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“Carichi residuali”

“A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che «ogni straniero è nemico». Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager. Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo.”

Primo Levi

Il Ministro dell’Interno Italiano del nuovissimo governo ha utilizzato un termine poco umano “carico residuale“, per definire gli Esseri Umani presenti sulle navi delle Ong che in questi giorni attendevano di sbarcare nei porti italiani per essere messi definitivamente in salvo, in un luogo sicuro e accogliente. Ha poi fatto riferimento ad uno “sbarco selettivo” per definire la sua “strategia”.

Le parole hanno un peso specifico e definiscono spesso l’interlocutore e le sue intenzioni. In questo caso si è cercato di deumanizzare il migrante, rendere l’umano oggetto, per slegarlo dall’aspetto emotivo che lo lega a quella vicenda tragica.

“..deumanizzare serve a pensare l’altro come un essere umano incompleto, un animale, un oggetto. Questo “pensare” l’altro in questo modo, permette di giustificare quelle azioni inaccettabili, che in un contesto normale verrebbero sicuramente condannate.”

La morte dell’umano – ilpensierononlineare (clicca sul link per approfondire)

Ma cos’è che può determinare questo tipo di ragionamenti e comportamenti?

Il razzismo e con esso il pregiudizio, l’intolleranza..

La Psicologia Sociale negli ultimi decenni si è trovata dinnanzi ad un fenomeno particolare: l’evoluzione del concetto di razzismo.

Gli psicologi sociali hanno infatti individuato nuove forme di razzismo “moderne”. Il comune denominatore tra queste nuove forme di razzismo è che sono meno evidenti, indirette e più sottili, insomma, difficili da riconoscere.

Nel particolare sono state individuate 6 forme di razzismo moderno:

1 – Il razzismo simbolico ad esempio indica tutte quelle forme di razzismo esperite da persone che provano ad occultare le idee razziste agli occhi degli altri, giustificandolo con l’intercalare: “non sono razzista ma..”. In genere queste persone rivendicano e lamentano qualcosa nei confronti dello straniero o di una minoranza;

2 – Il razzismo ambivalente amplificato descrive quella forma di razzismo che vede la coesistenza, nella stessa persona, di un sentimento prima negativo e poi positivo e viceversa, in base al contesto di riferimento. Ad esempio, mostrarsi estremamente aggressivo e razzista durante una competizione sportiva contro la tifoseria avversaria di un’altra città e poi frequentare, con diletto e piacere per le proprie vacanze, proprio i luoghi da dove provenivano i tifosi avversari;

3 – Il razzismo avversivo consiste essenzialmente nel nascondere il razzismo a se stessi. In questo caso è come se il razzismo si palesasse in forma inconscia. Ossia la persona ostenterà i propri sentimenti negativi solo se possono essere attribuiti ad un altro fattore. Ad esempio, in un contesto lavorativo, per giustificare una mancata assunzione di una persona (straniera), il datore di lavoro, giustifica il suo retro pensiero razzista con il fatto che non sia abbastanza competente per il lavoro;

4 – Il razzismo regressivo si palesa quando ci sono particolari condizioni di stress, difficoltà, crisi.. sia a livello personale che sociale. In questo caso queste condizioni portano le persone ad avere atteggiamenti fortemente discriminatori. Ad esempio, il periodo storico attuale (fine pandemia, crisi economica, crisi energetica, guerra) è terreno fertile per l’aumento di un’aggressività latente e la nascita e l’amplificazione di idee discriminatorie tra la popolazione;

5 – Il razzismo sottile invece è una esagerazione di quelle che sono le differenze tra il proprio gruppo di appartenenza e la minoranza etnica discriminata. Questa forma di razzismo si perpetua anche con l’esasperata difesa dei valori tradizionali del proprio Paese a discapito delle minoranze e degli stranieri e anche con l’attribuzione delle emozioni positive solo al proprio gruppo di appartenenza;

6 – Il razzismo mascherato infine è riscontrato in quelle persone che, nei sondaggi, ad esempio, negano l’esistenza del razzismo nel proprio Paese.

