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La tua follia, la mia verità.

“Dottoressa Buonasera ma fate sempre più tardi del tardi!”

Buonasera N., cosa vuoi che ti dica.. e tu? Perché sei nel quartiere a quest’ora?

“Dottorè e guardate qua.. Cu sta campagna elettorale stanno tutti sti volantini e bigliettini, mi dispiace che domani mattina chella guagliona e Miriam deve pulire tutto da sola; è vero che è la spazzina però voi lo sapete che io ci tengo e con il comitato di quartiere teniamo tutto pulito… Non a caso il nostro quartiere è un gioiellino! Che po’ io rido.. Ci stanno tutti sti ragazzini mo… che ci cazzeano su internet (nuovo terreno di battaglia, a quanto pare) che ci dicono che noi all’ambiente non ci teniamo e che gli stiamo togliendo il futuro… Io mi chiedo… Perché invece di scrivere su sti social (che poi consumano energia e inquinano), non vengono a pulire direttamente le città? Dottorè scusatemi ma stu mal tiemp mi fa triste. Quando piove e il cielo si fa scuro mi si fa ‘o core scuro perché poi stare chiusi dentro, al buio, mi fa pensare, ma pensare in un modo negativo. Mi piace la luce perchè così i pensieri li posso vedere per quello che sono e non nascosti… ombra tra le ombre.

Lo so N., Spesso il vero atto di coraggio è guardare il sole e la luce, non il buio. Il buio nasconde creando l’illusione e l’alone dietro la cosa che così… può mostrarsi pure per ciò che non è. La luce ti mette spesso davanti all’evidenza dei fatti.. E l’evidenza dei fatti spesso siamo noi stessi: esseri mancanti.

“Dottorè misà che io ho capito qual è il vostro problema. Voi non tenete degli occhi, tenete degli specchi; non è facile guardare negli occhi chiari perché mostrano tutto e riflettono ‘o bbuono e ‘o malamente. Voi dite senza dire, questo è. Comunque Dottorè col Dottore mi trovo proprio bene; mi piace come mi ascolta e mi ha fatto pesare pure meno il cambio dei farmaci… Avevate ragione che sto in una botte di ferro”.

(Mi piacerebbe poter dire che l’occhio lucido sia colpa dell’improvvisa folata di vento che si fa duna sulla mia pelle rosa, ma non è così.  La verità è che nel mio malinconico sorriso la mente ha preso atto di una cosa: N. La tua follia è spesso la mia verità.)

“Finisce bene quel che comincia male”.

Dott.ssa Giusy Di Maio.

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“Dottoressa.. Dottorè..”

“Dottoressa! Dottoressa!… Buonasera ormai non vi vedo quasi più..”

Buonasera N., come stai?

“Eh Dottorè.. Non posso affermare di stare bene ma non posso negare di stare male.. Po’ penso Dottorè.. Penso sempre..”

A cosa pensi?

“Mah Dottorè.. lo sapete che mi è entrato nella testa, mo.. un pensiero.. Dico io.. Stiamo facendo le cavie.. diciamo pure che tengono ragione ma.. se tra qualche tempo si scopre che questa medicina ci salva.. Le persone che hanno rifiutato la medicina poi la vorranno anche loro? Cioè poi gli andrà bene che io ho fatto la cavia per loro?.. Non ci fate caso Dottorè.. è che io, lo sapete, prima di questo ero un filosofo.. Ah Dottorè.. vi porto la borsa.. ce lo prendiamo un caffè?”

Ti ringrazio N., la borsa posso portarla io e per il caffè.. sono le 21,30 magari facciamo domani mattina.

“Va bene Dottorè.. però fate sempre tardi!”

L’aria è pungente stasera e nonostante io sia una fan accanita della capsaicina e delle spezie, il sapore non è quello.

Non si sente aroma speziato, piccante o salato.. c’è più aria di scuro..

Uno scuro che sta ritornando in maniera nemmeno più così celata; uno scuro che fa spavento.

