l’immagine (sarà lei a dire queste specifiche parole, per indicare il suo lavoro come commessa in un negozio che vende makeup); è la prima di due figlie e i genitori hanno divorziato quando lei aveva 5 anni. Il padre è descritto come una figura lontana che si perde tra la realtà e la fantasia poiché, avendo lasciato la famiglia per amore di un’altra donna, Luana e la sorella sono cresciute all’ombra dei racconti che la madre ha fatto loro di questo uomo “infedele e bastardo” (in un colloquio la sorella di Luana è di tutt’altro avviso; il padre è sempre stato amorevole e presente).
Luana nel raccontare la sua storia (seduta quasi come fosse una ballerina di danza classica, con quella schiena così dritta), dice di essere stata lasciata dal compagno senza un reale motivo “vorrei sapere come ha potuto lasciare una donna bella e intelligente come me.. Capisce Dottoressa.. E’ una vera testa di c.. – posso dirlo?- Bene! cazzo! quello lì.. ha presente come sono sciatte le donne oggi? Vede io quanto mi tengo bene.. Inoltre non sono nemmeno stupida! Capirà presto il grande errore e tornerà da me, ma Io (sulla I Luana alza anche il dito indicandosi cacciando un pò il petto – finto- fuori) lo rispedirò al mittente con tanto di calcio nel culo!”
Per i pochi dati che abbiamo a disposizione, una delle possibili ipotesi psicodiagnostiche che si potrebbe fare è che Luana abbia un disturbo narcisistico di personalità; Luana sembra infatti mostrare grandiosità, bisogno di ammirazione e la ricerca costante di un palcoscenico su cui esibire la sua grandiosità (lontano da questo però, Luana è pervasa da sentimenti di depressione, tristezza e vulnerabilità).
Procedendo con il colloquio emergeranno altri particolari come un abbassamento delle capacità lavorative da parte di Luana e – soprattutto- un comportamento parasuicida e autodistruttivo motivo per cui un’altra ipotesi possibile potrebbe essere, per Luana, un disturbo borderline di personalità
La diagnosi differenziale tra i due disturbi diventerà sempre più necessaria per attuare delle corrette ipotesi di intervento da parte della psicoterapeuta.
A Luana sarà fatto compilare anche il test MMPI-2; test utile a valutare le più importanti caratteristiche strutturali della personalità e dei disturbi emotivi. Luana, ad esempio, otterrà un punteggio molto elevato alla scala Ipocondria (Hs); i pazienti che ottengono un punteggio elevato in questa scala sono caratterizzati (oltre che da preoccupazioni somatiche), da una visione pessimistica della vita, cinismo, narcisismo, lamentosità, insoddisfazione, atteggiamento critico nei confronti degli altri.
Luana non ha accettato il risultato del test (altro punto ad es dei soggetti con alto punteggio alla scala Hs è proprio che rifiutano spiegazioni o trattamenti psicologici per i loro sintomi) e non è più tornata, in studio.
La sorella tempo dopo ci ha riferito che Luana aveva tentato ancora una volta il suicidio e che tuttavia, non voleva procedere con un invio presso la salute mentale.
Non abbiamo altre notizie della donna serpente che è entrata in studio, in un giorno di Dicembre, strisciando sì.. ma lasciando un profondo solco.. una profonda impronta della sua fluida presenza.
In passato ho già descritto -.brevemente- secondo la teoria di Melanie Klein, l’aggressività in termini psicodinamici. Oggi voglio invece parlare della rabbia intesa come emozione centrale del e per l’essere umano.
La rabbia è un’emozione prototipica perché in essa si possono identificare un’origine funzionale, antecedenti, manifestazioni espressive e modificazioni fisiologiche. La rabbia può essere osservata anche nei bambini molto piccoli (è un’emozione primaria) anche se viene inibita dalla cultura (o modificata) .
Secondo autori come Stenberg e Campos, la rabbia è osservabile anche in bambini di pochi mesi; secondo i due autori -infatti- in bambini di 4/7 mesi è stato possibile evidenziare la presenza di espressioni facciali e vocalizzi riconducibili alla rabbia.
