Una paziente mi chiese quando un dolore cominciasse a fare meno dolore; quando -in sostanza- avrebbe cominciato a sentire “come una volta” il piacere dell’abbraccio, il calore sul viso, il profumo di un fiore.
L’esperienza dolorosa è devastante poiché per quanto condivisa è sempre prima di tutto nel silenzio del proprio mondo interno che avvertiamo il senso devastante del dolore.
Il dolore può essere prettamente psicogeno o organico; può accompagnarsi o essere accompagnato da una specifica patologia o essere la spia di una psicopatologia.
Il dolore ha il tempo del dolore; un tempo che richiede la nostra piena attenzione e volontà.
Attenzione per se stessi, il proprio mondo interno, la propria storia personale scevri dal giudizio personale che vuole etichettare la nostra stessa storia.
Capita sempre di più (e anche qui, l’epoca social molto fa) che le persone decidano di darsi una etichetta psicodiagnostica e che si barrichino dietro questa definizione.
Ciascuno è -ovviamente- libero di vivere la propria condizione dolorosa con la delicatezza che più sente rispettosa verso il proprio processo di costruzione di sé ma va anche detto che la psicologia ha fatto tantissimo, negli anni, per distaccarsi dalla medicalizzazione del disagio psicologico arrivando -ad esempio- all’importantissima diagnosi funzionale dove più che parlare di deficit e “aspetti che non funzionano” si punta e di fa leva, lavorandoci, sviluppandole ulteriormente e valorizzando le aree funzionali della persona stessa che in questo modo, non è vista come solo “depressa, ansiosa, anoressica, disgrafica”.
Il tempo del dolore è quel tempo che serve per viaggiare tra, dentro, intorno, sopra, sotto, di fianco nel/al dolore stesso. Questo tempo terminerà quando la condizione originaria che portava il dolore stesso (la perdita, la malattia, etc..) non farà più così paura o dolore ma sarà seme per ricominciare o proseguire.
Il lutto di una persona cara, del nostro animale domestico, cesseranno di far dolore quando avremo la forza per guardare un certo oggetto o ripensare a quella cosa (ricordo, evento) senza abbandonarci più a lacrime continue ma quando quel ricordo renderà lucidi sì gli occhi, ma riuscirà ad aprire a nuove possibilità.
“Prendiamo un nuovo cane?/ Ho deciso di accettare quell’appuntamento/ Nonna faccio le polpette come le facevi tu! e che successo la cena con gli amici!”
Il tempo non ci è nemico a patto di riuscire a danzare insieme a lui (che siamo o meno, bravi ballerini!)
Dott.ssa Giusy Di Maio, Ordine Degli Psicologi della Regione Campania, matr. 9767
“Suggerirei il nome “deliri nichilistici” (delirio di negazione) per descrivere la condizione dei pazienti cui faceva riferimento Griesinger, in cui la tendenza alla negazione era spinta al suo grado estremo. Se si chiedesse loro il nome o l’età, essi non avrebbero né l’uno né l’altro – sono forse mai nati?
Non erano nati. Chi era il loro padre o la loro madre? Essi non hanno né madre né padre, moglie o figli. Hanno mal di testa o dolore allo stomaco o in qualsiasi altra parte del corpo? Non hanno testa né stomaco e qualcuno addirittura non ha corpo.
Se gli si mostra un oggetto, una rosa o un altro fiore essi rispondono ” questa non è una rosa, non è per niente un fiore”.
In alcuni casi la negazione è totale. Nulla esiste più, neppure loro stessi”
Jules Cotard (1882)
Questa condizione è tipica della depressione psicotica e quelli che Cotard descrive come deliri nichilistici sono spesso bizzarri, drammatici e grandiosi. Il mondo per queste persone è come se fosse scomparso, morto, spento, privo di vitalità.
Più sono preminenti i deliri nichilistici più la forma di depressione è grave.
La sintomatologia legata alla Sindrome di Cotard può probabilmente essere spiegata a livello neurologico, da una disconnessione tra le aree del cervello legate alle aree sensoriali e il sistema limbico (area del cervello in cui vengono elaborate le emozioni e la memoria).
