In questa tappa del nostro viaggio viaggeremo attraverso le numerose e oramai infinite strade della rete, alla scoperta del mondo virtuale e dei pericoli che nascondono le sue intricate maglie in cui spesso si resta imbrigliati.
Parleremo della faccia virtuale della dipendenza, quella da Internet.
Il Disturbo da dipendenza da Internet o IAD è un termine ampio (può infatti considerarsi come un contenitore in cui possiamo inserire diverse sfaccettature psicopatologiche) che descrive un disturbo del controllo degli impulsi caratterizzato dal trascorrere troppo tempo su Internet, sulle app di messaggistica, sui siti di incontri, scorrendo i social media o le notizie, giocando online, guardando video di YouTube, ecc.
Nel 2013 la IAD è stata inserita nella Sessione III del DSM-5 (la proposta di classificazione dell'”Internet Gaming Disorder”) tra i disturbi di Dipendenza Patologica; Ciò vuol dire che si tratta di una proposta di nosografia diagnostica che necessiterà quindi di ulteriori studi sperimentali prima della sua validazione definitiva.
Come le altre dipendenze la dipendenza da Internet può interferire con la vita sociale; con la vita familiare e coniugale; con il lavoro generando anche problemi economici. Essere off-line per una persona dipendente porta malessere e disagio (astinenza).
Il Ser.T (Servizio per le Tossicodipendenze) è un servizio pubblico del Sistema Sanitario Nazionale dedicato alla prevenzione, riabilitazione e cura delle persone che hanno problemi di dipendenza da sostanze psicoattive (droghe o alcool, ad esempio).
Attualmente si parla di Ser.D andando, con ciò, ad indicare i Servizi per le Dipendenze. I Ser.D ricomprendono funzioni e organizzazione dei vecchi Ser.T ma -ed è qui la grande novità- estendono il loro intervento anche alle dipendenze comportamentali e alle sostanze da abuso legali (pensiamo a tal proposito alle dipendenze da videogiochi, dipendenza dal pc, gioco d’azzardo oppure alla dipendenza da antidepressivi o antinfiammatori).
I Ser.D dipendono dalla Regione e sono attivi all’interno dell’Asl (in ogni Distretto Sanitario). All’interno della struttura operano diversi operatori, tutti specializzati nel trattamento e nella presa in carico della persona con una dipendenza (medici, infermieri professionali, educatori professionali, sociologi, assistenti sociali e psicologi).
Il Ser.D offre servizi gratuiti e garantisce, in accordo con la legge e la deontologia, l’anonimato (deve essere sempre garantito l’anonimato e il rispetto per la privacy -segreto professionale- con la possibilità di applicare l’anonimato sui dati anagrafici così come disposto dalla legge 309/90 art.120). I servizi del Ser.D hanno l’obiettivo di fornire il sostegno e l’orientamento ai tossicodipendenti e alle proprie famiglie dal punto di vista medico-infermieristico anche grazie alle campagne di informazione e di prevenzione.
Che cosa fa il Ser.D?
Le strutture accertano lo stato di salute psicofisica del soggetto arrivando alla definizione di programmi terapeutici individuali che possono essere effettuati o nel Ser.D stesso o in altre strutture convenzionate come i centri di recupero. E’ fondamentale il monitoraggio continuo del soggetto: per questo vengono effettuati molto spesso esami del sangue, delle urine e dei capelli.
I Ser.D operano nel rispetto dei criteri fissati dai livelli essenziali di assistenza (LEA) assicurando la disponibilità dei principali trattamenti relativi alla cura e riabilitazione dall’uso di sostanze, garantendo, compatibilmente con le risorse economiche a loro disposizione, la libertà di scelta del cittadino e della sua famiglia ad attuare i programmi terapeutico-riabilitativi presso qualunque struttura autorizzata in tutto il territorio nazionale. I Ser.D, in accordo con il paziente e con il proprio nucleo familiare, anche mediante l’utilizzo di altri servizi specialistici, pubblici e privati accreditati o autorizzati, si occupano della prevenzione e della cura di tutte le patologie correlate alla dipendenza da sostanze.