Le camicie nere non hanno mai fatto per me..

“Finisce bene quel che comincia male”.

Dott.ssa Giusy Di Maio.

Il rifugio della follia

“Ci sono volte in cui la mente riceve un tale colpo da nascondersi nella follia. Ci sono volte in cui la realtà non è altro che sofferenza e per sfuggire a quella sofferenza la mente deve lasciarsi alle spalle la realtà”.

 Patrick Rothfuss.
Photo by Elina Krima on Pexels.com

La follia diventa una via d’uscita, un rifugio, un buon compromesso per sfuggire ad una realtà altrimenti insopportabile…

dott. Gennaro Rinaldi

La Lobotomia.

Photo by meo on Pexels.com

Rosemary fu la terzogenita della famiglia Kennedy. I primi due figli nacquero senza alcun problema, in casa, così fu deciso di far nascere anche Rosemary stessa, in casa. Il giorno del parto qualcosa andò storto in quanto la famiglia Kennedy ebbe difficoltà a trovare un medico disponibile e l’infermiera (che stava seguendo la famiglia), decise di bloccare il parto lasciando la piccola Rosemary con la testa per due ore intrappolata nel canale uterino. La carenza di ossigeno portò Rosemary ad avere danni cerebrali che causarono alla bambina anche disturbi mentali. La famiglia non badò troppo a questi problemi fino a quando la ragazza non compì 20 anni mostrando una bellezza fuori dal comune. Impauriti dalla possibilità che gli uomini si accorgessero di Rosemary e della sua bellezza, con la possibilità di creare scandalo, decisero di sottoporre la ragazza a lobotomia, i cui rischi erano già stati descritti dall’American Medical Association.

Nel novembre del 1941 Rosemary fu sottoposta alla procedura presso la George Washington University; le fu chiesto di canticchiare e raccontare storie mentre le venivano provocati due buchi in testa atti al taglio delle terminazioni. Durante questa procedura Rosemary canterina si trasformò in Rosemary silente e incoerente.

La ragazza cominciò a non riuscire più a muovere un braccio, non tornò mai più a camminare normalmente e inizialmente non riusciva a pronunciare che pochissime parole. Fu internata in un istituto per morire a 85 anni nel 2005.

La sua storia solo recentemente è stata raccontata.

All’inizio del 900 i disturbi psichiatrici erano curati con metodi coercitivi o di tipo meccanico; i pazienti pericolosi venivano infatti contenuti con ogni mezzo (camicie di forza, ad esempio); venivano chiusi in enormi vasche di legno (simili a botti) piene di acqua in cui restavano immersi anche per giornate intere; venivano usate catene e altri mezzi di contenimento.

Le pratiche più diffuse e note in medicina generale erano: il dissanguamento terapeutico attraverso l’applicazione di sanguisughe o incisioni; la somministrazione di calomelano, arsenico o sali di mercurio; oppure si induceva il sonno forzato a suon di barbiturici o oppiacei.

Negli anni 30 cominciò anche a diffondersi l’uso di insulina per il trattamento dei sintomi schizofrenici. L’idea era quella di indurre il paziente in coma provocando un rapido abbassamento dell’insulina nel sangue (ipoglicemia) , il risultato erano gravi danni cerebrali, spesso, la morte.

La leucotomia o lobotomia persuase l’audience del secondo congresso internazionale di neurologia presentandosi come una promettente terapia per i disturbi mentali.

Era il 1935 e due medici ricercatori John Fulton e Carlyle Jacobsen, illustrarono ai loro colleghi i progressi ottenuti con tale tecnica su due scimpanzé. I due primati esibivano comportamenti normali considerando il fatto che erano chiusi in una gabbia, ma per i due medici i loro comportamenti erano troppo esuberanti e decisero di correggere il comportamento in maniera chirurgica rimuovendo i lobi frontali del cervello dei primati. Dopo l’operazione i due scimpanzé erano piatti, senza emozione (non si muovevano nemmeno per raggiungere il cibo) e piuttosto spenti.