L’impossibilità di provare emozioni e di “sentire” nel modo giusto le sensazioni provenienti dalle varie aree sensoriali del corpo, porta alla delirante convinzione che tutto intorno a sé è morto, privo di vita e tutto ciò che è dentro (organi, sangue e parti del corpo) inesistente. La persona affetta da Sindrome di Cotard si sente come fosse morta, si sente letteralmente marcire, svuotata di tutto e privata del resto. Un genitore, ad esempio, può addirittura pensare e riferire che suo figlio sia privo di vita, nonostante sia presente nella stanza del colloquio.
La Sindrome di Cotard è una patologia abbastanza rara ed è anche conosciuta come “Sindrome dell’uomo morto” o “Sindrome del cadavere che cammina“.
Da uno studio realizzato dall’istituto Superiore di Sanità basato sul sistema di sorveglianza PASSI (Progressi per le Aziende Sanitarie per la Salute in Italia – che raccoglie informazioni e monitora la situazione sui sintomi depressivi su campioni di adulti rappresentativi in Italia), durante le varie fasi della pandemia ed in particolare nei periodi di lockdown, si è registrato un aumento delle sintomatologie depressive in tutta la popolazione italiana ed in particolare tra i giovani tra i 18 ed i 34 anni di età.
Secondo questo sistema di monitoraggio dell’Istituto Superiore di Sanità è la prima volta, dal 2008, anno di nascita del monitoraggio, che nella popolazione tra i 18 e i 34 anni c’è un aumento della sintomatologia depressiva nei giovani “..che in passato risultavano essere tipicamente un gruppo protetto a minor rischio” ; inoltre, un forte aumento c’è stato anche tra le donne. (fonte skynews)
Il male di vivere – shorts psicologia – ilpensierononlineare youtube
Non esitate a chiedere aiuto ad un professionista della salute mentale.
La salute psichica non deve essere sottovalutata e come la salute fisica deve essere salvaguardata e preservata.
Corpo e mente non sono due entità distinte.
Sono interdipendenti e il loro buon funzionamento è fondamentale per il benessere della persona e di chi gli sta accanto.
Tachicardia, vertigini, capogiri, allucinazioni, confusione, alterazione della percezione, scompensi affettivi, depressione, ansia, attacchi di panico, manie persecutorie..
Può un’opera d’arte generare così tanto scompiglio nella mente di un uomo?
Cristo Velato – Napoli, Cappella San Severo (fonte immagine google) – persone raccontano di sensazioni simili dinnanzi alla statua del Cristo Velato di Giuseppe Sanmartino
Nel 1817 lo scrittore francese Marie-Henri Beyle (Stendhal) attraversò la penisola italiana durante il suo Grand Tour e tenne un diario poi pubblicato nella sua opera “Roma, Napoli e Firenze” dove per la prima volta descrisse questa esperienza psichica:
«Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati. Uscendo da santa Croce ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere.»
Stendhal
Quello che oggi definiamo come “Sindrome di Stendhal” è un disagio psichico individuato ed analizzato per la prima volta nel 1977 in Italia dalla Psichiatra Graziella Magherini. Lo studio del fenomeno, negli anni ottanta e novanta, nel Servizio di Salute Mentale di Firenze (Santa Maria la Nova) permise di scoprire che vi erano degli elementi ricorrenti in chi aveva manifestato questo disturbo: estrema sensibilità, il viaggio in un paese straniero e l’incontro con un opera d’arte.
In genere le manifestazioni psichiche descritte in precedenza e caratteristiche di questo disturbo, sono passeggere e perlopiù senza conseguenze gravi. La cosa interessante, venuta fuori dallo studio, è che quasi tutti i pazienti con Sindrome di Stendhal, hanno una vita solo in apparente equilibrio, in cui tendono a nascondere le insoddisfazioni, le difficoltà relazionali, inoltre vivono una vita caratterizzata da eccessivo “perbenismo” che li rende “rigidi”. L’opera d’arte, con la sua potenza evocativa, irrompe e sconvolge le loro difese psichiche.