Purtroppo pare che le basi sociali e psicologiche del razzismo siano profondamente radicate nel modo di pensare della maggior parte dei popoli. Anche perché il razzismo è un fenomeno molto più antico del razzismo moderno di cui vi ho parlato.

I meccanismi di categorizzazione sociale, gli stereotipi, i pregiudizi sono funzionamenti “antichi”, appresi culturalmente che sono serviti nelle diverse fasi della storia dell’uomo, per sopravvivere ad un mondo ritenuto ostile e potenzialmente pericoloso.

La “solidarietà endogruppo” e “l’odio esogruppo” sono comportamenti tipici degli “animali sociali”, esistono infatti anche fenomeni simili in natura. Sono quindi comportamenti “primitivi” e legati a quell’istinto di conservazione che ci portiamo dalla nostra preistoria e caratterizza gruppi “conservatori”, poco abituati alla diversità e generalmente non troppo aperti allo scambio.

Infatti i popoli e i luoghi crocevia di scambi commerciali e culturali intensi e millenari sono in genere quelli più tolleranti alla diversità.

Non è facile “combattere” il razzismo e quei processi mentali ad esso connessi, ma secondo la ricerca scientifica applicata al sociale, una via d’uscita c’è.

Attraverso l’educazione alla conoscenza delle diversità e alla riflessione consapevole è possibile incoraggiare le persone a ri-pensare e ri-categorizzare il proprio gruppo d’appartenenza come parte di un sistema più ampio. Ripensarsi non più come cittadini del proprio Paese, ma cittadini del Mondo. Esseri umani unici nelle loro diversità e simili nelle loro differenze.

La conoscenza è quindi l’unico antidoto ai razzismi.

Terroni Uniti – Gente do Sud – (Canzone contro il razzismo)

“Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi
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La Sindrome di Stoccolma

Siamo a Stoccolma è il 23 agosto del 1973, ore 10:15. Una banca della Sveriges Kreditbanken viene assaltata da un criminale evaso di nome Jan-Erik Olsson (32 anni).

Olsson prende in ostaggio quattro persone e chiede che gli venga consegnato il contenuto delle casseforti della banca. Ne frattempo, sul posto, arrivano le forze dell’ordine. Cominciano le trattative e una lunga attesa snervante. Olsson, si barrica bene nella banca e forte dei suoi ostaggi, riesce a negoziare per il rilascio di un suo vecchio compagno di cella che lo raggiunge nell’edificio della banca.

Passano tante ore (in tutto saranno sei i giorni del sequestro) e cominciano a filtrare informazioni strane e sorprendenti, dall’interno della banca. Alcuni ostaggi pare abbiano dichiarato di avere piena fiducia nei loro sequestratori, non sembrano avere paura di loro e anzi credono che possano addirittura “proteggerli” dalla polizia. Addirittura durante la successiva liberazione gli ostaggi si frappongono tra i due criminali e le forze dell’ordine venute per salvarli.

La cosa ancora più sorprendente avviene durante il processo dei due rapinatori: i loro ex prigionieri si rifiutano di testimoniare contro i loro rapitori e regolarmente vanno a trovarli in carcere.

Film – Rapina a Stoccolma

Cosa è successo durante i sei giorni del sequestro?

La definizione di “Sindrome di Stoccolma” è stata coniata proprio in occasione di questa rapina, dallo psicologo e criminologo Nils Bejerot, che collaborò con la polizia durante le trattative. Il termine fu usato per la prima volta in una trasmissione televisiva, ma divenne veramente “famoso” dopo la vicenda di Patricia Hearst nel 1974.

Il 4 febbraio del 1974 il sedicente Esercito di Liberazione simbionese rapì Patricia Hearst . Due mesi dopo il sequestro, Patricia, nipote del magnate dell’editoria William Randolph Hearst, fu fotografata con un mitra in mano mentre assaltava ua banca insieme con i suoi rapitori. Successivamente, in un video diffuso dalle reti televisive, dichiarò di essere entrata nell’Esercito di liberazione e rinnegò le sue origini capitalistiche. Aveva assunto lo pseudonimo di Tania.