Per i medici questo era un successo.

Egas Moniz (futuro premio Nobel per tale psicochirurgia) decise di ampliare gli studi in merito, sottoponendo diversi pazienti alla procedura. Inizialmente i pazienti erano trattati con alcool etilico iniettato direttamente nei lobi frontali del cervello. In tal modo si otteneva l’uccisione immediata dell’aera interessata. La procedura fu successivamente migliorata e fu ideata una procedura che comportava la resezione chirurgica.

L’intervento prevedeva una trapanazione preventiva del cranio a livello della tempia, in modo da facilitare l’ingresso ai neuroni bersaglio. La chirurgia (la distruzione meccanica della materia bianca del cervello attraverso il leucotomo), era per Moniz uno dei primi passi di una tecnica da approfondire.

Dopo la procedura i pazienti erano apatici e incapaci di comunicare anche le più banali necessità fisiologiche.

Per Moniz queste persone ombra, incapaci di parlare, apatiche, incapaci di mangiare da sole; incapaci di stare in piedi, di ridere, di sentire e pensare, erano da considerare guarite.

Mi viene sempre il pensiero: “chi è realmente il folle?”.

“Finisce bene quel che comincia male”.

Dott.ssa Giusy Di Maio

Senza Parole: musica e inconscio.

Immagine Personale.

E’ possibile pensare all’inconscio partendo dal discorso musicale?

Da Freud in poi sentiremo parlare di inconscio non intendendolo come in precedenza era stato fatto ad esempio, dagli artisti romantici, dove la parola era usata per indicare l’interiorità oscura, l’inquietudine, la follia o l’irrazionalità.

Senza indagare troppo la questione “prima di Freud”, è con Sigmund stesso che l’inconscio viene pensato non più a partire dai suoi contenuti, ma dalle sue qualità formali, dal suo modo di funzionare, dalle sue formazioni. Ne deriva che la realtà dell’inconscio si manifesta sia nelle “cose da decifrare”, che in quelle che resistono a tale decifrazione; si manifesta soprattutto nelle dimenticanze, nel ricordo di quel che non è esistito, nella coazione a ripetere, nelle cose che non si riescono a pensare e dire, negli atti mancati.

L’inconscio diventa posto vuoto, cesura tra ciò che potrebbe e (forse?) non è; inconscio senza “rappresentazione” in quanto non è un contenuto o una data funzione localizzabile nel cervello, in un luogo stabile e preciso.

Jacques Lacan comincerà a ripensare all’inconscio guardando al linguaggio musicale.

Prima però di Lacan uno dei primi ad affrontare il rapporto “musica e psicoanalisi” fu Theodor Reik; ciò che Reik fece fu comprendere l’analogia tra ascolto musicale e ascolto psicoanalitico.

Reik introdusse infatti l’idea di un ascolto “il terzo orecchio” orientato non al contenuto e significati ma alle forme espressive cui ricorre il paziente durante il racconto. Diventano importanti ritmi, silenzi, prosodia, pause, tono, tutti elementi che ritroviamo nel discorso musicale. L’analista così facendo riesce a cogliere gli “infrasuoni del discorso inconscio” andando ben oltre il mondo apparente fatto di suoni che possono solo apparire consonanti, celando invece dissonanze o accordi non ben armonizzati.

Lacan riprenderà la funzione del suono dello shofar (corno ebraico). Generalmente si tratta di un corno di ariete che viene usato in momenti di raccoglimento, fede, pentimento dove offre un sottofondo sonoro particolarmente adatto a rendere sentimenti di commozione (di tale strumento si parla anche nella Bibbia).

Quando Lacan pensa al suono di tale strumento (soprattutto alla luce di come viene presentato e della funzione che ha nella Bibbia stessa), si chiede se si tratti di un semplice strumento o se, invece, non sia una voce, un sostituto della parola che reclama (in tal caso, obbedienza).

