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Il ciclo coreutico di Maria di Nardò.

Oggi 29 Giugno ricorre la festa dei Santi Pietro e Paolo, il che riporta la nostra attenzione sul tarantismo.

Voglio condividere con voi la storia di una tarantata: Maria di Nardò.

Quando De Martino e la sua equipe giunsero presso la casa di Maria, trovarono il seguente scenario: per delimitare lo scenario del rito (il perimetro cerimoniale), c’era un lenzuolo bianco disteso a terra e in un angolo un cestino per la raccolta delle offerte e le immagini di San Pietro e San Paolo.

In questo perimetro si muoveva la tarantata. La donna era vestita parimenti di bianco, la vita stretta da una fascia e i capelli nerissimi sciolti sul viso olivastro su cui si adagiavano occhi ora chiusi ora socchiusi; i tratti del volto erano immobili e duri.

Ad accompagnare la terapia sonora vi erano un chitarrista, un fisarmonicista e un tamburellista.

Maria aveva 29 anni e ripeteva regolarmente un ciclo coreutico definitivo, diviso in una parte a terra e una in piedi; il ciclo terminava sempre con una caduta a terra che segnava una breve pausa/riposo. Da questo intervallo in cui l’orchestrina taceva, le figure si svolgevano nel seguente modo:

L’orchestrina attaccava la tarantella e la tarantata (che giaceva supina al suolo), cominciava a sentire i suoni muovendo la testa a tempo (a destra e sinistra), successivamente – quasi come l’onda sonora si propagasse lungo tutto il corpo- cominciava a strisciare sul dorso, spingendosi con le gambe puntando i talloni al suolo; la testa continuava a battere violentemente il tempo e lo stesso movimento delle gambe partecipava al ritmo della tarantella.

La tarantata compiva poi, allargando le braccia, qualche giro del perimetro cerimoniale poi improvvisamente si rovesciava bocconi, le gambe divaricate e immobili le braccia piegate e la testa sempre in movimento ritmico.

Questa danza mimava un essere incapace di stare in piedi; un essere strisciante e aderente al suolo: la taranta.

La danzatrice viveva quindi la sua identificazione con la taranta, danzava con l’animale fino a diventare la bestia danzante.

A questa identificazione seguiva un distacco: la tarantata si alzava rapidamente in piedi percorrendo il perimetro cerimoniale, facendo alcuni salti e formando alcune figure con un fazzoletto colorato che aveva nelle mani (la cromia del fazzoletto era diverso per ogni tarantata/tarantato; il colore infatti aveva un significato specifico).

Anche in questa fase la tarantata osservava rigorosamente il ritmo: i piedi battevano il ritmo sempre 50 volte ogni dieci secondi. Dopo una durata variabile di tempo (non oltre il quarto d’ora) il ciclo coreutico volgeva al termine.

La donna seguiva il ritmo con sempre meno “attenzione”, la stabilità diventava incertezza e tutto si concludeva con una grande caduta al suolo, come per vertigine. Le assistenti prendevano la tarantata per evitare danni durante la caduta e l’orchestrina smetteva di suonare; alla tarantata veniva portata dell’acqua e dopo circa 10 minuti l’intero ciclo ripartiva.

Il corpo diviene pertanto corpo strumento, corpo melodico, corpo taranta; corpo che – anche qui- si presenta come un mezzo attraverso cui sentire un disagio psichico che durante il resto dell’anno si tiene celato, nascosto..

Il disagio vive per un giorno.. il suo giorno.

Circa al minuto 4:55 comincia il ciclo coreutico di Maria.

(Non tutti, attualmente, rivivono con piacere la storia del Tarantismo. Per molti anni le tradizioni del sud Italia sono state indicate come qualcosa di inferiore, osceno, scabroso. I termini con cui queste tradizioni sono state spesso tacciate, tendenzialmente sono poco carini e per nulla simpatici. La nostra storia, le nostre radici, non si nascondono non si recidono con cesoie magari arrugginite che creano danni alle radici stesse.

Le radici si proteggono.

Le radici si ascoltano, si comprendono poi magari non si accettano, ma già concedere loro uno spazio in cui poter essere pensate, dà loro una zona per una metabolizzazione che vuol dire essere capaci di aver integrato la propria storia personale.

Le radici vanno ascoltate: almeno una volta).

“Finisce bene quel che comincia male”.

Dott.ssa Giusy Di Maio.

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