L’autolesionismo è un problema abbastanza diffuso, in particolare tra i giovani. Ha un peso specifico non indifferente nelle vite delle persone che ne soffrono e per le loro famiglie. Potremmo definire l’atto autolesionistico come un atto e un’espressione fisica di un dolore psichico profondo, per lo più celato e difficilmente condivisibile. Buon Ascolto!
Autolesionismo, cutting e self harm – Podcast – In viaggio con la Psicologia
“Nessuno può farti più male di quello che fai tu a te stesso.”
Mahatma Gandhi
Autolesionismo, cutting e self harm – Podcast – Spotify
Il dolore psichico proprio come il dolore fisico provoca un restringimento del campo di coscienza che si focalizza su temi penosi e depressivi.
Secondo Freud se il dolore psicologico non supera un certo livello, può essere molto importante alla costruzione dell’Io, tanto che secondo la teoria freudiana proprio attraverso la perdita dell’oggetto amato e la conseguente frustrazione, si abbandona lo stato di onnipotenza infantile per giungere infine al principio di realtà.
Inoltre il dolore psicologico sempre secondo Freud è assimilabile, come funzionamento, al dolore fisico. Infatti nel dolore corporeo si produce un grosso investimento (pulsionale) molto simile a quello narcisistico, sulla zona del corpo interessata dal dolore; nel dolore psichico l’investimento è “sempre crescente investimento nostalgico sull’oggetto mancante (perduto) produce condizioni economiche analoghe a quelle generate dall’investimento doloroso della parte lesa del corpo” (Freud, 1925).
L’esperienza del dolore e la tolleranza al dolore psichico non è la stessa da persona a persona, perché dipende dalle precedenti esperienze dolorose e dal vissuto personale. Attraverso queste esperienze passate la persona si crea una rappresentazione mentale e un vissuto emotivo del dolore del tutto personale.
La percezione del dolore è quindi legata alla visione del mondo del soggetto, alla sua personalità, alla sua storia familiare e al contesto storico culturale di riferimento. Per cui è possibile dire che sarà l’ambiente e il contesto in cui è inserita la persona a fornire un codice di significato attraverso cui il fenomeno del dolore acquista un senso specifico.
“L’accento sulla dimensione soggettiva del dolore è stato posto dalla fenomenologia per la quale il dolore è la rottura della coincidenza tra corpo ed esistenza, per cui non è l’organo che soffre, ma l’esistenza che si contrae, alterando il rapporto col mondo che non è più cadenzato dalle intenzioni della vita, ma dal ritmo del dolore. Per questo il dolore lo si “sopporta”, ma non lo si “accetta”, perché accettarlo significherebbe accogliere un arretramento della presenza nel mondo che si dilegua come sfondo di intenzioni, sostituito dal corpo che, per la presenza del dolore, diventa l’unico oggetto di attenzione. “
“E per tutti il dolore degli altri è dolore a metà”
Disamistade, De Andrè.
Ascoltavo questo incredibile pezzo e riflettevo..
Il dolore – specie quando è di natura psichica- che appartiene all’Altro, è sempre un dolore a metà.. una sorta di non dolore.
Tutto ciò che rimanda alla paura, al non conosciuto, all’oscurità si presenta come un evento perturbante. Il perturbante -in senso Freudiano- è qualcosa che in precedenza era familiare nella vita psichica, che poi è stato estraniato dal soggetto tramite il meccanismo di difesa della rimozione; è qualcosa di rimosso che ritorna..
Il tuo dolore, nel gioco della specularità che mi si apre innanzi dove “Io” è necessariamente “un Altro”, in quanto nell’ambiente primario di provenienza (la famiglia) mi è stato detto “questo sei tu”, conferendomi uno stampo in cui una prima identità liquida, è stata calata, mi (ri) presenta in faccia il dolore.
Nessuno ha voglia di sperimentare di nuovo qualcosa che lo ha in precedenza terrorizzato, tanto da doverlo rimuovere.
Nella mia formazione questo – ogni giorno- continua ad essermi insegnato. Le persone non si riempiono di parole; non si soffocano di concetti e interpretazioni. Il dolore, non si tappa. Si resta lì, in silenzio… e si aspetta.
Si impara a tollerare lo sconforto di un silenzio spesso imbarazzante. Si impara a tollerare uno sguardo vuoto, perso, rancoroso ma desideroso di sapere.