Se immaginiamo una musica, una melodia, percepiamo una sequenza di suoni “diciamo” armonica (il discorso sarebbe molto più ampio specie alla luce di moderni generi musicali non del tutto consonanti); di una melodia riconosco un ordine, una struttura e un codice in sostanza: un discorso.

Un discorso che può dire senza dire, analogamente a quanto un suono musicale può fare presentandosi come significante di qualcosa che non c’è (non in maniera visibile). Anche l’inconscio può presentarsi come costituito da qualcosa che “sta al posto di”.

Il significante prende il sopravvento sul significato e così come in una composizione artistica non mi fermo al suo significato immediato, scavo e scovo nell’inconscio tracce di significazione nascoste, celate tra le mille note raggruppate che creano trilli, acciaccature (in musica piccola nota che vediamo attaccata alla nota principale che suonata prima di, toglie una frazione di durata molto breve alla nota principale), abbellimenti del nostro mondo interno.

(Gli abbellimenti sono – brevemente- in musica note o gruppi di note accessorie, ornamentali, che sono inserite tra le note principali di una melodia per dare maggiore grazia al discorso musicale).

“Finisce bene quel che comincia male”.

Dott.ssa Giusy Di Maio

Tra follia e creazione artistica: Robert Schumann.

La storia che oggi leggeremo racconta di una grande compositore, della sua follia e della sua creazione artistica sapientemente e indissolubilmente legate:

la storia di Robert Schumann.

Buona Lettura.

Il 4 Marzo 1854 il quarantaquattrenne Robert Schumann viene accolto nel manicomio di Endenich in seguito alla sua richiesta. E’ in questo manicomio che sarà seguito dallo psichiatra Richarz, fino alla sua morte nel 1856.

La psichiatria dell’epoca vive sotto l’opera di Philippe Pinel che nel Trattato differenzia la follia in 5 categorie: melancolia, mania con e senza delirio, demenza e idiotismo; molto probabilmente il nostro Schumann fu classificato tra i malati di melancolia. Schumann infatti, pochi giorni prima aveva cercato di suicidarsi gettandosi nel Reno (questo tuttavia non fu il primo tentativo di suicidio, ma il secondo) e il suicidio stesso era considerato tratto patognomonico della melancolia.

Robert viveva insieme all’eccellente pianista-moglie Clara Wieck; dal primo bacio del 25 novembre 1835 passeranno 5 anni prima di unirsi nel vincolo matrimoniale (passando attraverso una causa legale); Schumann infatti porterà in tribunale il suocero/maestro di pianoforte, accusato di aver offeso la libertà delle persone, rifiutando di dare la mano della propria figlia a Schumann stesso.

La vita di Schumann è costellata di lutti; fratelli e sorelle moriranno. Robert inoltre era sofferente fin da bambino di stati depressivi in conseguenza della morte del padre; inoltre anche la madre era depressa (segno della trasmissione familiare del disagio). Uno dei lutti peggiori da affrontare fu per Robert quello dell’amata sorella (così tanto amata da generare voci su un presunto legame incestuoso).

Il lutto però più importante fu per Schumann quello della perdita della sua mano destra; la mano perderà la funzione del dito terzo facendo cessare in Schumann ogni desiderio di poter diventare un grande pianista come Chopin. Nel 1832 Robert lega due dita della mano destra per poter allenare il medio e renderlo più forte e indipendente alla tastiera; questa pratica era piuttosto comune all’epoca ma per Schumann qualcosa andò storto giungendo alla completa perdita di tutto l’uso della mano.

Robert potè quindi dedicarsi alla sola composizione.

Clara divenne per Schumann la sua mano perduta. Interprete, mano e cuore mancante al compositore sofferente.

Robert inoltre era affetto da paralisi (forse a causa del mercurio usato per trattare la sifilide) e da maniacalità (curata con ipnosi e magnetismo); in quegli anni comporrà opere di straordinaria bellezza e inquietudine, mostrando l’evidenza clinica secondo cui il delirio e le allucinazioni sono presenti anche nelle fasi fortemente depresse.

