L’introiezione degli insegnamenti e dei valori morali, delle figure genitoriali e culturali è fondamentale per lo sviluppo della personalità.
Un’ immagine di sé coerente diventa essenziale per formazione di una personalità sana.
Lacan, con la sua teoria dello Stadio allo Specchio, teorizza che proprio quella “immagine” può portare ala formazione del Moi (Io). Esso si forma dal nostro rapporto con gli altri. Il bambino acquisisce, con lo Stadio allo Specchio, una padronanza immaginaria di se stesso, una forma unitaria.
Si passa dall’estraneità al riconoscimento. Inizialmente l’immagine dal bambino viene percepita come fuori da sé. L’immagine di sé viene quindi portata dall’Altro. Bisogna che il bambino venga investito dell’immagine dell’Altro per identificarsi. Egli si identifica all’Altro simile, attraverso l’immagine speculare di questi.
La cosa importante che sottolinea Lacan, è che è proprio l’Altro a ratificare l’immagine del bambino allo specchio. Il bambino è quindi identificato ad una marca simbolica.
E’ possibile pensare all’inconscio partendo dal discorso musicale?
Da Freud in poi sentiremo parlare di inconscio non intendendolo come in precedenza era stato fatto ad esempio, dagli artisti romantici, dove la parola era usata per indicare l’interiorità oscura, l’inquietudine, la follia o l’irrazionalità.
Senza indagare troppo la questione “prima di Freud”, è con Sigmund stesso che l’inconscio viene pensato non più a partire dai suoi contenuti, ma dalle sue qualità formali, dal suo modo di funzionare, dalle sue formazioni. Ne deriva che la realtà dell’inconscio si manifesta sia nelle “cose da decifrare”, che in quelle che resistono a tale decifrazione; si manifesta soprattutto nelle dimenticanze, nel ricordo di quel che non è esistito, nella coazione a ripetere, nelle cose che non si riescono a pensare e dire, negli atti mancati.
L’inconscio diventa posto vuoto, cesura tra ciò che potrebbe e (forse?) non è; inconscio senza “rappresentazione” in quanto non è un contenuto o una data funzione localizzabile nel cervello, in un luogo stabile e preciso.
Jacques Lacan comincerà a ripensare all’inconscio guardando al linguaggio musicale.
Prima però di Lacan uno dei primi ad affrontare il rapporto “musica e psicoanalisi” fu Theodor Reik; ciò che Reik fece fu comprendere l’analogia tra ascolto musicale e ascolto psicoanalitico.
Reik introdusse infatti l’idea di un ascolto “il terzo orecchio” orientato non al contenuto e significati ma alle forme espressive cui ricorre il paziente durante il racconto. Diventano importanti ritmi, silenzi, prosodia, pause, tono, tutti elementi che ritroviamo nel discorso musicale. L’analista così facendo riesce a cogliere gli “infrasuoni del discorso inconscio” andando ben oltre il mondo apparente fatto di suoni che possono solo apparire consonanti, celando invece dissonanze o accordi non ben armonizzati.
Lacan riprenderà la funzione del suono dello shofar (corno ebraico). Generalmente si tratta di un corno di ariete che viene usato in momenti di raccoglimento, fede, pentimento dove offre un sottofondo sonoro particolarmente adatto a rendere sentimenti di commozione (di tale strumento si parla anche nella Bibbia).
Quando Lacan pensa al suono di tale strumento (soprattutto alla luce di come viene presentato e della funzione che ha nella Bibbia stessa), si chiede se si tratti di un semplice strumento o se, invece, non sia una voce, un sostituto della parola che reclama (in tal caso, obbedienza).
Se immaginiamo una musica, una melodia, percepiamo una sequenza di suoni “diciamo” armonica (il discorso sarebbe molto più ampio specie alla luce di moderni generi musicali non del tutto consonanti); di una melodia riconosco un ordine, una struttura e un codice in sostanza: un discorso.
Un discorso che può dire senza dire, analogamente a quanto un suono musicale può fare presentandosi come significante di qualcosa che non c’è (non in maniera visibile). Anche l’inconscio può presentarsi come costituito da qualcosa che “sta al posto di”.
Il significante prende il sopravvento sul significato e così come in una composizione artistica non mi fermo al suo significato immediato, scavo e scovo nell’inconscio tracce di significazione nascoste, celate tra le mille note raggruppate che creano trilli, acciaccature (in musica piccola nota che vediamo attaccata alla nota principale che suonata prima di, toglie una frazione di durata molto breve alla nota principale), abbellimenti del nostro mondo interno.
(Gli abbellimenti sono – brevemente- in musica note o gruppi di note accessorie, ornamentali, che sono inserite tra le note principali di una melodia per dare maggiore grazia al discorso musicale).
Niente piccola parola che utilizzata come pronome e sostantivo indica “nessuna cosa”; ha lo stesso significato di nulla.
Spesso utilizzato in maniera sbrigativa quando stanchi di dare risposte, spiegazioni e attenzione a chi o cosa non vogliamo, liquidiamo il tutto con un bel “niente”. A ben vedere niente è la parola vuota maggiormente piena che possiamo utilizzare.
Lo psicanalista Jacques Lacan – partendo da Freud- propose la dicotomia parola piena/parola vuota. La parola piena è quella che ha il potere di risolvere le formazioni dell’inconscio, di converso la parola vuota è quella svuotata di questo potere. Secondo Lacan la parola piena consta di 3 caratteristiche (contrapposte ad altrettante 3 caratteristiche che appartengono alla parola vuota).
La parola piena è la parola dell’anamnesi, quella cioè capace di ritornare sulla storia del soggetto; la parola vuota è quella invece che si fissa sull’hic et nunc (qui ed ora) è quindi una parola che fermandosi sull’attuale prescinde dalla storia del soggetto.
La parola è piena quando è intersoggettiva ovvero quando è messa in “relazione” tra due soggetti; la parola è vuota quando è intrasoggettiva ovvero è una parola del monologo interiore, quella che usiamo per parlare con noi stessi.
La parola piena è quella dell’interpretazione; la parola vuota è quella dell’analisi delle resistenze.
In un certo senso quando abbiamo la sensazione di concludere una conversazione con un “niente”, di fatto.. la stiamo aprendo. In maniera inconscia o meno stiamo lanciando un segnale di profondo tutto; stiamo dicendo all’altro e a noi stessi che (ci sarebbe) così tanto da dire, da non riuscir a manipolare il quantitativo di informazioni, di concetti, di sensazioni/sentimenti che piuttosto che andare nel profondo ad indagare questo tutto, preferiamo abbandonarci al “niente”.
Molte delle conversazioni o degli scambi tra persone sono interrotti non per “non comunicabilità” (a tal proposito è interessante l’articolo del mio collega, in merito alla comunicazione), sappiamo infatti che non si può non comunicare.
Comunicandoti il mio niente, ti ho comunicato il mio tutto. Quanto siamo disposti ad andare oltre l’apparenza del nulla per scoprire la pienezza del niente?