Quando, però, dopo essere stata arrestata per la rapina in banca, durante il processo nel 1975, sostenne di aver subito violenze fisiche, psicologiche e il “lavaggio del cervello”. I giudici non si convinsero e la condannarono a sette anni di carcere. In seguito Patricia fu graziata da Jimmy Carter nel 1979.

Patricia Hearst – immagini web – rapina in banca con rapitori

In questa particolare condizione psicologica l’ostaggio sposa la causa del suo rapitore fino ad arrivare ad identificarsi con lui. Si schiera dalla sua parte e contro tutti quelli che vogliono “liberarlo” da quella condizione (polizia compresa). Tra il rapitore (carnefice) e l’ostaggio si instaura un legame affettivo apparentemente perverso che probabilmente nasce dall’esigenza della mente di recuperare un equilibrio dopo lo shock della cattura.

Alcuni psicologi ne estendono il significato e includono in questa Sindrome tutti i tipi di attaccamento di una vittima con il proprio carnefice, come nei rapporti di dipendenza caratteristici dei casi di violenza domestica o come nelle relazioni che si instaurano nelle sette religiose o nei campi di prigionia.

Come è possibile che una persona minacciata di morte, detenuta contro la propria volontà prenda le parti della persona che minaccia di ucciderla e che l’ha privata della propria libertà?

La fase della cattura rappresenta un trauma emotivo che lascia tracce profonde; è uno stress psicologico estremo che può indurre una sorta di paralisi. L’individuo è pietrificato e incapace di reagire. La sua mente è così sovraccaricata da un flusso di informazioni estremo, che è impossibile per la persona prendere qualsiasi decisione.

La vittima, in un primo momento è incapace sia di capire ciò che sta realmente succedendo, sia di seguire le più naturali regole per la propria sicurezza (come ad esempio restare inermi e immobili senza mettersi al riparo, nonostante ci sia una sparatoria in corso).

In questo momento sono saltati tutti i punti di riferimento psicologici della persona (vittima). In particolare nelle vittime, nei primi momenti vi è una sostanziale perdita del senso di sicurezza e dell’illusione di “immortalità”. La mente della vittima deve riadattarsi ad una situazione potenzialmente “mortale”. L’idea di poter morire da un momento all’altro si palesa come possibilità evidente. Si rompono tutti quegli schemi e quelle routine che rendono la nostra quotidianità prevedibile e quindi potenzialmente sicura. Nelle situazioni traumatiche come quelle descritte in precedenza, la sicurezza è violata, l’autonomia sulle proprie azioni non c’è più, il cervello non può più pianificare e il caos si sostituisce alle certezze.

In queste condizioni di squilibrio e alla ricerca di un nuovo equilibrio la vittima cerca paradossalmente di costruire una relazione “umana” con il proprio rapitore. Questa relazione sarà fondata sulla dipendenza totale, completamente asimmetrica e che sarà in grado di plasmare e modificare il nuovo sistema di valori della vittima.

Arresto di Olsson

La seconda fase del rapimento (il periodo della permanenza col rapitore) sarà invece caratterizzata da un dipendenza estrema. La vittima infatti dipenderà dal suo carnefice per qualunque cosa: mangiare, dormire, andare in bagno, lavarsi. Questa dipendenza estrema comporta una sorta di regressione ad uno stato precoce dell’infanzia (pre-edipico). Una fase dello sviluppo in cui il bambino è ancora completamente dipendente dalla madre, non è ancora distinto da lei. Alcuni psicologi hanno ipotizzato che le vittime trovandosi immerse in uno schema affettivo e relazionale simile a quello della madre con il bambino, adottano i comportamenti che potrebbe avere un bambino nei confronti dei genitori. E per i genitori proveranno: ammirazione, amore ed identificazione.

Inoltre l’ostaggio sarà in seguito considerato, dal rapitore, alla stregua di una merce di scambio. Perché, attraverso l’ostaggio il rapitore può ottenere dei favori o la propria libertà. In questa condizione l’ostaggio, presa coscienza di questa cosa, si sentirà oggetto. Questo porterà al processo di disumanizzazione della vittima. La disumanizzazione è anch’essa parte della genesi della Sindrome di Stoccolma.

