Anna O., è certamente l’isterica più famosa al mondo…
Queste parole, tuttavia, non rendono giustizia a Bertha Pappenheim (vero nome della ragazza), la ventunenne a cui la psicoanalisi deve molto.
Conosciamo insieme qualcosa sulla vita della ragazza che “ad una certa ora della giornata, al tramonto, si rasserenava e andando in uno stato di sopore, trovava -attraverso l’uso della parola- ordine e senso ai suoi bizzarri sintomi”.
Guardiamo il tramonto insieme ad Anna, colei che capì l’importanza della “talking cure”.
Dott.ssa Giusy Di Maio, Ordine Degli Psicologi della Regione Campania, matr. 9767
Particolare “La pudicizia”, 1752, insieme al “Cristo Velato” e il “Disinganno”, forma un trittico nella Cappella di Sansevero (Napoli). L’opera è di Antonio Corradini. Non servono descrizioni: la Cappella di Sansevero va vista.
Si tratta della tendenza a conservare il possesso della propria intimità difendendola dall’intrusione (possibile) dell’altro.
Per costituirsi, il pudore, ha bisogno di tre condizioni: il corpo, l’altro (da intendere sia come presenza reale che come presenza interiorizzata) e la dialettica del guardare/essere guardati.
Le tre condizioni appena citate sono state sottolineate da Hegel:
per il quale il pudore è “l’inizio dell’ira contro qualcosa che non deve essere. L’uomo che diventa cosciente della sua destinazione superiore, della sua essenza spirituale, non può non considerare inadeguato quel che è solo animalesco, e non può non sforzarsi di nascondere quelle parti del suo corpo che servono solo a funzioni animali e non hanno né una diretta determinazione spirituale, né un’espressione spirituale” (1836-1838, p.981)
Il tema è poi ripreso da Sartre che considera il pudore una difesa dallo sguardo altrui che ci deruba dalla nostra soggettività rendendoci così oggetto del suo sguardo (ciò appare legato, poi, alla vergogna).
Legandosi a queste considerazioni, Callieri e De Vincentiis sottolineano l’ambiguità insita nel pudore; il pudore -infatti- da un lato costituisce una difesa della propria soggettività dalla sempre possibile oggettivazione che lo sguardo dell’altro può promuovere, ma dall’altro lato può nascondere un rifiuto della propria corporeità con il risolvimento della propria soggettività nella dimensione spirituale (così come da definizione di Hegel) a cui può aggiungersi una difesa eccessiva dal prossimo portando a una incrinatura della dimensione ontologica che la fenomenologia indica come “coesistenza”.
Il pudore diviene così il sintomo di una patologia in particolare, quella fobica dove si ha uno spostamento dell’angoscia sull’oggetto (o situazione sessuale) che diventano il riferimento costante di una lotta controfobica e, nella nevrosi ossessiva, dove la difesa da pulsioni sadico-anali porta all’attuazione di condotte rigide, perfezionistiche, feroci espresse con conformismo estremo e ipermoralismo.
Trasgressione e pudore sono presenti nell’isteria o ancora nella psicopatia così come nella mania dove si riscontra una perdita radicale di intimità.
Chi è Anna O? E che cos’è la cura parlata, la “talking cure”?.
Alla scoperta del caso più famoso degli studi sull’isteria.
Storia, quella di Anna, che ha consentito di mettere a punto la tecnica della cura parlata così come di dare inizio alla considerazione degli elementi legati al transfert e al controtransfert.
Il viaggio di oggi vuole presentarti l’origine dell’isteria andando a ripercorrere -insieme- un po’ la storia di una psicopatologia considerata (inizialmente) come una prerogativa prettamente femminile.
Dall’antica Grecia fino a Freud, che insieme a Breuer, pubblica nel 1895, studi sull’isteria.
“Gli stati di possessione demoniaca corrispondono alle nostre nevrosi.”
Sigmund Freud
Freud fu molto incuriosito e affascinato da quei fenomeni comportamentali e psichici inspiegabili (per la sua epoca). Già durante i suoi primi studi, quando era ancora allievo di Charcot era riuscito a risolvere uno storico equivoco, per quel periodo, legato al fatto che venivano confuse le crisi convulsive e le conversioni isteriche, con l’epilessia.
