Siamo a Stoccolma è il 23 agosto del 1973, ore 10:15. Una banca della Sveriges Kreditbanken viene assaltata da un criminale evaso di nome Jan-Erik Olsson (32 anni).
Olsson prende in ostaggio quattro persone e chiede che gli venga consegnato il contenuto delle casseforti della banca. Ne frattempo, sul posto, arrivano le forze dell’ordine. Cominciano le trattative e una lunga attesa snervante. Olsson, si barrica bene nella banca e forte dei suoi ostaggi, riesce a negoziare per il rilascio di un suo vecchio compagno di cella che lo raggiunge nell’edificio della banca.
Passano tante ore (in tutto saranno sei i giorni del sequestro) e cominciano a filtrare informazioni strane e sorprendenti, dall’interno della banca. Alcuni ostaggi pare abbiano dichiarato di avere piena fiducia nei loro sequestratori, non sembrano avere paura di loro e anzi credono che possano addirittura “proteggerli” dalla polizia. Addirittura durante la successiva liberazione gli ostaggi si frappongono tra i due criminali e le forze dell’ordine venute per salvarli.
La cosa ancora più sorprendente avviene durante il processo dei due rapinatori: i loro ex prigionieri si rifiutano di testimoniare contro i loro rapitori e regolarmente vanno a trovarli in carcere.

Cosa è successo durante i sei giorni del sequestro?
La definizione di “Sindrome di Stoccolma” è stata coniata proprio in occasione di questa rapina, dallo psicologo e criminologo Nils Bejerot, che collaborò con la polizia durante le trattative. Il termine fu usato per la prima volta in una trasmissione televisiva, ma divenne veramente “famoso” dopo la vicenda di Patricia Hearst nel 1974.
Il 4 febbraio del 1974 il sedicente Esercito di Liberazione simbionese rapì Patricia Hearst . Due mesi dopo il sequestro, Patricia, nipote del magnate dell’editoria William Randolph Hearst, fu fotografata con un mitra in mano mentre assaltava ua banca insieme con i suoi rapitori. Successivamente, in un video diffuso dalle reti televisive, dichiarò di essere entrata nell’Esercito di liberazione e rinnegò le sue origini capitalistiche. Aveva assunto lo pseudonimo di Tania.
Quando, però, dopo essere stata arrestata per la rapina in banca, durante il processo nel 1975, sostenne di aver subito violenze fisiche, psicologiche e il “lavaggio del cervello”. I giudici non si convinsero e la condannarono a sette anni di carcere. In seguito Patricia fu graziata da Jimmy Carter nel 1979.

In questa particolare condizione psicologica l’ostaggio sposa la causa del suo rapitore fino ad arrivare ad identificarsi con lui. Si schiera dalla sua parte e contro tutti quelli che vogliono “liberarlo” da quella condizione (polizia compresa). Tra il rapitore (carnefice) e l’ostaggio si instaura un legame affettivo apparentemente perverso che probabilmente nasce dall’esigenza della mente di recuperare un equilibrio dopo lo shock della cattura.
Alcuni psicologi ne estendono il significato e includono in questa Sindrome tutti i tipi di attaccamento di una vittima con il proprio carnefice, come nei rapporti di dipendenza caratteristici dei casi di violenza domestica o come nelle relazioni che si instaurano nelle sette religiose o nei campi di prigionia.
Come è possibile che una persona minacciata di morte, detenuta contro la propria volontà prenda le parti della persona che minaccia di ucciderla e che l’ha privata della propria libertà?
La fase della cattura rappresenta un trauma emotivo che lascia tracce profonde; è uno stress psicologico estremo che può indurre una sorta di paralisi. L’individuo è pietrificato e incapace di reagire. La sua mente è così sovraccaricata da un flusso di informazioni estremo, che è impossibile per la persona prendere qualsiasi decisione.
La vittima, in un primo momento è incapace sia di capire ciò che sta realmente succedendo, sia di seguire le più naturali regole per la propria sicurezza (come ad esempio restare inermi e immobili senza mettersi al riparo, nonostante ci sia una sparatoria in corso).
In questo momento sono saltati tutti i punti di riferimento psicologici della persona (vittima). In particolare nelle vittime, nei primi momenti vi è una sostanziale perdita del senso di sicurezza e dell’illusione di “immortalità”. La mente della vittima deve riadattarsi ad una situazione potenzialmente “mortale”. L’idea di poter morire da un momento all’altro si palesa come possibilità evidente. Si rompono tutti quegli schemi e quelle routine che rendono la nostra quotidianità prevedibile e quindi potenzialmente sicura. Nelle situazioni traumatiche come quelle descritte in precedenza, la sicurezza è violata, l’autonomia sulle proprie azioni non c’è più, il cervello non può più pianificare e il caos si sostituisce alle certezze.
In queste condizioni di squilibrio e alla ricerca di un nuovo equilibrio la vittima cerca paradossalmente di costruire una relazione “umana” con il proprio rapitore. Questa relazione sarà fondata sulla dipendenza totale, completamente asimmetrica e che sarà in grado di plasmare e modificare il nuovo sistema di valori della vittima.

La seconda fase del rapimento (il periodo della permanenza col rapitore) sarà invece caratterizzata da un dipendenza estrema. La vittima infatti dipenderà dal suo carnefice per qualunque cosa: mangiare, dormire, andare in bagno, lavarsi. Questa dipendenza estrema comporta una sorta di regressione ad uno stato precoce dell’infanzia (pre-edipico). Una fase dello sviluppo in cui il bambino è ancora completamente dipendente dalla madre, non è ancora distinto da lei. Alcuni psicologi hanno ipotizzato che le vittime trovandosi immerse in uno schema affettivo e relazionale simile a quello della madre con il bambino, adottano i comportamenti che potrebbe avere un bambino nei confronti dei genitori. E per i genitori proveranno: ammirazione, amore ed identificazione.
Inoltre l’ostaggio sarà in seguito considerato, dal rapitore, alla stregua di una merce di scambio. Perché, attraverso l’ostaggio il rapitore può ottenere dei favori o la propria libertà. In questa condizione l’ostaggio, presa coscienza di questa cosa, si sentirà oggetto. Questo porterà al processo di disumanizzazione della vittima. La disumanizzazione è anch’essa parte della genesi della Sindrome di Stoccolma.
Se passa diverso tempo dal momento del rapimento, l’aggressore sarà costretto a cercare un interlocutore e quindi inevitabilmente parlerà e si rivolgerà alla vittima. Questa sarà così restituita, almeno in apparenza, della sua umanità. Il rapitore sarà così percepito come un modello al quale ci si può identificare. L’identificazione risponde al bisogno di un modello in una situazione di vulnerabilità. Quindi, in una situazione di piena regressione l’ostaggio può identificarsi con l’aggressore e questo lo spinge a condividerne posizioni ideologiche e le rivendicazioni.
Infine, l’avvicinamento tra ostaggio e rapitore è dovuta anche al fatto che attraversano insieme una situazione eccezionale che valutano da un punto di vista in qualche modo simile. Sono interessati entrambi alla libertà.
“Finisce bene quel che comincia male”
dott. Gennaro Rinaldi