Si impara a tollerare il tuo sentirti perso, vuoto, rancoroso e desideroso di sapere.
Si impara a non avere fretta.
Si impara l’attesa.
Ti fai pescatore e sapientemente getti un amo nel silenzio dell’altro nell’attesa che qualcosa abbocchi e, vincendo la paura dell’asfissia, emerga e sopravviva alla nuova boccata d’aria.
In queste settimane stanno arrivando alla spicciolata i primi dati relativi ai “danni” psicologici legati alla pandemia da Covid-19 e sono abbastanza preoccupanti. Personalmente, nel mio lavoro quotidiano con i pazienti che ricevo nel mio studio e prima ancora con gli immigrati che seguivo nei centri d’accoglienza, avevo notato un certo incremento di alcuni sintomi legati all’ansia e allo stress più in generale, ma in alcuni casi, ci sono stai dei peggioramenti abbastanza evidenti nell’umore delle persone (sintomi legati alla depressione), fobie e attacchi di panico, perdita di riferimenti chiari per il futuro, apatia e rabbia. In diversi casi ci sono state anche delle evidenti regressioni e ricomparsa di sintomi che erano perlopiù stati superati in terapia.
Insomma nel mio piccolo ho notato in queste settimane soprattutto a partire da settembre una situazione decisamente preoccupante e ancor più preoccupante pare essere il velato disinteresse (mascherato da interesse estemporaneo e mirato) dell’informazione e delle amministrazioni predisposte ad attivare degli interventi.
L’emergenza sanitaria, che ormai dura da quasi dieci mesi e probabilmente proseguirà per un bel po’. Ha come caratteristiche principali quelle della indeterminatezza nel tempo, della insicurezza legata all’imprevedibilità dell’evoluzione pandemica e la lotta contro un nemico invisibile. Questi elementi, insieme alle misure stringenti del governo per contenere il contagio, locali e nazionali, hanno un forte impatto psicologico sulle persone, che vivono personalmente, a livello familiare e collettivamente cambiamenti drastici ed evoluzioni spesso peggiorative delle loro condizioni di vita. Molti devono affrontare perdita del lavoro, riduzione delle ore lavorative o allontanamento forzato dal lavoro (alcuni affrontano le inadempienze del governo, con grandi ritardi negli aiuti economici); altri devono affrontare la stessa malattia con la paura, le insicurezze e la solitudine di lunghe quarantene; altri devono affrontare il dolore dei lutti. Insomma questo stato di emergenza ha costretto tante persone a sacrifici continuativi e a “rotture” improvvise. Da alcuni dati mostrati dalla Fondazione Soleterre nell’ambito del Fondo Nazionale per il Supporto Psicologico Covid-19, delle persone da loro seguite (91) il 31% manifesta disturbi da stress post traumatico in forma grave e il 2% molto grave. Tra i sintomi più comuni c’è la depressione (nel 23% moderata e il nel 40% grave); l’ ansia ( nel 37% moderata e nel 32% grave); la rabbia (nel 25% moderata e nel 23% grave); disturbi del sonno (nel 17% moderata e nel 22% grave) e uso di sostanze (nel 37% grave). In alcuni casi si sono registrati anche episodi di violenza domestica.
In un articolo recente su fanpage è riportato un dato denunciato da Spi Cgil Lombardia che ha messo in atto uno studio sul tema, ma legato alle conseguenze psicologiche sugli anziani; il 30% degli anziani ha subito un peggioramento della propria situazione psicologica rispetto al periodo precedente al primo lockdown di marzo (questi dati sono venuti fuori da un lavoro congiunto effettuato con l’Istituto Mario Negri in Lombardia).
“L’ultima rilevazione sullo stress degli italiani, del 2 novembre, ci da un indice di 62 su 100, lo stesso livello di marzo. Il 41% delle persone evidenzia un livello di stress tra 80 e 100 su 100 (Centro Studi CNOP, Ist. Piepoli 02.11.20).”
Concludo dicendo che bisogna smetterla di considerare il “dolore psicologico” come un “danno” relativo e di minore importanza. Un qualcosa che esiste, ma che è meglio non considerare. Ciò significa squalificare e svalutare un disagio che non riveste solo il singolo, ma che riguarda tante persone. Non è mai troppo tardi per comprendere e rimediare.