Le espressioni facciali della rabbia sono riconoscibili in tutte le culture e secondo un test (test di Rosenzweig), sembra che le persone aggressive siano più portate a tollerare l’ira altrui.
Averill sostiene che siamo più portati ad arrabbiarci con le persone a cui vogliamo bene, coloro con cui siamo affettivamente legati (sembra che la motivazione sia nel fatto che queste persone possano farci del male molto più facilmente; che abbiamo paura di perderle e che queste possano più facilmente modificare un comportamento che mal tolleriamo, se abbiamo una discussione).
La storia di V. il ragazzo che brucia.
Il colloquio con V., si presenta come uno di quegli incontri di difficile gestione perché il ragazzo ha mostrato fin da subito (motivo dell’invio fatto dal Tribunale dei Minori), una crescente e ingestibile rabbia/aggressività.
V. è un ragazzone di 18 anni (compiuti pochi giorni prima del nostro incontro); appare come un giovane in sovrappeso, vestito molto alla moda.. una moda che lo penalizza e lo fa apparire goffo. Il jeans è di almeno una taglia più piccola ed evidenzia i suoi kg di troppo rendendone lento il movimento nello spazio; ha una felpa grigia che non appare proprio pulitissima, un giubbino piumino extra lucido di un colore improponibile; le unghie delle mani distrutte tanto da mostrare carne viva morsa e lacerata dai suoi affilati denti ma.. la cosa che colpisce ancora di più è l’evidente occhio (destro) nero, il labbro fratturato e diverse cicatrici (più o meno recenti) sul volto.
I diversi colloqui saranno tenuti tutti in lingua; l’uso della lingua napoletana non è dovuto all’incapacità del ragazzo di usare l’italiano ma alla sua personale sfida verso gli interlocutori
“Si fa come dico io.. dice V., o me ne vado”
Inizialmente gli è stata data l’illusione di avere le redini del “gioco” anche se di fatto.. così non è stato.
V. ti guarda con occhi di fuoco, occhi che difficilmente ho visto nella mia vita; non è semplice rabbia quella che lo attraversa. V., brucia il mondo circostante, non vive nello spazio ma lo rende cenere analizzandolo con quegli occhi rossi di livore; occhi al veleno che sputa ad ogni parola gettata su chi ha innanzi nella speranza di “avvelenarlo”, come hanno fatto con lui.
La storia di V è complessa e per diverse ragioni ho deciso di saltare molti passaggi. Posso dire che il ragazzo è stato vittima di abusi nella vita; abusi fisici e psicologici continui, costanti e pressanti. Ha vissuto rimbalzato tra case famiglia e/o tutori di turno incontrando anche in questi ambienti il degrado, il freddo e il gelo; gelo a cui ha deciso di rispondere bruciando (anche solo con lo sguardo) ogni cosa.
V., sembra non capire perché sia da noi, certo.. ha bruciato diverse persone usando la lama del coltello riscaldata con l’accendino, si è spesso cacciato in risse, fa piccoli furti.. ma a lui non interessa.
(Vista la complessità, il lavoro su V., è stato condotto in equipe lavorando con la neuropsichiatra infantile, anche se il ragazzo dal momento dell’invio – in cui era minorenne-, al primo colloquio è diventato maggiorenne, l’assistente sociale, la psicoterapeuta e la psicologa).
Ti guarda e ti brucia, percepisci solo quello quando guardi V., non saprei come altro descrivere la sensazione di calore che gli occhi di quel ragazzo ti inviano. I giorni passano, le sedute si susseguono e l’unica cosa che sembriamo ottenere è che V, torni (le altre colleghe pensavano che lui non sarebbe tornato, io si). Percepisco in tutto quel fuoco piccole risorse disseminate; risorse che si presentano come piccolissime gocce di acqua pronte a rendere meno vive le fiamme di V.
