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Simbolismo Fonetico.

Fonte Immagine Google.

Recentemente un filone di ricerca si è occupato dell’influenza e il potere che il suono delle vocali – poi delle parole intere- può avere sulla psicologia del potenziale compratore.

La domande che i ricercatori si sono posti concerne la possibilità offerta dal nome di un marchio; ovvero dall’influenza che il nome stesso può avere sulla futura scelta del compratore. Può in sostanza il solo nome, influenzare i nostri acquisti?

Tina Lowrey e Larry Shrum del Dipartimento di marketing dell’Università del Texas hanno condotto studi in merito.

Già in precedenza, studi di psicolinguistica avevano evidenziato che, in tutte le culture, alcuni tipi di vocali sono associati agli stessi concetti.

Accade ad esempio che le vocali anteriori (quelle che vengono pronunciate con la lingua in avanti) come la “i” nell’articolo “il” evocano velocità e oggetti piccoli, acuti o taglienti.

Di converso le vocali posteriori (quelle pronunciate spingendo la lingua verso il palato) come la “a” in “al”, sono associate ad aggettivi come “sicuro, confortevole o lento”.

Questo fenomeno prende il nome di “simbolismo fonetico” e potrebbe avere proprio implicazione nella scelta del nome di un determinato marchio.

I ricercatori hanno condotto un esperimento inventando nomi di finti marchi distinti soltanto da una vocale. La maggior parte dei partecipanti (67%) ha preferito i marchi che contenevano nel loro nome suoni con vocali anteriori quando dovevano acquistare oggetti piccoli e veloci (ad esempio coltelli) mentre nomi con vocali posteriori quando dovevano acquistare grandi oggetti come macchine SUV o oggetti pesanti come matelli.

Per aumentare l’effetto del nome del marchio, inoltre, serve che il significato evocato dal suono sia in accordo con le caratteristiche del prodotto stesso; sembra inoltre che il fenomeno sia trasportabile in qualsiasi cultura ovvero che il suono delle vocali esprima ovunque gli stessi concetti.

“Finisce bene quel che comincia male”.

Dott.ssa Giusy Di Maio.

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Sulla Giornata Mondiale dei Diritti Umani

Oggi è la Giornata Mondiale dei Diritti Umani. La data del 10 dicembre è stata scelta perché corrisponde alla data di proclamazione da parte dell’assemblea della Nazioni Unite della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani il 10 dicembre 1949.

“Io appartengo all’ unica razza che conosco, quella umana.”

Albert Einstein

“Perché la memoria del male non riesce a cambiare l’umanità? A che serve la memoria?”

Primo Levi

La questione dei diritti umani nasce dal desiderio della maggior parte delle popolazioni del mondo di rimarginare uno squarcio, una ferita profonda che emergeva chiaramente dalle macerie della seconda guerra mondiale, ma che affondava le sue radici nei secoli precedenti. Nasce probabilmente dal senso di colpa per quella forbice troppo ampia di differenze nei diritti e nelle possibilità date alla gente e ai popoli.

Quante cose sono cambiate da quel giorno? Quanto si è fatto e quanto si potrebbe ancora fare?

Perché la memoria non riesce a dar vita ad un cambiamento più radicale e concreto? Perché non riusciamo a comprendere l’umano, simile a noi? Cosa bisogna fare ancora per valorizzare le differenze e assicurare la vera parità dei diritti?

Credo che il cambiamento debba partire da tutti noi. Nel nostro piccolo possiamo arricchirci delle differenze ed equilibrare le possibilità e i diritti di tutti; rispettando l’altro, il suo spazio, il suo pensiero la sua cultura; rispettando noi stessi anche attraverso la valorizzazione dei nostri impegni, del nostro lavoro, del nostro essere nel mondo con gli altri; rispettando l’ambiente, in quanto natura, e gli spazi comuni di incontro e di vita. Credo che la co-costruzione di una cultura collettiva e personale votata al rispetto dei diritti e dei doveri altrui sia la base essenziale del miglioramento dei diritti dell’intera umanità.

“Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi

Aggressività e apprendimento sociale

Può l’aggressività essere un comportamento sociale appreso?

Albert Bandura nella sua teoria dell’apprendimento sociale sostiene che i bambini possono apprendere l’aggressività sperimentandone le gratificazioni ma anche osservandola negli altri. Bandura sostiene infatti, che come per gli altri tipi di comportamento sociale, anche l’aggressività si può acquisire osservando il comportamento degli altri e le sue conseguenze. (nella teoria dell’apprendimento sociale Bandura sostiene che gli esseri umani apprendono il comportamento sociale per osservazione e imitazione e mediante un sistema di ricompense e punizioni).

L’esperimento di Bandura: la bambola Bobo

La scena sostanzialmente è questa: viene portato un bambino in età prescolare in una stanza. La stanza ha diversi elementi di svago. Il bambino comincia ad interessarsi ad un’attività artistica. Nella stessa stanza, ma da un’altra parte, ci sono delle costruzioni, un pupazzo di gomma gonfiabile e una mazza e c’è anche un adulto. L’adulto in questione gioca contemporaneamente al bambino usando le costruzioni per circa un minuto. Si alza, prende la mazza e per un bel po’ di minuti comincia a picchiare il pupazzo, colpendolo anche con dei calci e con dei pugni e gridando “colpiscilo sul naso, più forte…buttalo giù…un calcio!”. Il bambino assiste a questa scena dalla sua postazione. Viene poi accompagnato in un’altra stanza dove ci sono altri giocattoli molto attrattivi. Dopo circa due minuti entra nella stanza lo sperimentatore, interrompe il gioco del bimbo dicendogli che deve accompagnarlo fuori perché quelli sono i migliori giocattoli che ha e deve conservarli per altri bambini. Il bimbo viene quindi accompagnato in un’altra stanza dove sono presenti tanti altri giocattoli, ma alcuni sono stati ideati per il gioco “violento” e altri no. Tra questi ci sono ancora una volta il pupazzo di gomma e la mazza.

L’esperimento è stato condotto su diversi bambini. Divisi in tre gruppi (uno di controllo, quelli che avevano assistito alla scena dell’ “adulto violento” e quelli che invece non avevano assistito a questa scena). Il risultato è stato che i bambini che non avevano assistito alla scena violenta nella prima stanza, per quanto un po’ frustrati giocavano con tranquillità e raramente mostravano un linguaggio aggressivo; i bambini invece che avevano assistito alla scena si mostravano più aggressivi e addirittura raccoglievano la mazza e si avventavano sul pupazzo, spesso riproducendo anche gli stessi atteggiamenti e parole dell’adulto.

L’osservazione del comportamento aggressivo aveva in qualche modo ridotto le loro inibizioni e insegnato al bambino due modi per aggredire: a livello verbale e a livello fisico.

Le immagini dell’esperimento di Bandura

Bandura attraverso la sua teoria ritiene che possa essere la famiglia, l’ambiente socio-culturale e anche l’influenza dei mass-media ad esporre il bambino all’aggressività.

Ad esempio, alcuni ricercatori hanno osservato (Patterson et al,.1982 – Bandura 1979) che in genere i bambini che risultano fisicamente più aggressivi, in famiglia hanno avuto, molto probabilmente, genitori che adottavano modalità educative violente e aggressive (urla, schiaffi, percosse, offese), che potevano arrivare a veri e propri maltrattamenti. Si è potuto osservare che circa il 30% dei bambini maltrattati diventavano a loro volta maltrattanti, avendo quindi molte possibilità di diventare a loro volta genitori violenti.

Prendendo invece in considerazione l’ambiente culturale e sociale di riferimento, i bambini che vivono in contesti e comunità, immerse in sottoculture violente o in senso più ampio, vivono in un paese governato da un conflitto bellico o in uno stato caratterizzato da forti disparità economiche e sociali, saranno più predisposti ad adottare comportamenti aggressivi.

