
Ieri ero intenta a portare avanti una gradevole conversazione che d’improvviso si era spostata sulla “terra di mezzo” e sulle sue possibili implicazioni psicologiche.
Ringrazio il poveretto per avermi riportato alla memoria la storia di Daniel
Daniel e la sua terra di mezzo.
Daniel arriva in studio su invio del Tribunale dei Minori in seguito al divorzio – per nulla consensuale- che i genitori stanno portando, in qualche modo, avanti.
Daniel è un ragazzino di 15 anni, è magrissimo quasi evanescente, porta degli occhialoni spessi che gli coprono gran parte dell’ovale e grigiastro viso; ha i capelli nerissimi e sottili, indossa una maglietta a mezze maniche bianca e un bermuda color cammello; tutto rimanda l’immagine del “sottile” e dell’evanescente. Daniel porta un pesantissimo orologio al polso destro (unico elemento che sembra conferire peso a questa leggera figura), entra e si siede.
La postura del ragazzino è molto chiusa e rimanda imbarazzo e vergogna; quando Daniel si siede tiene lo sguardo basso e comincia a tirare con fare molto aggressivo e veloce, le pellicine intorno alle cortissime unghie. Dalle pochissime cuticole rimaste esce un po’ di sangue “Uff… ancora.. vabbè” dice Daniel, mentre lecca il suo stesso sangue.
Daniel sa il motivo degli incontri con la psicoterapeuta e la psicologa ed è consapevole della sua situazione familiare. Il ragazzino è figlio di madre ucraina e padre pugliese; il nucleo familiare si è spostato da un piccolo paese della provincia per andare nella “grande città”, in seguito a un lavoro -per una grossa azienda del territorio campano- trovato dal padre, anni fa. Daniel è infatti cresciuto a Napoli.
La madre di Daniel è più giovane del marito; è arrivata in Italia anni fa per studiare scienze infermieristiche e non ha avuto difficoltà a trovare lavoro come infermiera. Il nucleo familiare è misto e inizialmente sembravano non esserci problemi di integrazione tra le diverse culture.
Olena è una donna che riempie lo spazio circostante in maniera ferma e decisa; è una donna di 50 anni che si presenta come curata (senza utilizzare inutili orpelli), è pulita, precisa negli orari delle visite e risponde in maniera ferma a ogni domanda.
Pietro, il padre di Daniel, è un uomo di 65 anni. Il signore arriva sempre in ritardo agli appuntamenti e sempre sotto sollecitazione della psicologa che deve chiamare ogni volta “ricordando” l’appuntamento. Pietro è goffo, si tratta di un ondeggiante uomo in vistoso sovrappeso; si veste in maniera del tutto casuale e anche se fa caldo porta dei pantaloni di velluto a coste, marroni, e una camicia in misto lana a quadri grigia e verde. Pietro suda, ha il viso rosso e sbuffa essendo com’è in vistosa fame d’aria. L’uomo arriva sempre in ritardo pertanto entra sempre sbattendo la porta simulando una sorta di corsetta e si getta a peso morto sulla sedia.
Per un errore di convocazione fatto, il primo incontro sarà con tutta la famiglia.
La prima problematica ci appare in tutta la sua nauseante presenza: Pietro beve.
L’uomo (come Olena dirà), è sempre stato un appassionato del buon bere e buon mangiare, non è mai stato un uomo bellissimo ma quando lei era arrivata a Bari, le aveva fatto una corte spudorata e conoscendolo si era pian piano affezionata, poi innamorata. Nel suo paese di origine, dice Olena, gli uomini non fanno la corte alle donne in maniera così spacciata e.. mettici il mare e il buon mangiare, si è ritrovata sposata e madre.
Olena vuole molto bene a Daniel, ma non capisce questo figlio che sembra sempre perso in chissà quale mondo
“So che la nostra situazione è difficile – dice la donna con una leggera ed elegante voce che strizza l’occhio all’accento dell’est- ma non puoi stare sempre chiuso nella stanza o nella tua testa! Daniel ha visto tante volte il padre che mi prendeva a botte e io mi sento in colpa ma vorrei tanto che lui si rapporti di più con il mondo là fuori. Ho paura che se resta chiuso nella sua testa, poi da grande fa come il padre e beve”.
Spostiamoci su Daniel.
Il ragazzino -come spesso accade con gli adolescenti- sembra impenetrabile. Daniel mette infatti il suo interlocutore alla prova, sfidandolo con il suo silenzio e lo sguardo basso che fa solo percepire un ragazzino smarrito.
Il silenzio e lo sguardo basso pesano più di mille offese e/o aggressioni.
Le sedute si riempiono di assordanti silenzi; il ticchettio dell’orologio scandisce interminabili minuti di vuoto. I respiri e lo schioccare delle unghie tirate via da Daniel restano per molto tempo l’unica compagnia nelle calde giornate.
L’impasse , la stagnazione delle sedute viene interrotta in seguito alla somministrazione di reattivi grafici, nello specifico: il disegno della famiglia, della figura umana e della persona sotto la pioggia (un reattivo grafico che consente di valutare la percezione di sé e i meccanismi di difesa messi in atto, in una situazione stressante).
Daniel parla della sua difficoltà a percepirsi come corpo esistente in un ambiente; dice di sentirsi diviso tra qui e altrove; dice di immaginare scenari paralleli e mondi paralleli in cui il suo corpo non ha questa consistenza qui, ma ha altra forma e forza (dice di immaginarsi come un lupo antropomorfo); non è cattivo, Daniel, nel suo immaginario e si dedica con minuziosa descrizione di questa terra parallela che tanto lo affascina.
La terra di mezzo, un solco tra qui e lì; una terra capovolta, diversa irreale ma paradossalmente vera; un terra che non mi chiede di essere ma in cui posso esistere per quel che sono.
Daniel urla con forza l’esigenza di doversi sperimentare ancora come bambino bisognoso di cure e al contempo come adulto forte, un lupo solitario che non ha alcun bisogno se non quello di se stesso.
Daniel e il paradosso della terra di confine che appare come il solco di un fiume a tratti secco che lascia emergere ogni detrito, a tratti pieno, burrascoso e straripante.. pronto ad allagare ogni confine circostante.
Sarà compito nostro supportare e aiutare Daniel nel suo percorso di crescita e di comprensione/ integrazione dei propri (nuovi) confini corporei e psicologici; confini che gradatamente lo staccheranno dall’infanzia per portarlo lentamente verso l’età adulta, un’età in cui non necessariamente l’idea della terra di mezzo va abbandonata, ma un’età in cui la terra di mezzo può essere uno spazio mentale privato e personale in cui (ri)tornare quando il mondo là fuori diventa un “po’ troppo” e il lupo.. ha bisogno di riposo sulle sponde di un fiume che (s)corre liberamente.
“Finisce bene quel che comincia male”.
Dott.ssa Giusy Di Maio.