Decidiamo di provare con la boxe; proviamo in sostanza a veicolare la rabbia in qualcosa che sia costruttivo e non distruttivo. V non capisce il senso di tirare cazzotti a vuoto o in maniera regolare, ma giorno dopo giorno sembra prendere coscienza della possibilità di trovare sfogo, senza distruggere per davvero ma solo “per finta”; tirando cazzotti “a vuoto” capendo che anche solo “provare a fare a botte”, provare, può diventare un mezzo per sentire.
Il percorso di V., sarà lunghissimo.. una fatica immane volta a prendere a cazzotti tutto il passato, una storia che il ragazzo non voleva percorrere di nuovo, sentendola come estranea e altro da sé: “Io non sono quel finocchio che prendeva botte, io scasso tutto e tutti”.
Una volta mi chiese perché io facevo le domande e non rispondevo mai; gli ho ricordato che noi non eravamo lì per me e che se voleva poteva farmi una sola domanda a cui avrei risposto, poi basta.
V., mi guarda e sfoderando un perfetto italiano dice
“Dottoressa lei è una che non ama il freddo, vero?”
Il disturbo di Depersonalizzazione viene classificato nel DSM-5-TR tra i disturbi dissociativi. L’ICD (International Classification of Diseases) prevede invece una singola categoria per i soggetti che presentano depersonalizzazione o derealizzazione: La Sindrome di Depersonalizzazione- Derealizzazione.
Quando parliamo di questo disturbo, a cosa riferiamo?
“Mi sento come fuori dal mio corpo, mentre faccio anche le cose più banali sento come se a muovere il braccio, non sia io.. è come se il corpo non risponda ai miei input.. Mi sento tipo ovattata come se stessi sognando.. continuo a fare le cose cioè.. riesco a parlare, muovermi ma il corpo non mi appartiene più, nel frattempo”.
Il disturbo è caratterizzato da persistenti o ricorrenti episodi di depersonalizzazione ovvero la sensazione di essere distaccati dal proprio corpo. I soggetti con tale disturbo possono avere difficoltà nel descrivere i propri sintomi in quanto appare centrale la sensazione di essere estranei a se stessi. La sensazione comporta il sentirsi come “osservati dall’esterno”, l’essere in un film o in un sogno. La sensazione è quella di una anestesia sensoriale in cui risulta che il corpo sia come privo di vita, intorpidito o come avente delle parti scollegate tra loro.
Queste sensazioni sono accompagnate da vissuti di profonda ansia o panico; la persona può riferire di sentirsi un pupazzo o un burattino non padrone del proprio corpo.
L’esperienza di derealizzazione, che si riferisce specificatamente alla sensazione di estraneità rispetto al proprio ambiente, fa parte del disturbo di depersonalizzazione e l’ambiente viene descritto come piatto, confuso, distante, dai colori indistinti e lontano dalla propria percezione emotiva.
L’esame di realtà resta integro pertanto si mantiene consapevolezza, ad esempio, del fatto che l’estraneità provata rimanga nel dominio delle sensazioni. Ma nonostante il mantenimento dell’esame di realtà integro, la sensazione esperita provoca profondo disagio interferendo con il funzionamento sociale e lavorativo.
In realtà i sintomi da depersonalizzazione sono piuttosto comuni pertanto per ottenere un diagnosi di tale disturbo, occorre che i sintomi siano così invalidanti da rendere quasi impossibile un corretto funzionamento sociale e lavorativo.
I sintomi come la depersonalizzazione sono molto comuni in tutta una serie di patologie (schizofrenia, disturbo dissociativo dell’identità, depressione, disturbo di ansia, ..) ecco perchè è importante procedere con una diagnosi differenziale.
E’ necessario differenziare il disturbo di depersonalizzazione dai sintomi che si possono manifestare in seguito ad altra condizione medica specifica (epilessia del lobo temporale, ad esempio).
Abuso di sostante stupefacenti , Ansia o intossicazione acuta (o astinenza) da alcool, provocano gli stessi sintomi; così come la schizofrenia.
Si stima che nel corso della vita circa il 50% della popolazione generale (in maggioranza donne sotto i 40 anni), abbia sperimentato almeno un episodio di depersonalizzazione.