Eccoci qui.. siamo entrati in quel periodo dell’anno in cui l’ossessione per il corpo e la sua (presunta) buona forma, raggiunge picchi estremi. La prova costume, come tutti amano definirla, sta diventando un qualcosa di così invadente tanto da diventare quasi una nuova epidemia tra i giovani e meno giovani. Perché giudichiamo costantemente il corpo dell’altro? Cosa ci spinge a dire che un corpo è più meritevole di un altro? Cosa ci dice la psicologia, in merito?
L’effetto alone è molto frequente e indica quella tendenza delle persone a lasciarsi guidare, nel giudicare una persona, da un’impressione generale, oppure da tratti, aspetti o da atteggiamenti che non hanno un rapporto diretto con la valutazione che si deve fare.
Sapendo, ad esempio, qualcosa di positivo o negativo di una persona, si tende a pensare che la stessa persona abbia anche altre caratteristiche buone o cattive.
L’effetto alone agisce i entrambi i sensi. Quindi può riguardare sia gli aspetti positivi che negativi di una persona.
Ad esempio: se qualcuno vi chiedesse se a Gandhi piacessero tutti gli animali, la maggior parte di voi risponderebbe probabilmente di si (anche se non siete certi al cento per cento della veridicità della nostra affermazione).
L’effetto alone, in questo caso, ci induce a credere erroneamente che ad una persona notoriamente buona come Gandhi, siano piaciuti tutti gli animali, nessuno escluso.
L’effetto alone è spesso osservabile nelle scuole e può condizionare erroneamente il giudizio degli insegnanti sui propri alunni.
Può capitare che ad un ragazzo, per qualche motivo etichettato come turbolento, iperattivo o scostumato, venga attribuito da un insegnante anche la qualità del bugiardo, anche se non lo ha mai colto realmente a mentire. L’insegnante preso dall’effetto alone, tenderà a pensare che oltre agli altri difetti, abbia pure quello di essere un bugiardo. E questa idea verrà confermata dal fatto che comincerà a sorvegliarlo di più, fin quando non scoverà qualche piccola bugia che confermerà la sua idea.
Di contro, sempre in un contesto scolastico, il ragazzo apparentemente educato e tranquillo, beneficerà del lato positivo dell’effetto alone. Infatti, questi potrebbe anche mentire e imbrogliare sui compiti, più del compagno turbolento, ma non avendo gli occhi addosso dell’insegnante, può agire indisturbato e risultare sempre il preferito.
Sentirsi appellare come persone intelligenti, simpatiche e brillanti, comporta che inevitabilmente anche noi cominciamo a pensare le medesime cose. Nell’ambito della psicologia questo fenomeno è stato a lungo studiato, fino a rintracciare il suo effetto anche nel campo scolastico. Ciò che gli psicologi sociali hanno notato, è che ad esempio quando gli studenti si sentono minacciati da stereotipi negativi sulla loro capacità scolastica (ad esempio le studentesse a cui viene continuamente ripetuto di non essere brave in matematica o nelle materie scientifiche), questi potrebbero disidentificarsi con tali campi di studio e invece di lottare contro i pregiudizi, finire per dirigere la loro attenzione altrove.
Salvo specificazioni, fonte immagine “Google”.
Nella
descrizione del sé riflesso, il sociologo Charles Cooley,
ha proposto il concetto di rispecchiamento indicando con
ciò che il modo con cui le persone pensano di essere percepite
dagli altri, viene usato come una sorta di specchio per percepire se
stessi (pertanto se dicono di me che sono simpatico, lo sarò per
forza!). Il sociologo George Herbert Mead ha
approfondito questa nozione evidenziando invece come non sia tanto
importante come gli altri ci vedono, quanto come immaginiamo ci
vedano (non è tanto importante che gli altri dicano che io sono
simpatico, quanto che io penso che gli altri pensino che io
sia simpatico).
Questi studi hanno poi approfondito un ulteriore concetto che è invece legato all’immagine sproporzionata del sé (autoenfatizzazione), che si ritrova maggiormente nelle culture occidentali. Shinobu Kitayama (1996) ha rilevato che i Giapponesi che visitano il Nord America, sono colpiti dalle parole di encomio scambiate tra amici. Quando infatti Kitayama e colleghi hanno chiesto alle persone americane, a quando risalissero gli ultimi complimenti ricevuti, la risposta era un giorno. In Giappone invece, dove i rapporti sociali tendono ad attribuire minor merito ai singoli, la risposta era di quattro giorni.
Per le persone appartenenti alla cultura occidentale, prevale l’individualismo (viene pertanto data priorità ai propri obiettivi a scapito di quelli del gruppo e la propria identità è definita maggiormente in termini di attributi personali piuttosto che di identificazioni di gruppo). Per le culture orientali invece, la definizione di “chi sono” passa maggiormente attraverso il proprio gruppo sociale di appartenenza; diviene pertanto importante ciò che la mia casta, famiglia o gruppo religioso di appartenenza dice di me.
Gli studi sulle differenze culturali, sono un potente antidoto contro il pregiudizio che spesso dilaga. Non possiamo pensare di applicare il nostro modo di pensare e agire (cultura occidentale) a tutte le culture esistenti, proprio perchè non si tratta di un modello univoco e infallibile. Quello che per un italiano può sembrare ovvio e banale, non necessariamente lo sarà per un indiano. Ciò che però bisogna rimarcare è che questa “differenza” non è insita nella persona stessa (diventa inutile scagliarsi contro il singolo) quanto in una intera cultura di provenienza.
Anche in questo caso conoscere (senza giudicare) le differenze, può aiutarci ad apprezzare maggiormente le diverse specificità.