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La Sindrome dell’impostore

Ci sono persone che non sono affatto convinte di meritare il proprio successo, nemmeno quando è palese che abbiano messo un grande impegno per arrivarci.

Queste persone soffrono della “sindrome dell’impostore” e vivono gran parte della loro vita con il timore di poter essere scoperti, perché si ritengono degli imbroglioni. Questo succede perché sentono che il loro successo o i risultati ottenuti nella loro vita, non sono dovuti alle loro capacità reali. Sentono invece di essere stati semplicemente fortunati a raggiungere un obiettivo, oppure solo capitati al posto giusto e nel momento giusto. Addirittura possono farsi la falsa idea che sia stato merito del demerito degli altri che abbiano così tanto successo.

Generalmente chi soffre di questa sindrome ha avuto esperienze di vita abbastanza favorevoli in passato, non hanno mai avuto grossi problemi e frustrazioni e hanno sempre avuto ottimi risultati in tutto, a partire dalle esperienze scolastiche.

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Secondo una Psicologa Pauline Clance (Georgia State University di Atlanta) che si è occupata di questo problema, la percezione soggettiva di essere “un impostore” può subentrare per la prima volta proprio alla fine del percorso scolastico di una persona o all’inizio del percorso universitario o della vita professionale. Queste persone arrivano a questi “appuntamenti” critici della propria vita sguarniti di difese, perché non hanno imparato mai a prepararsi adeguatamente a queste sfide e a saper attribuire i progressi e i successi a se stessi e alle proprie capacità.

La sindrome dell’impostore è dovuta ad uno stile di attribuzione sfavorevole, che praticamente vuol dire che non si sentono mai responsabili degli eventi positivi, imputandoli esclusivamente a fattori esterni. Inoltre si sentono veramente degli imbroglioni e quindi di non meritare i propri successi.

In alcuni studi americani dei primi anni del duemila, i ricercatori hanno scoperto che queste persone, sono più predisposte a vergognarsi di qualcosa, soffrono più spesso di ansia e depressione. Inoltre sembrano essere dolorosamente coscienti di tutti i loro difetti, mentre tendono a sopravvalutare le capacità degli altri. Si mettono a confronto con gli altri e hanno una percezione soggettiva (molto spesso fallace) di inferiorità, questo ovviamente comporta anche una autostima molto bassa.

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Le persone con questa sindrome hanno inoltre un modo di pensare ossessivo. Ad esempio, quando non vogliono essere scoperti come imbroglioni ad un esame, adottano due tipi di strategia: l’overdoing e l’underdoing. Nel primo caso si preparano in maniera quasi ossessiva all’esame, per limitare al massimo la possibilità di non essere “scoperti” e quindi di rendere al massimo. Ma se riescono a superare l’esame con un ottimo voto attribuiranno questo successo, non alle proprie capacità, ma piuttosto alla grande fatica o al fatto che gli sono state fatte domande semplici. Nel caso dell’underdoing, la persona si comporterà al contrario, cioè tenderà a preparare l’esame in ritardo e in fretta, perché probabilmente ha preferito occuparsi di altro nel tempo disponibile. Lo psicologo sociale Edward Jones descriveva questo comportamento come self handicapping: boicotto da solo i miei risultati e le mie azioni, in tutti i modi possibili, così posso proteggermi dall’insuccesso e dalla possibilità di un fallimento che dovrei per forza assegnare a me stesso, ma in fondo se l’avessi voluto ci sarei riuscito. Entrambe le strategie (underdoing e overdoing) limitano la propria visione del futuro e limitano la propria capacità di azione nel mondo.

Come è possibile affrontare un problema simile e come è possibile risolverlo?

Bisognerebbe rafforzare la propria autostima, riducendo l’apporto dell’ansia e della depressione. In terapia i pazienti affronteranno e analizzeranno le diverse sfaccettature della propria personalità, scoprendo e rafforzando i propri punti di forza, i rapporti positivi con le altre persone e valorizzando i risultati ottenuti e riconoscendo la loro responsabilità nelle loro azioni.

“Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi
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Non ci riesco o non voglio riuscirci?

Immagine Personale.

Mi ricordo di quando all’Università, profondamente colpita dalla (già nota) professoressa di dinamica, decisi di chiederle la tesi di laurea. Contemporaneamente a tale desiderio (quasi nello stesso lasso di tempo) decisi che “no! non ero in grado di poterle chiedere la tesi, perchè sicuramente avrei fatto una brutta figura!”, pertanto.. rinunciai a malincuore e mi diressi verso un altro professore.

Quante volte nel corso della nostra vita ci troviamo di fronte a sfide, dilemmi o occasioni e proprio noi, ci trasformiamo nel nostro principale nemico.

Questo fenomeno è noto nell’ambito della psicologia sociale con il nome di “autosabotaggio o self-handicapping”.

Buona lettura

p.s- la storia della mia tesi prosegue con una più sicura dottoressa che per la laurea magistrale si diresse con più coraggio – finalmente- dalla professoressa di cui prima. Il lavoro portato avanti è stato denso di soddisfazioni; ma la soddisfazione più grande fu sentirsi dire “si vede che ha tanta passione, lo leggo dal modo in cui scrive e da come ne parla”. Questo porterebbe l’argomento sull’aspetto narcisistico della questione.. ma per questo.. dovrete attendere ancora un pò…

Autosabotaggio come giubbotto di salvataggio.

Spesso accade che le persone tendano a sabotare le proprie opportunità di successo creando impedimenti e ostacoli che rendono meno probabile il raggiungimento di tale successo. Non si tratta di essere autolesionisti o autopunitivi, quanto piuttosto di attuare un comportamento con scopo autoprotettivo.

Quando l’immagine di sè è legata alle prestazioni, può essere più sminuente per il sè impegnarsi a fondo e fallire piuttosto che procrastinare e trovare una scusa. Se si riesce infatti ad avere successo anche in condizioni avverse, il risultato è una sovralimentazione dell’immagine di sè.

Ciò che l’autosabotaggio fa è proteggere sia autostima che immagine pubblica consentendo di attribuire i fallimenti a qualcosa di temporaneo o esterno (avevo mal di testa; ho dormito poco).

Steven Berglas e Edward Jones (1978) condussero un esperimento proprio per analizzare il fenomeno dell’autosabotaggio. Alcuni studenti della Duke University erano stati incaricati di dare delle risposte a delle domande attitudinali. Alla fine dell’esperimento alcuni riuscirono ad indovinare delle risposte a domande molto difficili; a questi studenti fu detto che il loro punteggio era uno dei migliori mai visti.

Successivamente fu offerta, a questi studenti (che si sentivano molto fortunati per quanto accaduto),la possibilità di poter scegliere tra 2 medicinali prima di rispondere ad altre domande. Un medicinale incrementava le prestazioni intellettuali, mentre l’altro le inibiva. La maggior parte degli studenti decise di assumere il medicinale inibente, trovando già pronta una scusa in caso di mancato rendimento.

Secondo i ricercatori le persone hanno diversi modi per incorrere in autosabotaggio:

  • riducono la propria preparazione in sita di eventi importanti (come eventi sportivi)
  • offrono un vantaggio agli avversari
  • mostrano prestazioni scarse all’inizio di un’attività per evitare di creare aspettative troppo alte su di sè
  • non affrontano un impegno serio (che coinvolge il proprio sè), sfruttando tutte le risorse di cui dispongono.

E voi.. quanto siete soliti ricorrere a tale meccanismo autoprotettivo?

“Finisce bene quel che comincia male”.

Dott.ssa Giusy Di Maio