Uno studio condotto nel 2011 da Edward Smith della Columbia University (Kross et al., 2011), mostra come la fine di una relazione attivi le stesse aree cerebrali deputate alla percezione del dolore fisico.
Lasciarsi implica una reale sofferenza che si esperisce come vera sensazione dolorosa sia a livello psicologico che fisico.
Sembra che tale sofferenza trovi radici nella questione biologica e più nello specifico, nella questione che fa dell’essere umano un essere deputato alla costruzione di legami sia sociali ma soprattutto amorosi. Ne deriva che quando una relazione cessa, il grado/livello di sofferenza provato è da mettere in relazione con il grado di coinvolgimento che c’è stato nella relazione stessa, la durata della relazione e la consapevolezza rispetto al rapporto ormai terminato (tutte variabili che, tuttavia, non necessariamente vengono avvertite allo stesso modo dai membri dell’ormai ex coppia).
Secondo una ricerca condotta nel 2005 (National Fatherhood Initiative, 2005) le ragioni più comuni che portano una coppia a dirsi “addio”, possono essere raggruppate in alcune categorie:
- mancanza di impegno nella relazione
- difficoltà comunicative
- infedeltà
- diminuzione di interesse verso il partner
- situazioni di abuso
- dipendenze
e così via…
Quando una relazione termina (soprattutto se inaspettatamente), la persona ha una prima reazione definita di shock. Le sensazioni tipiche sono abbattimento, ansia, senso di vuoto, calo della motivazione, ritiro e disinteresse per il mondo circostante oppure depressione vera e propria.
Talvolta a causa del profondo dolore provato, la mente utilizza una strategia di conservazione (meccanismo di difesa) chiamata negazione. La persona sperimenta una sorta di vuoto e di ottundimento emotivo che la distacca dall’evento; ne deriva che la persona si trova ad oscillare tra momenti di profonda sofferenza e momenti in cui agisce “come se” non fosse accaduto nulla.
Tale strategia consente, per così dire, di fare in modo che la persone resti “operativa” nonostante l’enorme sofferenza provata ma il risultato potrebbe, alla lunga, essere quello di incorrere in crisi dissociative o fenomeni di depersonalizzazione.
Ciò di cui la persona non è consapevole -tuttavia- è che perpetuare l’evitamento (esperienziale) non solo non risolve il problema, ma la espone a ondate di dolore qualora queste attività vengano a mancare. In tal senso, è utile che al termine di una relazione la persona riesca ad assumere un atteggiamento di compassione verso se stessa e tenendo conto che i primi mesi sono sempre i più difficili (imparare a vivere il distacco, la solitudine della nuova condizione, immaginarsi e viversi soli, …) darsi il tempo giusto per vivere i sentimenti di vuoto, paura e confusione al fine di procedere successivamente con l’elaborazione dell’evento luttuoso.
“Dottoressa, cazzo! Cazzo! Cazzo! Perché? me lo sa dire il perché di questa fine? Com’è possibile!! Io.. Io non ci dormo la notte, non vivo più di giorno… Mi sento impazzire… Non riesco a mangiare sento un dolore incredibile dentro sa.. come se qualcuno mi stesse bruciando il petto… Come se avessi una fiamma continuamente accesa qui (si indica il cuore). Lo odio, lo odierò per sempre. Questo non è amore!!!
La posso mettere una canzone? Senza che….”
Lo sa, nella sua isola del tempo la regola delle non regole dice che in questo -suo- spazio non ci sono giudizi che giudicano, emozioni da non provare o parole da non dire. Questo è il suo tempo e il suo spazio e io non le leggo la mente o i sentimenti ma la accolgo e contengo.
” Ma se la chiamo durante la notte, posso farlo?”
(…)
“Allora alla settimana prossima, Dottoressa… e comunque: Amore Vaffanculo!”.
“Finisce bene quel che comincia male”.
Dott.ssa Giusy Di Maio.