Nel Ser.D quindi ci si occupa di:
garantire accoglienza, diagnosi e presa in carico del paziente.
predisporre, per ogni singolo utente, un programma terapeutico.
effettuare terapie farmacologiche specifiche, sostitutive, sintomatiche e antagonistiche, compreso il monitoraggio clinico e laboratoristico, verificando l’opportunità di tali interventi e mantenendo contemporaneamente l’obiettivo del superamento dello stato di dipendenza anche dai farmaci sostitutivi.
I SerT (ora Ser.D) sono costituiti secondo i criteri della Legge 26 giugno 1990, n. 162, e dei decreti del Ministro della Sanita’ del 12 luglio 1990, n. 186, 30 novembre 1990, n. 444, 19 dicembre 1990, n. 445, 23 dicembre 1990, n. 448, e del decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 9 ottobre 1990.
“Finisce bene quel che comincia male”
Dott.ssa Giusy Di Maio, Psicologa Clinica, matr. 9767
Con il termine gambling si indica il gioco d’azzardo patologico (GAP) ovvero quel disturbo del comportamento caratterizzato dalla continua perdita del controllo in situazioni di gioco.
Si tratta di un comportamento persistente, ricorrente e non adattivo che giunge ad inficiare e a compromettere qualsiasi sfera di vita di colui che ne è coinvolto (familiare, lavorativa e personale).
Il disturbo colpisce indistintamente uomini, donne, persone benestanti o meno e sfortunatamente l’età media di coloro che si avvicinano alla dipendenza da gioco patologica, si sta pericolosamente abbassando.
Il gioco si può esprimere su due poli, sano e patologico, sui quali si sviluppano i diversi gradi di coinvolgimento; all’interno di tale continuum andiamo a trovare i diversi gradi di compromissione dello stato di salute mentale.
I principali stadi che caratterizzano il gioco d’azzardo sono:
Gioco sociale, nel quale il giocatore non raggiunge livelli di gioco preoccupante e mantiene inalterata la sua sanità mentale.
Gioco problematico, quando il giocatore procura a se e agli altri problemi di diverso tipo a causa della frequenza di gioco e delle somme di denaro impegnate, senza ancora raggiungere i criteri diagnostici patologici.
Gioco patologico, quando il giocatore soddisfa i criteri diagnostici di Gap.
Il DSM-5 attribuisce al GAP lo status di dipendenza, in quanto il giocatore patologico sviluppa: aumento della frequenza delle puntate e della quantità di denaro speso per ottenere l’eccitazione desiderata; la presenza di sintomi tipici di astinenza quali irritabilità, ansia, insonnia, sudorazione, tremori e un intenso desiderio come equivalente al “craving” sperimentato dai tossicodipendenti.
La dipendenza da gioco d’azzardo è una malattia sociale a tutti gli effetti; malattia sociale a cui la pandemia e una (non) posizione dello stato, in merito, ha solo fornito terreno fertile per il crescente aumento della dipendenza stessa.
Il gioco d’azzardo rientra nella categoria dei giochi di alea: esso si sostanzia nello scommettere denaro o altri beni di valore su un evento ad esito incerto, in cui il caso, in grado variabile determina tale esito (Leone, 2009; Filippi e Breveglieri, 2010).
Ne deriva che le capacità, ad esempio, del giocatore siano ininfluenti poiché alla fine si tratta di vincere sul caso. Molti dei racconti offerti da giocatori, contengono una descrizione del momento del gioco come di un “semplice passatempo, non pericoloso su cui si ha il controllo e su cui si può smettere quando si vuole”.
Smetto quando voglio ma se non mi faccio aiutare non smetterò mai del tutto.
La mente del dipendente è qualcosa che merita la nostra profonda attenzione perché è molto facile attuare una sostituzione sintomatica e arrivare a sviluppare o un altro sintomo (magari un sintomo psicosomatico) oppure si arriva a trasferire la propria dipendenza in altro campo (ad esempio dipendenza affettiva).