Freud sempre in quel periodo e anche successivamente restò impressionato dalle analogie della sintomatologia delle pazienti isteriche con i comportamenti dei cosiddetti indemoniati del Medioevo.
Edvard-Munch-Sick-mood-at-sunset.-Despair-1892
Il suo interesse culminò nella scrittura di un saggio nel 1922 “Una nevrosi demoniaca nel secolo decimosettimo”. In questo saggio analizzava e interpretava alcuni scritti (“Trophaeum Mariano-Cellense“) e documenti, provenienti dal santuario di Mariazell, in Carinzia, che raccontavano di un pittore bavarese di nome Christoph Heitzmann.
Siamo nel 1677 e negli scritti si legge che il pittore Christoph, approdato nel santuario di Mariazell con forti crisi convulsive, confessa poi al parroco che, nove anni prima, andando molto male il suo lavoro e la sua ispirazione artistica, fu tentato ben nove dal Maligno. Alla fine aveva acconsentito ad “appartenergli con il corpo e con l’anima quando fossero trascorsi nove anni”.
Freud scrive che i demoni: ” sono soltanto desideri ripudiati, che derivano da moti pulsionali, per lo più sessuali, respinti e rimossi dalla coscienza. Secondo una precisa fantasia paranoica, la parte inconscia cattiva veniva scissa e proiettata sull’immagine del diavolo, che diventava poi un persecutore”.
“Non dobbiamo stupirci se le nevrosi di queste epoche passate si presentano sotto vesti demoniache, mentre quelle della nostra epoca psicologica assumono sembianze ipocondriache travestendosi da malattie organiche”…
Sigmund Freud
Dopo un’attenta analisi Freud concluse che probabilmente Christoph soffriva di melanconia (depressione maggiore) e non riusciva, a causa della sua malattia, a continuare a lavorare e a vivere nel modo in cui era abituato, precedentemente alle sue prime crisi (che coincidevano con la morte di suo padre).
Insomma non era il demonio a tormentare il pittore, ma come chiosò Freud: “Christoph Heitzmann era solo un povero diavolo…”
Oggi 29 Giugno ricorre la festa dei Santi Pietro e Paolo, il che riporta la nostra attenzione sul tarantismo.
Voglio condividere con voi la storia di una tarantata: Maria di Nardò.
Quando De Martino e la sua equipe giunsero presso la casa di Maria, trovarono il seguente scenario: per delimitare lo scenario del rito (il perimetro cerimoniale), c’era un lenzuolo bianco disteso a terra e in un angolo un cestino per la raccolta delle offerte e le immagini di San Pietro e San Paolo.
In questo perimetro si muoveva la tarantata. La donna era vestita parimenti di bianco, la vita stretta da una fascia e i capelli nerissimi sciolti sul viso olivastro su cui si adagiavano occhi ora chiusi ora socchiusi; i tratti del volto erano immobili e duri.
Ad accompagnare la terapia sonora vi erano un chitarrista, un fisarmonicista e un tamburellista.
Maria aveva 29 anni e ripeteva regolarmente un ciclo coreutico definitivo, diviso in una parte a terra e una in piedi; il ciclo terminava sempre con una caduta a terra che segnava una breve pausa/riposo. Da questo intervallo in cui l’orchestrina taceva, le figure si svolgevano nel seguente modo:
L’orchestrina attaccava la tarantella e la tarantata (che giaceva supina al suolo), cominciava a sentire i suoni muovendo la testa a tempo (a destra e sinistra), successivamente – quasi come l’onda sonora si propagasse lungo tutto il corpo- cominciava a strisciare sul dorso, spingendosi con le gambe puntando i talloni al suolo; la testa continuava a battere violentemente il tempo e lo stesso movimento delle gambe partecipava al ritmo della tarantella.
La tarantata compiva poi, allargando le braccia, qualche giro del perimetro cerimoniale poi improvvisamente si rovesciava bocconi, le gambe divaricate e immobili le braccia piegate e la testa sempre in movimento ritmico.
Questa danza mimava un essere incapace di stare in piedi; un essere strisciante e aderente al suolo: la taranta.
La danzatrice viveva quindi la sua identificazione con la taranta, danzava con l’animale fino a diventare la bestia danzante.