I mass media infine hanno anch’essi un ruolo rilevante nello sviluppo dell’aggressività. I media in generale hanno la facoltà di incrementare la probabilità del verificarsi di comportamenti aggressivi tra i giovani. Craig Anderson (Psicologo Sociale, 2001) afferma che l’esposizione a questa violenza veicolata dai media provoca significativi incrementi dei comportamenti aggressivi.

Bambola Bobo

Bandura sostiene che le azioni aggressive possono essere motivate da un’ampia gamma di esperienze avversive: frustrazione, insulti, dolore. Queste esperienze sollecitano a livello emotivo. I ricercatori hanno convenuto sul fatto che non è tanto la visione della scena violenta a generare violenza, ma la sollecitazione emotiva individuale e le conseguenze apprese. E’ più probabile che si generi aggressività quando si è provocati o quando una risposta di tipo aggressivo pare più sicura e gratificante.

“Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi

IL MIGRANTE SFUGGENTE.

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Il tema della migrazione si presenta oggi come fortemente attuale e connotato da profonde sfumature. Si tratta di un fenomeno che appartiene all’uomo dai primordi della sua esistenza, da quando – in sostanza- l’uomo primitivo ha incominciato circa 120 mila anni fa, a compiere delle incursioni dal continente Africano.[1] Il cambiamento che determinò una sorta di “arresto” del transito migratorio fu il passaggio, attraverso il periodo che prende il nome di Mesolitico (età della pietra di mezzo), dal Paleolitico (età della pietra antica) al Neolitico (età della pietra nuova).

Perché il richiamo alla storia?

Citare fonti storiche, può aiutarci a comprendere il motivo per cui l’essere umano ha attuato degli spostamenti “fisici”, evidenziando come questi, siano stati principalmente effettuati per migliorare la propria condizione (il periodo, infatti, del Neolitico attesterà il passaggio dell’uomo dalla condizione di nomade a sedentario, poiché egli poteva adesso contare sulla coltivazione dei campi e sull’allevamento del bestiame), si trattava pertanto d’innovazioni che avevano aumentato notevolmente la qualità della vita dell’uomo.

La difficoltà nel parlare di migrazione.

Per quanto, come precedentemente detto, il fenomeno migratorio sia profondamente attuale, è ancora piuttosto difficile affrontare il tema, soprattutto perché questo è attualmente oggetto di “incontri/scontri” tra fazioni politiche, le quali spesso dimenticano che essendo tutti discendenti dell’homo sapiens, siamo marchiati “ab origine”, come migranti.

 

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La Danza”, Matisse.

Il fenomeno sfuggente.

J.P. Raison, riferisce alla migrazione come un fenomeno sfuggente: “.. è strutturalmente sfuggente, in quanto zona di passaggi, di trasformazioni, di cambiamenti dagli esiti incerti” . Pertanto, la difficoltà nel comprendere il fenomeno migratorio, risiede nel suo essere in completo divenire, nell’essere qualcosa difficile da contenere; un qualcosa che ancora non è e che sarà, o che è già stato e non è più. L’accezione “seconda generazione”, nella sua sterilità, indica come “la qualità dell’essere immigrato, permanga attraverso le generazioni, e venga mantenuta attraverso la discendenza, anche quando si tratta a tutti gli effetti di bambini nati nel paese di accoglienza”[1]. Risulta quindi paradossale che –specie in alcune fazioni politiche-, venga fortemente fatto leva sul concetto di integrazione, mantenendo al contempo una distanza “dal fenomeno”, utilizzando un semplicistico etichettamento. Renè Kaës ritiene che: “è così che veniamo al mondo, attraverso il corpo e attraverso il gruppo, e il mondo è corpo e gruppo”[2]; ma cosa diventa e come si modifica, nell’ambito del fenomeno migratorio, il corpo e il gruppo di appartenenza?

Il ruolo del corpo nella migrazione e nelle seconde generazioni.