La comorbilità con questo disturbo (GAP) è con i Disturbi dell’umore (depressione); disturbi d’ansia; disturbo borderline o disturbo antisociale di personalità.
Inoltre così come per la tricotillomania, anche la dipendenza da gioco d’azzardo può essere considerata una variante del Disturbo ossessivo compulsivo sulla base della natura compulsiva dell’azione associata all’incapacità di smettere (la differenza tra i due disturbi risiede nel fatto che se nel DOC, la compulsione serve per ridurre una emozione negativa, nel GAP la compulsione produce emozioni positive che diventano di difficile rinuncia, per il soggetto).
L’esordio della dipendenza da gioco d’azzardo generalmente risale all’adolescenza o alla prima età adulta ma può manifestarsi anche durante la mezza età o in tarda età adulta.
Molte persone affette da Gioco d’Azzardo Patologico possono essere altamente competitive, energiche, irrequiete e facili ad annoiarsi. Inoltre sembrano essere eccessivamente preoccupate dell’approvazione altrui e sorprendentemente generose.
Non improvvisiamoci e chiediamo aiuto il prima possibile.
Per il trattamento si ricorre ad una psicoterapia e solo se necessario, in alcuni casi, a farmaci SSRI stabilizzatori del tono dell’umore.
Delay Discounting indica la tendenza (messa in atto da chi si trova in procinto di compiere una scelta) nel preferire una ricompensa piccola ma immediata. Tale ricompensa, seppur piccola, è preferita per evitare un’attesa (di cui non se ne conoscono i tempi).
Questa impulsività potrebbe dipendere, in buona parte, dal corredo genetico.
In uno studio dell’Università di Washington, a 602 gemelli è stato chiesto di scegliere fra una somma di denaro (piccola) da ricevere subito oppure una somma più consistente per la quale avrebbero dovuto aspettare.
E’ emerso che il delay discounting è più accentuato negli adolescenti e si attenua con il passare degli anni.
Al di là dell’età, però, ciò che gli scienziati hanno evidenziato è che preferire “l’uovo oggi” sarebbe anche una questione genetica, una sorta di scelta attuata da “geni impulsivi o dell’impulsività”, che potrebbero essere collegati ai recettori del cervello per la serotonina e per gli oppioidi kappa, gli stessi che regolano l’umore, la depressione e la dipendenza.
Siamo a Stoccolma è il 23 agosto del 1973, ore 10:15. Una banca della Sveriges Kreditbanken viene assaltata da un criminale evaso di nome Jan-Erik Olsson (32 anni).
Olsson prende in ostaggio quattro persone e chiede che gli venga consegnato il contenuto delle casseforti della banca. Ne frattempo, sul posto, arrivano le forze dell’ordine. Cominciano le trattative e una lunga attesa snervante. Olsson, si barrica bene nella banca e forte dei suoi ostaggi, riesce a negoziare per il rilascio di un suo vecchio compagno di cella che lo raggiunge nell’edificio della banca.
Passano tante ore (in tutto saranno sei i giorni del sequestro) e cominciano a filtrare informazioni strane e sorprendenti, dall’interno della banca. Alcuni ostaggi pare abbiano dichiarato di avere piena fiducia nei loro sequestratori, non sembrano avere paura di loro e anzi credono che possano addirittura “proteggerli” dalla polizia. Addirittura durante la successiva liberazione gli ostaggi si frappongono tra i due criminali e le forze dell’ordine venute per salvarli.
La cosa ancora più sorprendente avviene durante il processo dei due rapinatori: i loro ex prigionieri si rifiutano di testimoniare contro i loro rapitori e regolarmente vanno a trovarli in carcere.
Film – Rapina a Stoccolma
Cosa è successo durante i sei giorni del sequestro?
La definizione di “Sindrome di Stoccolma” è stata coniata proprio in occasione di questa rapina, dallo psicologo e criminologo Nils Bejerot, che collaborò con la polizia durante le trattative. Il termine fu usato per la prima volta in una trasmissione televisiva, ma divenne veramente “famoso” dopo la vicenda di Patricia Hearst nel 1974.