L’opera d’arte (insieme a tutto il contesto: viaggio, ambiente, situazione personale) è quindi in grado con la sua bellezza e con la sua potenza evocativa emozionale di risvegliare sentimenti ed emozioni che mettono alla prova la persona che osserva, che può reagire in modi differenti e quindi non reggere l’impatto emotivo.
Cappella San Severo – Napoli (immagine google)
Il viaggio in un luogo d’arte è come un viaggio dell’anima ed è capace di risvegliare emozioni e sentimenti che mettono in gioco tutte le sfaccettature dell’identità di una persona.
Noto per la sua incontinenza verbale, Mozart esprime in questo modo il desiderio di volersi riappropriare dell’infanzia negata.
“Accidenti, maledizione, mannaggia la miseria, (…) Ah! Il mio culo mi brucia come fuoco! Che può mai significare? Forse ne uscirà fuori uno stronzo? Che può mai significare? Sì, Sì, stronzo, io ti conosco ti vedo e ti gusto!”
La citazione appena fatta viene da una lettera che Wolfgang Amadeus Mozart scrisse alla cugina Maria Anna Thekla il 4 novembre del 1777.
Quando Mozart scrive, ha 21 anni e ha già composto 280 opere musicali; nello stesso anno – inoltre- scrive un celebre quartetto per flauto, una messa e due sonate per pianoforte.
Da un lato abbiamo -quindi- Mozart compositore; Mozart sublime e immortale, il Freddie Mercury della musica classica e dall’altro il Mozart infantile che fa continuo riferimento a parti anatomiche del corpo. Un bambino/adulto bloccato ancora nella fase anale dello sviluppo sessuale.
Sempre alla cugina, scrive il 28 febbraio del 1778:
“Cacca, cacca, O cacca! O dolce parola! Cacca! Pappa! (…) Che gusto, pappa e lecca! Pappa cacca e lecca cacca..”.
Con la cugina è certo che Mozart si sia abbandonato a giochi erotici durante l’infanzia, il che rende anche più comprensibile la “licenza poetica” che il giovane usa prendere verso di lei, ma continuando nella lettura delle lettere, la stessa libertà Mozart la prende anche con sua madre:
“Signora mamma -scrive il 31 gennaio 1778- io sto qua con della gente che di cacca ha pieno il ventre (…) Quanto al concerto lo butto giù a Parigi alla prima cacata”.
Linguaggio e tematiche anale-orale si ritrovano anche in alcune opere di Mozart. Il riferimento è ai Canoni una composizione a sfondo scherzoso. Alcune fanno parte di un vero repertorio che rimanda ai Carmina Burana del periodo tardo- medievale. Le parole sono così impresentabili che i suoi editori hanno di solito tenuto la musica e sostituito i testi.
Altro esempio, in merito, è il Leck mir den Arsch fein recht schon sauber, del 1882 (K233), che tradotto alla lettera vuol dire “Leccami ben bene il culo, lustralo a puntino”. Mozart lo scrive quando ha 26 anni ma tale comportamento verbale è presente in realtà da sempre, nella vita di Mozart, il che evidenzia come si tratti di un elemento che occupa una posizione strutturale nella personalità del giovane.
Circa l’infanzia di Mozart sappiamo che a 4 anni, istigato dal padre, comincia a suonare il violino e scrive note musicali; non frequenta una scuola e non si relaziona con altri bambini tranne che la sorella che ha 4 anni più di lui. Mozart è sempre a stretto contatto con il padre che proietta sui figli (ma ben presto solo su Wolfgang) i suoi desideri per il successo mai raggiunto.
Wolfgang presenta fin da subito una straordinaria memoria musicale così come una creatività strabiliante (come la sua capacità di suonare precocemente il pianoforte).
Abilissimo soprattutto con i bassi (la mano sinistra) il che rimanda a una dominanza forte dell’emisfero cerebrale destro quello deputato alla creatività in generale e a quella musicale, in particolare.
Tale abilità musicale lo ripagherà in qualche modo, per quella infanzia mai avuta.
