Nell’ultimo anno diverse cose sono cambiate nell’assetto psichico delle persone, così come in coloro (che della loro salute mentale), si prendono cura.
Lavorare in tempo di pandemia nell’ambito della prevenzione e del benessere psicologico è quanto mai complesso, difficile e stancante.
A stancare non è la carenza di motivazione, l’interesse, il piacere. Scegli questo percorso per atto di amore (evitiamo quei discorsi vecchi e futili sullo studiare psicologia perchè hai problemi irrisolti, drammi esistenziali o fantasie narcisistiche); possono esserci – come in ogni ambito- persone più o meno mosse da questi punti ma fare un insieme unico, mi sembra un ragionamento euristico che poco ha di concreto.
Penso oggi a l’anno che è stato. Penso al Tribunale dei Minori e alla sospensione delle udienze, per mesi; ai centri di accoglienza per gli immigrati chiusi, agli sportelli di ascolto chiusi, ai centri di riabilitazione chiusi, al personale ridotto e/o licenziato.
Penso a Vittoria (nata Raffaele), alla sua transizione interrotta e alla convivenza forzata, in tempo di covid, con il padre che ne ha approfittato per fare lui la terapia alla figlia – a suon di botte- perchè “meglio un figlio morto che frocio”.
Penso a Monica e Guido, ai loro 4 anni fatti di una gravidanza interminabile, alle loro vite rivoltate come cassetti, da mani indiscrete, e al loro sogno di adottare un bambino interrotto 2 settimane prima della partenza.
Penso a Salvatore che in carenza di supporto psicologico, è ritornato alla droga. Salvatore non c’è più.
Penso ad Anna alle sue paure, alla psicosi puerperale e al terrore sperimentato “voglio uccidere mio figlio”.
Lucia sola in casa con i suoi deliri; fagocitata dalle ombre nere che le impongono di prendere un coltello e tagliarsi per perdere sangue fino a svenire.
Gaia e Maurizio che non hanno potuto portare la loro bambina affetta da una rara sindrome, all’estero.
Francesco, Paola, Luca, Giovanni, Maria, Erica: storie di deliri, DOC, disturbo borderline.. depressione, ansia, panico.
Non sono etichette o diagnosi, sono storie ma sono soprattutto persone.
Hassan, Ismael, Nadir, Aisha, Kalima, Halima, Zaira, Amin.. ai loro immensi occhi neri e scuri. Ai centri di accoglienza chiusi – letteralmente- dalla sera alla mattina. Ai miei colleghi che sono finiti per strada senza la possibilità di preavviso, senza poter trovare un lavoro, senza giustifiche con le mogli o le fidanzate.
A questi ragazzi sopravvissuti al mare e alle mazzate della Libia.
Penso poi a Felice, ristoratore che ha dovuto chiudere e licenziare 12 dipendenti; al suo suicidio tentato per due volte.
Penso poi ad Emanuela e al dubbio lacerante che il marito sia il mostro.. artefice della violenza sessuale usata alle sue bambine.
L’elenco potrebbe continuare.
Queste sono alcune delle persone che in tempo di pandemia, hanno visto la loro vita ridefinita. Sono le stesse persone che insieme a molti colleghi coraggiosi, guardiamo negli occhi ogni giorno.
Alcuni colleghi (donne, in particolare) non sono riuscite a tenere il contraccolpo psicologico della pandemia e hanno abbandonato pazienti e lavoro. Molti colleghi, come me, prestano servizio gratuitamente per il territorio che amano e difendono senza fare chiacchiere ma con i fatti; dimenticati dalle istituzioni, dalla politica (tutta) e dal loro ordine.
So cosa vuol dire pandemia, covid; so cosa vuol dire implicazione psicologica della pandemia, ridefinizione dello spazio corporeo, personale e sociale.
So cosa vuol dire essere stanchi e vedere la stanchezza negli occhi delle persone che ogni giorno ti guardano in attesa di una risposta che – comunque- non potresti e che in ogni modo, non conosci.
La pandemia, insieme ai miei colleghi, la guardo ogni giorno negli occhi e ce la portiamo a casa quando la nostra mente invece che trovare pace, resta invasa dai fantasmi delle richieste, delle storie e delle vite interrotte.
Le nostre, in primis.

“Finisce bene quel che comincia male”.
Dott.ssa Giusy Di Maio