Il 4 febbraio del 1974 il sedicente Esercito di Liberazione simbionese rapì Patricia Hearst . Due mesi dopo il sequestro, Patricia, nipote del magnate dell’editoria William Randolph Hearst, fu fotografata con un mitra in mano mentre assaltava ua banca insieme con i suoi rapitori. Successivamente, in un video diffuso dalle reti televisive, dichiarò di essere entrata nell’Esercito di liberazione e rinnegò le sue origini capitalistiche. Aveva assunto lo pseudonimo di Tania.
Quando, però, dopo essere stata arrestata per la rapina in banca, durante il processo nel 1975, sostenne di aver subito violenze fisiche, psicologiche e il “lavaggio del cervello”. I giudici non si convinsero e la condannarono a sette anni di carcere. In seguito Patricia fu graziata da Jimmy Carter nel 1979.
Patricia Hearst – immagini web – rapina in banca con rapitori
In questa particolare condizione psicologica l’ostaggio sposa la causa del suo rapitore fino ad arrivare ad identificarsi con lui. Si schiera dalla sua parte e contro tutti quelli che vogliono “liberarlo” da quella condizione (polizia compresa). Tra il rapitore (carnefice) e l’ostaggio si instaura un legame affettivo apparentemente perverso che probabilmente nasce dall’esigenza della mente di recuperare un equilibrio dopo lo shock della cattura.
Alcuni psicologi ne estendono il significato e includono in questa Sindrome tutti i tipi di attaccamento di una vittima con il proprio carnefice, come nei rapporti di dipendenza caratteristici dei casi di violenza domestica o come nelle relazioni che si instaurano nelle sette religiose o nei campi di prigionia.
Come è possibile che una persona minacciata di morte, detenuta contro la propria volontà prenda le parti della persona che minaccia di ucciderla e che l’ha privata della propria libertà?
La fase della cattura rappresenta un trauma emotivo che lascia tracce profonde; è uno stress psicologico estremo che può indurre una sorta di paralisi. L’individuo è pietrificato e incapace di reagire. La sua mente è così sovraccaricata da un flusso di informazioni estremo, che è impossibile per la persona prendere qualsiasi decisione.
La vittima, in un primo momento è incapace sia di capire ciò che sta realmente succedendo, sia di seguire le più naturali regole per la propria sicurezza (come ad esempio restare inermi e immobili senza mettersi al riparo, nonostante ci sia una sparatoria in corso).
In questo momento sono saltati tutti i punti di riferimento psicologici della persona (vittima). In particolare nelle vittime, nei primi momenti vi è una sostanziale perdita del senso di sicurezza e dell’illusione di “immortalità”. La mente della vittima deve riadattarsi ad una situazione potenzialmente “mortale”. L’idea di poter morire da un momento all’altro si palesa come possibilità evidente. Si rompono tutti quegli schemi e quelle routine che rendono la nostra quotidianità prevedibile e quindi potenzialmente sicura. Nelle situazioni traumatiche come quelle descritte in precedenza, la sicurezza è violata, l’autonomia sulle proprie azioni non c’è più, il cervello non può più pianificare e il caos si sostituisce alle certezze.
In queste condizioni di squilibrio e alla ricerca di un nuovo equilibrio la vittima cerca paradossalmente di costruire una relazione “umana” con il proprio rapitore. Questa relazione sarà fondata sulla dipendenza totale, completamente asimmetrica e che sarà in grado di plasmare e modificare il nuovo sistema di valori della vittima.
Arresto di Olsson
La seconda fase del rapimento (il periodo della permanenza col rapitore) sarà invece caratterizzata da un dipendenza estrema. La vittima infatti dipenderà dal suo carnefice per qualunque cosa: mangiare, dormire, andare in bagno, lavarsi. Questa dipendenza estrema comporta una sorta di regressione ad uno stato precoce dell’infanzia (pre-edipico). Una fase dello sviluppo in cui il bambino è ancora completamente dipendente dalla madre, non è ancora distinto da lei. Alcuni psicologi hanno ipotizzato che le vittime trovandosi immerse in uno schema affettivo e relazionale simile a quello della madre con il bambino, adottano i comportamenti che potrebbe avere un bambino nei confronti dei genitori. E per i genitori proveranno: ammirazione, amore ed identificazione.