Il linguaggio ritmico (c’è del flow, nelle sue lettere: del rap) esprime un bisogno di relazione infantile (stadio orale e anale). Wolfgang entra -in realtà- nello stadio fallico (avendo generato 6 bambini), ma avrà sempre valenze infantili presenti.
Dalla sua personalità emerge anche una forte tendenza alla dipendenza (fase di attaccamento tipica della prima infanzia) prima con il padre poi con Costanza, la moglie.
Si potrebbe ipotizzare la diagnosi di depressione bipolare andando ad analizzare sia la personalità del nostro Wolfgang che le sue opere.
Mozart ha prodotto un gran quantitativo di opere (il che farebbe ipotizzare la mania), ma soffermandoci sulla questione temporale della produzione stessa, troviamo una certa continuità (non vi sono vuoti prolungati).
Mozart compone anche quando (come egli stesso afferma in alcune lettere) la condizione esistenziale non è delle migliori; momento in cui la malinconia è molto forte.
Negli ultimi quattro mesi di vita compone una Cantata per pianoforte (K619); il flauto magico; La clemenza di Tito; Un concerto per clarinetto (K622); una cantata massonica per coro completo (K623); il Requiem.
Non possiamo parlare, quindi, di depressione nel senso clinico del termine (il che non esclude che Mozart abbia avuto momenti di forte malinconia).
Mozart è in sostanza un grande bambino immerso in un piccolo mondo fatto da adulti.
Negli anni della sua esistenza, avvennero grandi atti sociali come la Rivoluzione Francese ma Wolfgang non aveva la minima sensibilità sociale proprio come un piccolo bambino tutto centrato su di sé; un bambino con una potenzialità creativa imponente.. così tanto imponente da diventare distruttiva più che costruttiva.
Wolfgang muore a 35 anni, giovanissimo.
Le sue incredibili opere vibranti e pulite giungono all’orecchio praticamente perfette.
La musica è chiara e leggibile; il suo animo da grande bambino, no.
Il termine Abulia è di origine greca e indica la mancanza di volontà (a privativo; boulé, volontà). Abulia in psicologia e psicopatologia si riferisce o ad un disturbo dell’attività intenzionale o ad un disturbo della motivazione.
Nel primo caso la persona è incapace di decidere, anche quando bisogna prendere decisioni su cose e situazioni di scarso rilievo;
Nel secondo caso la persona non è in grado di iniziare e di proseguire un azione, anche quando c’è alla base il desiderio e l’intenzione di farlo.
L’abulia, nel suo senso più “puro”(mancanza totale di volontà), è abbastanza rara e può trovarsi in alcune forme di schizofrenia (catatonia). Più frequentemente si può ritrovare nelle persone, una forma di abulia più lieve che si può indicare con il termine di ipobulia. L’abulia che determina anche la capacità di decisione e di realizzazione si chiama anche aprassia.
Probabilmente le cause dell’abulia (specialmente nei ragazzi), sono da rintracciare in relazioni psico-affettive frustranti (in famiglia ad esempio) o in relazioni psico-educative inadeguate, anch’esse frustranti, poco interessanti e non attivanti.
L’abulia si può trovare anche nella depressione e può essere accompagnata dall’ansia.
Bleuler attribuì i sintomi abulici all’ambivalenza che caratterizza i conflitti interni e le inibizioni in determinate forme ossessive; Freud riscontro l’abulia nei casi di isteria; P. Janet l’ha definita invece “un’alterazione dei fenomeni attraverso i quali si manifesta la volontà”.
L’autolesionismo è un problema abbastanza diffuso, in particolare tra i giovani. Ha un peso specifico non indifferente nelle vite delle persone che ne soffrono e per le loro famiglie. Potremmo definire l’atto autolesionistico come un atto e un’espressione fisica di un dolore psichico profondo, per lo più celato e difficilmente condivisibile. Buon Ascolto!
Autolesionismo, cutting e self harm – Podcast – In viaggio con la Psicologia
“Nessuno può farti più male di quello che fai tu a te stesso.”
Mahatma Gandhi
Autolesionismo, cutting e self harm – Podcast – Spotify