A questa identificazione seguiva un distacco: la tarantata si alzava rapidamente in piedi percorrendo il perimetro cerimoniale, facendo alcuni salti e formando alcune figure con un fazzoletto colorato che aveva nelle mani (la cromia del fazzoletto era diverso per ogni tarantata/tarantato; il colore infatti aveva un significato specifico).
Anche in questa fase la tarantata osservava rigorosamente il ritmo: i piedi battevano il ritmo sempre 50 volte ogni dieci secondi. Dopo una durata variabile di tempo (non oltre il quarto d’ora) il ciclo coreutico volgeva al termine.
La donna seguiva il ritmo con sempre meno “attenzione”, la stabilità diventava incertezza e tutto si concludeva con una grande caduta al suolo, come per vertigine. Le assistenti prendevano la tarantata per evitare danni durante la caduta e l’orchestrina smetteva di suonare; alla tarantata veniva portata dell’acqua e dopo circa 10 minuti l’intero ciclo ripartiva.
Il corpo diviene pertanto corpo strumento, corpo melodico, corpo taranta; corpo che – anche qui- si presenta come un mezzo attraverso cui sentire un disagio psichico che durante il resto dell’anno si tiene celato, nascosto..
Il disagio vive per un giorno.. il suo giorno.
Circa al minuto 4:55 comincia il ciclo coreutico di Maria.
(Non tutti, attualmente, rivivono con piacere la storia del Tarantismo. Per molti anni le tradizioni del sud Italia sono state indicate come qualcosa di inferiore, osceno, scabroso. I termini con cui queste tradizioni sono state spesso tacciate, tendenzialmente sono poco carini e per nulla simpatici. La nostra storia, le nostre radici, non si nascondono non si recidono con cesoie magari arrugginite che creano danni alle radici stesse.
Le radici si proteggono.
Le radici si ascoltano, si comprendono poi magari non si accettano, ma già concedere loro uno spazio in cui poter essere pensate, dà loro una zona per una metabolizzazione che vuol dire essere capaci di aver integrato la propria storia personale.
F. urlava a gran voce il desiderio – che diventava quasi un bisogno urlato in maniera sorda ma incessante- di voler scegliere del proprio corpo, della propria vita.
F. è una bellissima donna di 35 anni, appare sicura e ha lo sguardo sincero e limpido; i suoi occhi sanno di vita conquistata passo dopo passo, senza chiedere niente a nessuno.
La donna ha chiesto dello psicologo perchè tormentata dalle richieste di chi a 35 anni la vuole madre e moglie.
“Non fanno altro che dirmi che devo muovermi.. che è tardi.. che sono vecchia.. che sarò la nonna dei miei bambini.. E quando rispondo che figli non ne voglio.. mi dicono che sono una persona orribile! Ma la smettono di fare i conti con il mio utero?”
F., ha urlato così tanto il bisogno di vivere la propria vita da aver perso la voce.
F., ha inizialmente mostrato una sempre crescente difficoltà a pronunciare alcune parole (ad esempio sediolino, tavolino) fino a giungere a una afasia sempre più presente e forte.
Le prime parole che F., ha smesso di pronunciare rimandavano in termini quasi onomatopeici o per similarità acustica (o desinenza) al termine bambino: tavol-ino/ bamb-ino… sediol-ino/bamb-ino.
Sembrava esserci stato uno scivolamento del significato dal simbolico, sul piano del reale creando una sostituzione dove nell’impossibilità di attestare la mancanza di un bambino, F., ha cominciato lentamente ad eliminare termini che ad esso, per linee associative, rimandassero.
Poco alla volta F., ha ridotto sempre più il suo vocabolario convertendo nel somatico il proprio disagio psichico
“Quando smetteranno di dirmi quel che devo essere?”.
“Io voglio essere come i bambini; magari se torno una bambina tutti torneranno ad amarmi”
“I bambini non parlano”.
F. sta seguendo un percorso di riabilitazione psichiatrica che prevede la centralità, oltre alla cura farmacologica, della psicoterapia familiare. Tutti i membri della sua famiglia (attivazione della rete di supporto familiare), sono membri attivi del percorso di riabilitazione di F.
Quando i membri di una famiglia si mettono tutti in gioco, diventando membri di una squadra che procede tutta verso lo stesso obiettivo, i risultati riescono ad essere non solo più veloci, ma anche duraturi.