Inoltre l’ostaggio sarà in seguito considerato, dal rapitore, alla stregua di una merce di scambio. Perché, attraverso l’ostaggio il rapitore può ottenere dei favori o la propria libertà. In questa condizione l’ostaggio, presa coscienza di questa cosa, si sentirà oggetto. Questo porterà al processo di disumanizzazione della vittima. La disumanizzazione è anch’essa parte della genesi della Sindrome di Stoccolma.
Se passa diverso tempo dal momento del rapimento, l’aggressore sarà costretto a cercare un interlocutore e quindi inevitabilmente parlerà e si rivolgerà alla vittima. Questa sarà così restituita, almeno in apparenza, della sua umanità. Il rapitore sarà così percepito come un modello al quale ci si può identificare. L’identificazione risponde al bisogno di un modello in una situazione di vulnerabilità. Quindi, in una situazione di piena regressione l’ostaggio può identificarsi con l’aggressore e questo lo spinge a condividerne posizioni ideologiche e le rivendicazioni.
Infine, l’avvicinamento tra ostaggio e rapitore è dovuta anche al fatto che attraversano insieme una situazione eccezionale che valutano da un punto di vista in qualche modo simile. Sono interessati entrambi alla libertà.
“Buongiorno, sono D., sono stato dagli Alcolisti Anonimi per tanti, tanti mesi e diciamo che sono pulito. Ho bisogno di capire alcune cose, sulla mia dipendenza e sono qui. Ho cominciato a bere a 13 anni, molto presto lo so ma avevo bisogno di sentirmi grande e forte: potente. Sono stato vittima di quello che oggi chiamano bullismo, mi sentivo ferito e così ho cominciato a bere. Dalla prima goccia di alcool nel corpo che brucia, ho cominciato a bere litri e litri di birra, vino e vodka; a qualsiasi ora. La scuola non mi interessava, mi sfottevano solo.. là..
Mamma non c’era mai, papà è andato via di casa quando io avevo 3 anni e si faceva di qualsiasi cosa, dice mamma. Mi sono bevuto tutta la vita, Dottorè.. ma mi serviva qualcosa che mi faceva andare giù lo schifo che avevo intorno. Quando l’alcool ti brucia dentro e senti che ti sta tipo ustionando ogni cosa di te e senti che sei stordito, bruciato e.. aspè come si dice.. anestetizzato, ecco!.. io.. sì, mi sentivo come un fantasma.. ma è possibile che più ero trasparente e più mi sentivo vivo? Non lo so..
Poi ho conosciuto una ragazza.. l’amore.. tutte quelle stronzate che però mi hanno fatto capire che non tutto poteva essere come la mia famiglia (mia nonna è una prostituta famosa nel quartiere) e che fai… mi so messo sotto e ho capito che non potevo continuare ad essere un fantasma che al posto del sangue ha alcool in corpo”.
Secondo l’OMS nel mondo sono circa due miliardi le persone che consumano alcool. Quando si consumano cinque o più bicchieri in una sola occasione, si parla di episodio di binge drinking o bevuta compulsiva. Il 23% degli americani al di sopra degli undici anni si ubriaca almeno una volta al mese e circa il 7% delle persone sopra gli undici anni sono forti bevitori, arrivando ad ubriacarsi almeno cinque volte al mese. Tra i forti bevitori sono i maschi ad essere in maggioranza con un rapporto di 2:1.
Le bevande alcoliche contengono alcool etilico il che comporta danni al nostro organismo per una pura questione chimica. L’alcool etilico viene rapidamente assorbito dallo stomaco e dall’intestino per essere successivamente immesso nel flusso sanguigno. Appena entrato in circolo, l’alcool etilico comincia subito a fare effetto arrivando al sistema nervoso centrale (cervello e midollo spinale) dove comincia a rallentare l’attività di un gruppo importante di neuroni; l’alcool infatti si lega ad un gruppo importante di neuroni che normalmente ricevono il neurotrasmettitore GABA.