La pelle che riveste il corpo, funge sia da protezione che da filtro; filtro il cui compito è mantenere un equilibrio omeostatico tra l’ambiente esterno e interno. La pelle diviene pertanto luogo in cui trasferire e far emergere quella frattura (difficilmente riconosciuta) intrapsichica, costituita da quel buco nell’origine, spesso colmato con la mimesi[3]. Al “cosa sono io?”, “chi sono io?”, a quel significante enigmatico costituito da un colore della pelle diverso, si sostituiscono ad esempio, trattamenti come lo sbiancamento della pelle, attuati probabilmente per porre fine a quella eco, che difficilmente trova risposta in un “questo sei tu”. La madre quindi non può guardare il proprio bambino restituendogli quell’immagine che dovrebbe identificarlo, questo perché tale immagine dovrebbe essere simbolicamente intessuta. Finché la madre resta nel proprio sistema culturale può, infatti, svolgere la propria funzione di portaparola (Cfr., V. De Micco, Trapiantare/tramandare. Legami e identificazioni nei transiti migratori, p, 37); funzione resa invece complessa allorché la stessa madre si sente lontana e straniera a se stessa, quando ella si sente spogliata del proprio sistema simbolico, e sente di “non poter affiliare il proprio stesso bambino al suo lignaggio ovvero sia alla catena delle proprie appartenenze simboliche, di assegnarlo al posto di proprio discendente” [1] . Ne deriva quindi che il mondo perde la propria “ovvietà”, diventando oscuro e sconosciuto; un mondo dove anche la più semplice delle azioni quotidiane, risulta enigmatica e dove il “colore della pelle rende questi bambini contemporaneamente più nudi e più opachi degli altri, insieme sovraesposti e invisibili”[2]. Per il bambino è difatti “impensabile che il suo genitore, supporto nella sua prima infanzia dei suoi ideali, dei suoi investimenti, delle sue proiezioni, sia alle prese con dei conflitti intrapsichici[3],conflitti che se non adeguatamente supportati, creeranno una “falla transgenerazionale”, che terminerà nel non riconoscimento da parte dei genitori dei propri figli, che diventeranno estranei ai loro occhi, figli “né di questo, né dell’altro paese”.

Il trauma culturale.

E’ interessante notare come connesso al fenomeno della migrazione, vi sia il concetto di “trauma culturale” dove “la possibilità di costruire una memoria individuale del transito migratorio, passa attraverso la necessità di trovare strumenti di rappresentabilità culturale e psichica del proprio trauma migratorio”(Cfr., V. De Micco, Dal trauma alla memoria Il ‘gruppo interno ’ tra origine e appartenenza in bambini migranti), questo vuol dire che se non avviene una personale elaborazione del proprio trauma, non è possibile costruire una memoria dell’evento stesso, memoria che potrà essere trasmessa alle future generazioni (ad esempio con l’ausilio del racconto); memoria che potrà fungere da ponte tra ciò che si è stato, si è, e si potrebbe essere.[1] Se –come Derrida sosteneva-, lo “straniero si trova già dentro,”[2] la questione dell’incontro (che spesso si tramuta in scontro) con l’altro (un altro bisognoso di cure), riporta l’individuo a dover fare i conti con la propria inquietante estraneità[3]. Come un infans che innanzi allo specchio ha bisogno della parola fornita dal sostegno umano, per dare senso all’immagine che la superficie riflettente gli rimanda (immagine che si scontra con una frammentazione interna), così innanzi a quello straniero che “percorre nella sua migrazione strade che lo trasformano in una maschera la cui apparizione lascia intravedere la familiarità di una faccia che ritorna”[4],le popolazione autoctone, di fronte a “quell’inquietante”, al riflesso restituito da “quegli occhi”, si trovano spiazzati e spaesati, incapaci probabilmente di poter accettare che almeno una volta, siamo stati tutti stranieri[5]. Dal canto loro, in quell’incertezza “del chi sono io”, di cui quasi quotidianamente fanno “conoscenza” le seconde generazioni, incertezza che fa sentire in bilico, costantemente come sotto l’influsso di una vertigine, non resta che fare come il protagonista di “un’idea”, che innanzi a un dubbio risponde con un “(..) resta lì, di nuovo assorto, opacamente, in quella sua singolare attesa”.[6]

Dott.ssa Giusy Di Maio

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“La riproduzione vietata”, Magritte.

