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“Tra un paio di settimane, ci salutiamo”. L’ultima seduta.

Vienna.

Certo la strada che conduce alla fine della relazione terapeutica, con il paziente, vede l’uso di una frase meno fredda di quella dell’incipit, ma il senso è quello.

Proviamo a procedere -per quanto possibile- con ordine.

Quando una persona prende coscienza di avere un disagio psicologico, decide di contattare un esperto del ramo psy (psicologo, psicoterapeuta,psicoanalista).

Si comincia con la presa di coscienza (più o meno consapevole, diciamo così), di questo disagio e si parte con un percorso che (nella mente del paziente) si spera essere il più veloce possibile, e che porti alla scomparsa del disagio psichico (il sintomo, ad esempio, gli attacchi di panico).

Ma cosa si intende quando si dice che una psicoterapia o un supporto psicologico, debbano essere risolutivi?

Il termine “risolutivo” -attenzione- va tarato sulla persona in questione (accade ,infatti, che la risoluzione o la scomparsa del famoso sintomo, non siano quelli per cui la persona ha chiesto il nostro aiuto). Intendo dire, con ciò, che si inizia di solito un percorso con una specifica domanda ma non ci si incista, barricandosi, sul/nel sintomo portato; si scava -invece- intorno a questo procedendo in un movimento temporale che ci colloca in un movimento ondoso che ci porta avanti, indietro, a sostare su un preciso scoglio per un po’ oppure ci fa tenere l’acqua alla gola.. e così via.

Il percorso psicologico non sarà mai lineare; non possiamo prevedere la durata di un dato percorso in maniera certa e lineare: la psiche, l’inconscio, non andranno mai da A a B in maniera diretta ma per giungere dalla prima alla seconda destinazione seguiranno percorsi frantumati, a zig zag, ci saranno salti enormi, vuoti d’aria, stasi accelerazioni o stop improvvisi.

Può accadere che il paziente decida di interrompere d’improvviso la terapia; il terapeuta ha quindi in questo caso il compito di interpretare tale richiesta e di aiutare il paziente stesso a comprendere tale richiesta. Se il paziente insiste il terapeuta pone fine al rapporto terapeutico. Altra condizione fondamentale è evitare di creare dipendenze lunghe, eterne con il proprio paziente.

Può accadere che alcuni terapeuti vivano la difficoltà nel concludere le terapie; questo può avvenire nel caso in cui il terapeuta non abbia completamente risolto alcuni problemi legati al suo vissuto e ricerchi, in questo rapporto in cui si pone come soggetto dominante, delle gratificazioni narcisistiche.

Quando le terapie procedono bene fino a giungere alla fine del loro percorso: cosa succede?

Il paziente giunto da noi per alleviare un determinato sintomo, sta meglio. Il sintomo scompare, si allevia, la persona ha acquisito delle capacità con cui sa fronteggiare un determinato disagio e da quel campanello d’allarme iniziale (ad esempio l’attacco di panico), da sapiente archeologo (come da metafora Freudiana, circa la figura dell’analista), è riuscito, insieme al terapeuta stesso, a scavare intorno e nel suo disagio: il sintomo consente di portare alla luce un realtà sotterranea che era esclusa dalla coscienza.

Il paziente conosce ora le sue risorse: sa di averle.

Cosa accade, ora?

La terapia si conclude positivamente quando paziente e terapeuta scelgono di comune accordo che è arrivato il momento giusto, quello del distacco. Di solito qualche seduta prima si fa il punto della situazione e si prende atto della data “della fine”.

Abbiamo innanzi un momento molto forte e carico di significato. La conclusione della terapia si configura come una separazione non traumatica, investita di senso ed empatia.

Questo momento ha un alto valore simbolico poiché rappresenta un modo per prendere le distanze con la figura di riferimento (assimilata al genitore) acquisendo la propria autonomia e indipendenza. La conclusione della terapia non è una lacerazione improvvisa ma un trampolino di lancio verso la vita.

Durante l’ultima seduta il terapeuta offre la restituzione, una interpretazione conclusiva del/al paziente. Di solito si usa una metafora potente, breve e incisiva; una metafora che usa un linguaggio specifico della coppia terapeutica che si è creata in quel luogo; qualcosa che sia “tarato” sulla persona stessa che solo terapeuta e paziente possono capire e ricondurre a quel percorso che insieme, hanno portato avanti.

E’ un momento bello, commovente.

Forte.

Il terapeuta inoltre non si nega all’altro, ma offre al paziente la possibilità di essere lì, offrendosi come un porto in cui ritornare qualora la tempesta torni alle porte e sia troppo distruttiva.

I risultati, per così dire, si vedranno dopo, nel momento in cui il paziente interiorizza il terapeuta e mette in pratica quelle modalità diverse, più adattive, funzionali ed evolute (che il professionista gli ha trasmesso, durante il percorso condiviso) per prendersi cura di sé.

Non esistono percorsi facili.

Non esistono percorsi impossibili.

Ogni strada è la propria strada e non tutte le strade devono necessariamente partire da A per finire verso B.

…Possiamo anche partire dalla Y…

“Finisce bene quel che comincia male”.

Dott.ssa Giusy Di Maio.

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