Accade che quando l’alcool si lega ai recettori presenti su tali neuroni, potenzia l’attività del GABA nella disattivazione dei neuroni, favorendo il rilassamento di chi ha bevuto. Inizialmente l’alcool etilico deprime le aree cerebrali che controllano la capacità di giudizio e l’inibizione (ecco perchè il bevitore sembra rilassato e amichevole). Successivamente man mano che l’alcool assorbito aumenta, anche altre aree del sistema nervoso centrale vengono rallentate (colui che ha bevuto avrà meno capacità di giudizio; ci sarà un eloquio meno fluido e la memoria comincerà ad avere dei buchi).
Le emozioni diventano amplificate e ingestibili (scoppi d’ira o crisi di pianto).
Se l’alcool ingerito aumenta ancora subentrano difficoltà motorie molto forti e tempi di reazione molto lunghi; la visione diminuisce (specie quella laterale).
Strizzando l’occhio a ricerche americane emerge che il 14% circa degli alunni della scuola elementare, usa alcool almeno ogni tanto (il fenomeno è in crescita anche in Italia dove il 66,8% dei bambini di 11 anni, ha bevuto almeno una bevanda alcolica nel corso dell’anno corrente).
Bere può aprire le porte ad una vera e propria dipendenza (come nel caso di D). L’organismo può sviluppare una tolleranza così alta da aver bisogno di aumentare sempre più la dose di alcool e se si smette di bere, cominciano i veri e propri sintomi dell’astinenza.
Vi saranno tremori (mani, lingua e palpebre); il soggetto sarà debole e avrà la nausea. Altri sintomi comprendono sudorazione, vomito, battito cardiaco in aumento e pressione sanguigna elevata. Possono subentrare ansia e depressione.
Una piccola percentuale sviluppa il DT (delirium tremens) ovvero episodi di allucinazioni visive che iniziano entro tre giorni dal momento in cui non si consuma più alcool; chi soffre di DT o altri sintomi di astinenza può perdere coscienza o essere colpito da emorragia cerebrale.
Altri danni fisici comportano lo sviluppo della Sindrome di Korsakoff ovvero una condizione di estrema confusione, perdita di memoria e altri sintomi neurologici; le persone non riescono a ricordare il passato o ad apprendere nuove informazioni, spesso i vuoti di memoria sono riempiti con la confabulazione e/o l’invenzione di eventi mai accaduti.
Alla fine del colloquio D., condivide con noi un pezzo che lo ha molto segnato; un brano in cui rivede un pò della sua storia. Il cantante , infatti, -Eminem- ha lottato contro le dipendenze che lo hanno tenuto lontano dalla scena. Nel 2010 ritorna nel mondo della musica con “Not Afraid”, il brano che D., ha condiviso con noi.
L’emozione per me è stata forte; Eminem mi ha fatto molta compagnia durante l’adolescenza, quando hai bisogno di trovare fuori le parole che sai dire solo dentro.
Not Afraid è il mantra di D., che abbiamo salutato con il solito “pugno” che da qualche mese, ormai siamo soliti dare; il pugno appena accennato che sostituisce la vecchia stretta di mano.
Il pugno per me è un simbolo del seme; quel seme che tutti quelli che varcano la nostra porta depositano con ed in noi; quel seme che ogni giorno andrà innaffiato, protetto e concimato. Quel seme le cui radici attecchite in un terreno argilloso, compatto, genereranno domani una pianta che all’occorrenza andrà travasata e potata..
La dipendenza è un fenomeno complesso e piuttosto stratificato in quanto chiama in causa aspetti legati sia alla vita sociale che individuale del soggetto. La complessa definizione risiede nel fatto che lo stato di dipendenza sia, nell’essere umano, uno stato di base poichè egli nasce dipendente e necessita, per un lungo periodo della propria vita, del sostegno familiare.