[1] A proposito della memoria, può essere interessante far ricorso al cinema, citando il film “Ogni cosa è illuminata”, 2005, Liev Schreiber, trasposizione cinematografica dell’omonimo libro autobiografico di Jonathan Safran Foer. Si tratta di un film ricco di particolari e suggestioni che narra la storia di Jonathan, giovane ebreo statunitense, che decide di compiere un viaggio a ritroso sulla scia della propria storia familiare, partendo dagli Stati Uniti, per giungere in Ucraina. Il protagonista si trova a vivere, rivivere e agire, la storia e il trauma familiare (tema centrale sarà la Shoah); come un archeologo, scavando alla ricerca delle proprie origini, Jonathan elabora il lutto accendendo una luce su un passato tenuto per troppo tempo al buio.

[2] Galiani R. (2009), La faccia dell’estraneo, il volto dello straniero. In Psicoterapia Psicoanalitica, p. 18

[3] Ibidem

[4] Ibidem, p,21

[5] Si pensi alla nascita, in cui (per quanto memoria cosciente non ve ne sia), abbiamo tutti affrontato un viaggio che ci ha portati in terra sconosciuta.

[6]Luigi Pirandello, “Un’idea”, Novelle per un anno, a cura di Mario Costanzo, Premessa di Giovanni Macchia, I Meridiani vol. III, Arnoldo Mondadori editore, Milano1990.

[1] Cfr., V. De Micco, Dal Trauma alla Memoria. Il ‘gruppo interno ’ tra origine e appartenenza in bambini migranti, in “Funzione gamma. Tecniche di ricerca e psicologia di gruppo”, rivista telematica scientifica dell’Università “La Sapienza” Roma, numero monografico su “Gruppo e migrazioni”, marzo

2011, http://www.funzionegamma.edu

[2] Virginia De Micco, “Trapiantare/tramandare. Legami e identificazioni nei transiti migratori”, p. 42, in numero monografico della rivista “Interazioni”, n. 1-2014/39 a cura di Virginia De Micco e

Ludovica Grassi su “Soggetti in transito. Etnopsicoanalisi e migrazioni”, Ed. Franco Angeli

[3] Micheline Enriquez, “Delirio in eredità”, p. 115, in Trasmissione della vita psichica tra generazioni. Trad. it. Borla, Roma, 1995

[1] Virginia De Micco, “Trapiantare/tramandare. Legami e identificazioni nei transiti migratori”, p. 32, in numero monografico della rivista “Interazioni”, n. 1-2014/39 a cura di Virginia De Micco e

Ludovica Grassi su “Soggetti in transito. Etnopsicoanalisi e migrazioni”, Ed. Franco Angeli

 

 

[2] Kaës R., Faimberg H., Enriquez M., Baranes J.J. (1993), “Introduzione: Il soggetto dell’eredità” p. 20, in Trasmissione della vita psichica tra generazioni. Trad. it. Borla, Roma, 1995

[3] Ritengo a tal proposito interessante, richiamare a quanto accaduto con una sentenza della Cassazione (15/05/2017). E’ bene precisare che l’intento non è esprimere un giudizio, quanto piuttosto riflettere su un dato. La Cassazione si è espressa (in merito ad un caso che, per ragioni di spazio, non citerò) sostenendo che “i migranti devono conformarsi a nostri valori, poiché non è tollerabile che l’attaccamento ai propri valori porti alla violazione di quelli della società ospitante”. Sarebbe interessante riflettere sull’accezione “attaccamento ai propri valori, e società ospitante”. http://www.repubblica.it

[1] Cfr. “L’uscita dell’uomo dall’Africa iniziò 60 mila anni prima di quando credessimo” ,da www.focus.it/scienze,