Se passa diverso tempo dal momento del rapimento, l’aggressore sarà costretto a cercare un interlocutore e quindi inevitabilmente parlerà e si rivolgerà alla vittima. Questa sarà così restituita, almeno in apparenza, della sua umanità. Il rapitore sarà così percepito come un modello al quale ci si può identificare. L’identificazione risponde al bisogno di un modello in una situazione di vulnerabilità. Quindi, in una situazione di piena regressione l’ostaggio può identificarsi con l’aggressore e questo lo spinge a condividerne posizioni ideologiche e le rivendicazioni.

Infine, l’avvicinamento tra ostaggio e rapitore è dovuta anche al fatto che attraversano insieme una situazione eccezionale che valutano da un punto di vista in qualche modo simile. Sono interessati entrambi alla libertà.

“Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi

Più potere uguale meno empatia.

Vi è mai capitato di avere a che fare con un datore di lavoro, un capo ufficio, un superiore, un responsabile antipatico, poco incline al dialogo, arrogante, diffidente, ai limiti del cattivo? In effetti è una esperienza molto comune. Credo che quasi tutti nella vita abbiamo avuto la possibilità di avere a che fare con un “capo cattivo”( oppure un insegnante, maestro, professore).

Il fatto è che spesso chi si trova in una posizione di “potere” tende a mostrare una minore sensibilità nei confronti degli altri.

Chi riveste un ruolo di responsabilità, di potere e di forza (anche se momentaneo) è più portato a disumanizzare gli altri; come se spogliasse della loro dignità e dei loro diritti le persone che deve gestire. Secondo due ricercatori dei Paesi bassi (Joris Lammers e Diederik Stapel) questo atteggiamento nei confronti degli altri aiuterebbe il “capo” a gestire meglio il proprio potere e a non soccombere alle emozioni quando si vedono costretti a prendere decisioni complesse che riguardano le persone.

immagine google

Anche solo sollecitare il senso di potere aumenta la risposta di deumanizzazione.

“Considerare l’altro un oggetto rinvia invece all’universo della mercificazione, all’uso strumentale del corpo, all’azzeramento dell’anima.”

C. Volpato – Deumanizzazione

La deumanizzazione, in tal senso, può essere un meccanismo che può favorire comportamenti inumani che possono facilmente sfociare, ad esempio, in abusi di potere. Ma, la cosa assurda e paradossale, è che la deumanizzazione può in alcune occasioni o situazioni complesse, aiutare a prendere decisioni che possono comportare sofferenze altrui (decisioni che non prenderebbe nessuno che abbia un minimo di empatia).

Fortunatamente, anche se poche, esistono delle eccezioni, cioè “capi” empatici e molto inclini al dialogo e all’ascolto dei dipendenti.

“Finisce bene quel che comincia male”.

dott. Gennaro Rinaldi

La “falsa” Prigione di Stanford – la ricerca di Zimbardo.

Secondo voi è possibile che persone inizialmente del tutto “normali” possano a causa dell’influenza della situazione e del ruolo sociale che ricoprono cambiare e diventare qualcosa di assolutamente diverso? Quale situazione può indurre una persona ad arrivare a modificare persino tratti della propria personalità e del comportamento?

C’è una ricerca del 1975 portata avanti da un noto Psicologo e professore di psicologia sociale della Stanford University della California, Philip Zimbardo che ci offre la possibilità di rispondere a queste domande e dimostra in maniera piuttosto forte quanto le situazioni in cui gli individui si trovano e i ruoli che assumono possono condizionare cambiamenti inaspettati negli individui.

(lZimbardo affermò, negli anni duemila a seguito di un tentativo di replicazione del suo esperimento, che secondo i criteri e gli standard attuali, questo esperimento verrebbe considerato non etico e sconsigliò e non approvò eventuali repliche).