La crescita- infatti- dell’essere umano parte da un totale stato di dipendenza (il neonato) per giungere gradatamente verso lo stato di autonomia.
Secondo Caretti e La Barbera (2005) la dipendenza patologica è definibile come una “forma morbosa determinata dall’uso distorto di una sostanza, di un oggetto, di un comportamento; una specifica esperienza caratterizzata da sentimento di incoercibilità e dal bisogno coatto di essere ripetuta con modalità compulsive; ovvero una condizione invasiva in cui sono presenti i fenomeni del craving, assuefazione e astinenza in relazione ad una abitudine incontrollabile e irrefrenabile che il soggetto non può allontanare da sè”.
Il craving diventa elemento fondamentale, indica infatti (dall’inglese to crave) desiderare ardentemente ovvero avere una attrazione incontenibile verso alcune sostanze o esperienze tali da comportare la perdita del controllo e la messa in atto di tutta una serie di azioni, volte a soddisfare quel desiderio.
Il craving rappresenta la principale causa della ricaduta nelle dipendenze.
Ciò che però è bene sottolineare è che le dipendenze non coincidono con il craving in quanto esse si situano lungo un continuum che va dal normale al patologico; ad ogni stadio corrispondono specifici sintomi psicofisici.
Ad un estremo abbiamo stati sensoriali e motivazionali (non legati all’alleviare una sofferenza) pensiamo al benessere dato dal fare una partita al videogioco la sera appena rientrati a casa; seguono gli stati di dipendenza legati ad oggetti (che non influenzano affettività o volontà) fino all’estremo dove vi sono gli stati di dipendenza morbosa caratterizzato dal craving e astinenza.
Ciò che Staton Peele (1985) evidenzia è che la dipendenza patologica “può scaturire da qualsiasi potente esperienza la cui sensorialità ha lo scopo di alleviare l’ansia, il dolore o altri stati emotivi negativi attraverso una diminuzione della coscienza o innalzamento della soglia di sensibilità”.
Una differenza importante da fare concerne l’uso di due termini; se in francese “toxicomanie” indica una economia psichica basata sul desiderio di nuocere a se stessi, “addiction” termine inglese, indica il diventare schiavi di una sola e unica soluzione utilizzata per alleviare una sofferenza psichica.
Molte persone, ad esempio, quando vivono un momento personale molto stressante, doloroso o difficoltoso e mostrano difficoltà ad elaborare il vissuto emotivo ad esso sotteso, possono (per integrare tali esperienze dolorose) ad esempio affrontare la realtà allontanandosi mentalmente dalla realtà esterna ed interna attuando un ritiro mentale oppure possono ricorrere alla ricerca di esperienze piacevoli.
La carenza di integrazione e simbolizzazione psichica ha, quasi sempre, origine infantile ed è dovuta a deficitarie relazioni emotive interpersonali con figure di attaccamento (Fonagy, Target, 2001).
Il meccanismo psichico usato per difendersi da tali emozioni disturbanti o eventi sgradevoli prende il nome di dissociazione ovvero quel meccanismo di difesa che l’Io attiva al fine di regolare stati affettivi altrimenti ingestibili, una difesa antiriflessiva contro queste esperienze affettive intollerabili, così intollerabili, da impedire al soggetto di fare esperienza del proprio mondo interno maturo, complesso e denso di una sfaccettatura emozionale/emotiva, di aspettative e di dolori.
La dissociazione è un processo che esclude dalla coscienza percezioni interne e esterne situandosi come sbarramento di protezione della coscienza dall’inondazione di un eccesso di stimoli.
La dipendenza patologica va quindi considerata come “un sintomo di alterazione del pensiero e della funzione simbolica” l’uso di esperienze dissociative come tentativo illusorio del dipendente di rinchiudersi in una dimensione mentale dissociata dal resto della coscienza (Caretti, Craparo, Mangiapane, 2003).