Il dubbio diagnostico tra schizofrenia e disturbo bipolare (maniaco depressivo) è incentrato sul ruolo del delirio nelle due categorie.

Il delirio è una errata interpretazione della realtà; il soggetto infatti non riesce a dare una corretta lettura del mondo che lo circonda ma lo interpreta in funzione di un Io modificato. Al delirio si accompagnano le allucinazioni (percezioni di voci interne o esterne o di immagini). Nella iniziale storia della psichiatria, il delirio è stato legato alla schizofrenia, all’Io diviso, frammentato ma successivamente si è scoperto che anche nella melancolia e maniacalità vive questa condizione.

Per quanto concerne Schumann, quindi, è possibili ipotizzare un inquadramento dei suoi sintomi nelle alternanze maniacali e depressive e che in tale quadro si innesti la demenza propria della paralisi progressiva. Schumann quindi, soffriva molto probabilmente di una condizione a doppia diagnosi “disturbo bipolare e infezione luetica cerebrale”.

La nostra fortuna -tuttavia- è stata che Schumann non perdesse mai l’impulso vitale che ci ha regalato il genio che – nonostante tutto- ha saputo essere.

“Finisce bene quel che comincia male”.

Dott.ssa Giusy Di Maio.

Scrittura folle, Psicoanalisi e Vivaldi.

Louis Wolfson è uno scrittore statunitense di lingua francese. Nato nel 1931 ebbe una diagnosi di schizofrenia e fu sottoposto a ripetuti ricoveri e interminabili elettroshock, per volere della madre.

Louis è un ebreo americano che mal sopporta la propria lingua “idioma inglese” ; il ragazzo giunge ad esprimere il rifiuto per la propria madre attraverso il rifiuto della lingua materna e di tutta l’impalcatura lessicale utilizzata a chi gli è intorno.

Wolfson rifiuta di subire l’abuso dell’intrusione delle parole data dalla lingua materna, l’inglese, e si difende da questa intrusione tappandosi le orecchie, distraendosi o camminando per strada a New York ascoltando delle cuffiette collegate ad un magnetofono.

Louis studia le lingue straniere: tedesco, ebraico, russo, sognando di instaurare una sorta di comunicazione con la madre che in quanto ebrea della Bielorussia, parlava fin da bambina il russo.

Il passo interessante che il Nostro compie, è studiare il francese da autodidatta. Nel francese Louis sperimenta l’Altro; Loius è un Altro. Louis è e diventa “lo studente di lingue schizofrenico”.

Le Schizo et les langues è un libro in francese (il francese di Wolfson), scritto con una ortografia riformulata in cui il nostro studente di lingue compie un procedimento sulle parole. Louis crea neologismi, riformula i termini, unisce quasi bulimicamente tutte le lingue che conosce, smonta e rimonta le parole per allontanarsi dalla lingua materna.

L’udito è un senso che non ha possibilità di essere chiuso verso ciò che non è voluto, spiacevole, doloroso. Quello che viene vissuto e arriva prepotentemente e violentemente come un frammento sonoro che induce dispiacere (voce, rumore suono o silenzio),sarà interpretato come effetto sonoro di un desiderio negativo.

La Aulagnier riprendendo l’insegnamento di Lacan pone pertanto l’accento al ruolo della voce nei deliri di persecuzione e nella schizofrenia.

Di fronte a un suono, a una voce che è originariamente associata a una sofferenza, non vi è via di fuga. La psicosi mostra infatti spesso, come il suono produce una percezione da cui non ci si può difendere, aprendo nel corpo un varco che non si può chiudere.

Un varco in cui transita senza sosta la voce dell’Altro.

La voce da cui Wolfson voleva difendersi.

Stasera Vivaldi e la sua Follia ci accompagnano. Credo che questo pezzo sia un chiaro esempio in cui “mai il significante fu più significato”, come dico.

Almeno per me; almeno per le mie vicende di vita.

“Finisce bene quel che comincia male”.

Dott.ssa Giusy Di Maio.