Sala delle guardie – Immagini dell’esperimento – Philip Zimbardo

La falsa prigione di Stanford

Durante un’estate di metà anni settanta il professor Zimbardo organizza un seminario sulla Psicologia dell’imprigionamento, coinvolgendo tra i relatori un ex-detenuto Carlo Prescott da poco rilasciato dal penitenziario di San Quintino. Zimbardo si fece aiutare anche da un ex studente e collaboratore Jaffe. Visto il grande interesse suscitato negli studenti e visto anche il grande interesse dello stesso Zimbardo per l’argomento, i tre continuarono la loro collaborazione pensando di mettere a punto un esperimento che potesse ampliare la ricerca sull’argomento.

Prescott divenne consulente; Jaffe divenne collaboratore e poi praticamente nell’esperimento rivestì il ruolo di guardia e Zimbardo (ricercatore capo) avrebbe poi rivestito il ruolo di “direttore” della prigione.

La ricerca avrebbe avuto un grosso interesse per la Psicologia sociale, visto anche il momento storico in cui avveniva. Avrebbe toccato temi quali l’obbedienza, il conformismo e le pressioni normative. Avrebbe inoltre offrontatoil tema del rapporto tra coloro che detengono il potere di reclusione e le persone che devono assoggettarsi a questo potere.

Alcune delle domande che si poneva la ricerca erano rivolte al processo attraverso il quale i detenuti perdono la libertà, i diritti e la privacy e invece le guardie acquisiscono potere, controllo e status sociale. Ma la domanda forse più importante riguardava quelle che potevano essere le cause determinanti del comportamento violento e di sopraffazione (cause disposizionali o situazionali?). I detenuti sono per natura psicopatici e violenti e le guardie sadiche e cattive? Oppure sono l’ambiente e le condizioni di internamento che producono conflitto e violenza?

L’esperimento

Zimbardo decise di pubblicare un annuncio per reclutare degli studenti universitari per l’esperimento. Risposero all’avviso 75 studenti, ne furono poi scelti 24 per partecipare all’esperimento, la cui durata sarebbe stata di due settimane. Per i partecipanti era prevista una ricompensa di 15 dollari al giorno. La selezione dei partecipanti all’esperimento fu molto accurata. Gli studenti fecero colloqui, compilarono test e questionari e la scelta finale fu orientata verso quelli più stabili fisicamente, mentalmente e il meno possibile coinvolti in comportamenti definibili come antisociali. Alla fine i prescelti erano tutti ragazzi facenti parte della classe socioeconomica media, che non si conoscevano e con caratteristiche comportamentali e di personalità nella norma.

I 24 soggetti furono divisi in due gruppi di 12, guardie e detenuti. Dei 12 detenuti 10 parteciparono all’esperimento e due erano di “riserva” (dovevano sostituire nel caso vi fossero defezioni). Delle 12 guardie alla fine parteciparono all’esperimento 11.

La “Prigione” fu ricavata dallo scantinato dell’edificio di Psicologia dell’Università di Stanford a Palo Alto. Fu divisa in due parti: un ala con tre celle e una cella di isolamento e l’alloggio delle guardie (dove c’erano monitor collegati alle telecamere che videoregistravano 24 ore su 24).

Quando furono assegnati i ruoli (guardie e prigionieri), vennero date pure una serie di indicazioni con i rispettivi compiti; diritti, doveri e con l’esplicita proibizione di compiere atti offensivi, aggressivi e violenti. Furono inoltre fatte leggere e firmare una serie di consensi e un contratto che confermava la loro consapevolezza dell’esperimento che si apprestavano a fare. Le guardie furono istruite attraverso degli incontri preliminari dallo stesso Zimbardo e Jaffe spiegò gli aspetti amministrativi, burocratici (turni di 8 ore, rapporti giornalieri..). Tutto doveva essere come in una vera prigione.

Una volta assegnati i ruoli vennero distribuite le rispettive divise e uniformi (questo aveva lo scopo di uniformare i gruppi, aumentare l’anonimato, e diminuire il senso di individualità). I detenuti non venivano più identificati con il proprio nome, ma con un numero identificativo scritto sul camice. I prigionieri inoltre non avevano biancheria intima, portavano alle caviglie una catena e sandali di gomma e indossavano una calza in testa per simulare il taglio corto dei capelli.