Anche lo psicologo ha delle regole da seguire durante la conduzione di un colloquio clinico. Queste regole non sono rigide in quanto non si presentano come uno schema che rende rigido e prestabilito un colloquio (in tal caso si tratterebbe di un’intervista clinica che può essere o meno strutturata, in base al fatto che vengano o meno usati degli item- domande, prestabilite).
Il colloquio clinico è l’incontro di due (o più) persone portatrici di un vissuto. Il paziente, colui che porta un disagio psichico più o meno forte, si affida al clinico che di converso non si presenta come una tabula rasa scevra di contenuti suoi personali: è dall’incontro di queste due individualità che nasce – all’interno di un luogo, il setting, che ha determinate e specifiche caratteristiche- l’interazione che darà vita al colloquio clinico.
Le tre regole fondamentali del colloquio sono: la regola del linguaggio, la regola della frustrazione e la regola della reciprocità. Ciascuna di queste regole ha specifici momenti di applicazione (vengono utilizzate in determinati momenti del colloquio) e si presentano come 3 voci che se sapientemente armonizzate, possono creare quell’accordo che riesce a rendere “perfetto” un colloquio.
Conosciamo insieme la prima regola: La regola del linguaggio.
Buona lettura.
In generale possiamo dire che il linguaggio che si adopera durante il colloquio, è quello del paziente. Una regola così semplice è invece spesso sottovalutata in quanto siamo facilmente portati a fare “esercizio di concetti” dimenticando che chi sta davanti a noi, non è un nostro collega ma una persona bisognosa di essere accolta e ascoltata.
La regola del linguaggio comporta che il clinico rifletta sul rapporto esistente tra linguaggio e cultura etnica, tra cultura e personalità. La persona che ci sta di fronte che lingua usa? E’ la stessa che usa anche fuori la stanza d’analisi o si sta sforzando di parlare “in un certo modo?”. Frequentemente le persona parlano in dialetto durante le loro giornate mentre spesso si dà per scontato che la lingua d’uso sia l’italiano.
Da un punto di vista psicologico questo aspetto non è assolutamente da sottovalutare. Quando una persona abituata a parlare in dialetto (qualsiasi esso sia), si sforza di parlare di se stessa, del proprio mondo interno, del proprio disagio e soprattutto della propria storia, in italiano, spesso corre il rischio di isolare le rappresentazioni dagli affetti arrivando ad una minore partecipazione emotiva con il proprio discorso e quindi con il proprio vissuto.
La persona rischia di trasformarsi in uno spettatore del proprio vissuto, piuttosto che nell’attore principale.
Ciò che andrebbe fatto è utilizzare un linguaggio di uso corrente, evitando tecnicismi e forme troppo contorte di interpretazione, centrando di volta in volta l’uso della lingua in base al paziente che abbiamo di fronte.
Il linguaggio tecnico serve infatti per poter comunicare con i nostri colleghi ma soprattutto per poter pensare. Ho sempre pensato alla formazione (sia lessicale che prettamente didattica) come a una rete di sicurezza (simile a quella dei circensi) che potesse darmi la libertà di muovermi con i pensieri, con “la fantasia” e le interpretazioni, dandomi un sostegno in caso di cedimento o caduta.
Al paziente però, del tecnicismo poco importa “Dottorè.. ditemi che tengo.. che devo fa… come mi devo comportà” questo maggiormente viene chiesto.
In generale un buon clinico dovrebbe essere capace di utilizzare e comprendere il linguaggio del paziente che, durante la riformulazione, dovrebbe essere unito e impastato al linguaggio – più tecnico- del clinico (ad esempio all’uso di metafore).
Ci sono tuttavia delle eccezioni, ad esempio in caso di pazienti tossicomani o nel caso dei delinquenti. Entrambi fanno infatti un falso uso del linguaggio ; entrambi fanno un uso del linguaggio che evita la personalizzazione e la presentazione di sè come persone; offrono in sostanza un linguaggio vuoto, falso e inesistente. Stare troppo alle loro regole, al loro gioco, significa giocarsi il paziente.
Questa era la prima delle tre regole che si usano all’interno del colloquio.