Guardie e Prigionieri in “uniforme” – immagini dell’esperimento – Philip Zimbardo

La fase dell’assegnazione dei ruoli era cruciale per l’efficacia dell’esperimento.

I prigionieri (giusto per rendere le cose più veritiere possibile) furono veramente “arrestati”. Furono infatti prelevati dai loro alloggi il primo giorno dell’esperimento, con veri agenti di polizia, che li portarono anche in centrale, gli lessero i diritti, presero le impronte digitali e seguirono tutte le procedure consuete per i normali arresti.

Dopo l’arresto i prigionieri vennero condotti nella “falsa” prigione di Stanford, dove furono spogliati, spruzzati con uno spray e aspettarono nudi fin quando non gli fu consegnata l’uniforme e dopo aver scattato una foto per il “loro fascicolo”, furono condotti in cella. Ai prigionieri furono lette le regole del carcere e concesse visite dall’esterno. Fu data persino la possibilità di poter parlare con un cappellano e con un avvocato qualora l’avessero richiesto.

Il quarto giorno ci fu una rivolta. Una delle celle fu rinominata dalle stesse guardie, “cella dei privilegiati”, perché accoglieva tre persone che non avevano avuto un ruolo attivo nella ribellione. Questi tre prigionieri avevano quindi diritto a numerosi privilegi rispetto agli altri.

La rivolta – immagini dell’esperimento – Philip Zimbardo

Dopo sei giorni l’esperimento venne sospeso. Alcuni partecipanti si resero conto che le condizioni che comportavano i due ruoli stava avendo delle conseguenze serie. I ragazzi non si percepivano più all’interno di una simulazione e stavano cominciando a ad allontanarsi dai valori umani e morali della società, che anche loro condividevano ampiamente prima di entrare nella prigione.

Fortunatamente non ci furono conseguenze particolarmente gravi e seguì subito dopo l’interruzione dell’esperimento una inter giornata di debriefing e di colloqui individuali.

Cosa venne notato nell’esperimento e quali furono le osservazioni principali?

Ci fu una escalation dell’aggressività delle guardie: il comportamento delle guardie già dal secondo giorno diventava sempre più ostile, aggressivo e deumanizzante, tanto da apparire sadico.

L’umore dei prigionieri aveva sin da subito una tendenza negativa: ci fu infatti un evidente accrescimento di umore depresso, sentimenti d’angoscia e tendenza a fare del male (la metà dei prigionieri nel corso dei giorni fu rilasciata per la grande difficoltà e per lo sviluppo di malattie psicosomatiche).

Guardie e Prigionieri – immagini dell’esperimento – Philip Zimbardo

L’unica caratteristica che aveva una correlazione positiva con la detenzione era l’autoritarismo. I prigionieri che avevano, come caratteristica di personalità l’autoritarismo erano risultati più “resistenti” alle condizioni di prigionia.

Il 90% dei discorsi tra prigionieri era legato alle condizioni della prigionia (cibo, privilegi, punizioni..)

Alcuni prigionieri non erano più in grado di percepirsi come soggetti di un esperimento e quindi “dimenticavano” che potevano decidere di abbandonare in qualsiasi momento.

Infine, per concludere, possiamo desumere che gli elementi patologici emersi nei due gruppi (l’abuso di potere, l’aggressività e la deumanizzazione delle guardie e l’impotenza appresa dei prigionieri) mostrò in maniera piuttosto lampante che le persone tranquille, nella norma e potenzialmente sane, se messe in un contesto diverso, degradante e rivestiti di un ruolo particolare, in pochi giochi giorni divenivano anormali, alienati, psicopatici e sadici.

*L’esperimento di Zimbardo fu fonte di ispirazione (anche contro la volontà dello stesso autore) per iniziative televisive (Grande fratello, Survivor) e cinematografiche con il film del 2001 “The Experiment” del 2001 diretto da O. Hirschbiegel.

* Per chi fosse interessato sul web e su youtube sono presenti diversi video e interviste a Philip Zimbardo.

“Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi