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“Comunque mi manchi”

C’è un momento che arriva sempre, nel lungo processo che si snoda analogamente alla corrente di risacca, quando bisogna sistemare le cose dopo un addio.

Quando arriva l’addio senza ritorno, quello che mette fine alla presenza del corpo, resta sempre qualcosa nel piano reale che attesta la presenza di chi non c’è più.

Resta sempre un oggetto, qualcosa che rimanda al profumo, al calore, alla sensazione dell’esserci, di chi invece non c’è più. Resta quel qualcosa che resiste, per chi rimane, con la stessa funzione di un oggetto transizionale di winnicottiana memoria. Winnicott lo diceva, vi sarà un oggetto (o attività) nella vita dell’infante (un pupazzo, una copertina, un gesto, una tonalità ridondante di voce) che creerà un’aera intermedia di esperienza che consentirà al bambino di comprendere i propri e l’altrui confini corporei, un oggetto che lo aiuterà a capire il me dal non me; un oggetto che lo aiuterà quando sarà solo nel mondo, senza il supporto del caregiver.

Si tratta di un oggetto esterno al bambino che rimanda a quel contatto fusionale avuto con la madre (mentre è -ora- in stato di separazione).

Separarsi, in via definitiva, si situa pertanto come un processo, un percorso -come dicevo- e non di uno stato.

Non sono “in lutto, in separazione, in solitudine”, ma affronto il processo del lutto, della separazione e della solitudine; non mi assesto – in sostanza- sulla condizione dolorosa ma tempo al tempo, la attraverso.

Arriva quindi il momento in cui resti solo e guardi quell’unica cosa rimasta, ad esempio in casa, dell’altro.

L’oggetto ti guarda e tu per tanto tempo lo hai guardato senza conferirgli corpo e sostanza; lo strizzavi leggermente con gli occhi fingendo quasi che non esistesse, come facesse parte dell’ambiente in maniera incastonata e fissa.

Nulla permane, però, in natura nello stato di fissità.

La fissità infatti non è condizione umana (e naturale).

Finisci con l’avvicinarti all’oggetto incriminato che al solo sfiorare il tuo corpo ti fa sentire sfiorire: è quello il momento di accomodarsi di fronte l’oggetto per dirgli chiaramente come stai e come ti senti.

E’ quello il momento più difficile della separazione: relegare nel registro del simbolico, passando per l’immaginario, la cosa che reca con sé ricordi, sentimenti, passioni, anni, idee…

Ma in certi momenti, ti dimentichi pure come ti chiami, figuriamoci a render giustizia ai registri di lacaniana memoria.

Accade allora che l’oggetto va via, riposto in un luogo sicuro che diventa ora casa per lui quasi a sovvertire il legame in cui se prima era l’oggetto a consentire questo passaggio tra il me e il non me situandosi come locus transizionale, ora è il locus che occupa la cosa ad essere fonte di protezione per la cosa in sé.

Il ricordo allora prende il sopravvento incistandosi nella pelle come poro conferito al corpo quando tutto ebbe origine.

“Mi manchi, Ti Amo”

Paroline misere per costruzione ma dallo straordinario potere spaventoso.

Perché fa così paura dire “mi manchi e ti amo?”

“Oh che stai facendo?”

“Aspè.. sto scrivendo il resoconto del colloquio”

“Scrivendo?”

“Eh…”

“Ma scrivi ancora, tu?”

“In che senso? -Rido-“

“Io uso I….”

“Rido ancora fingendo di aver capito ma di fatto, la tecnologia per me resterà un mistero ed essendo pessima a fare i bluff, anzi.. notoriamente incapace, è palese il mio non aver capito”

“Guarda.. io parlo e questo scrive. Minimo sforzo massimo risultato!”

“Ah.. il massimo della ricotta* ho capito”

“Ja.. muoviti. Ci facciamo una pizza?”

“Dipende… cartone in mano, sigaro, birra ghiacciata e gradino sul mare?”

“Nooo… ristorante comodamente seduti con musica live”

“Madonna e come siamo diversi -rido- Non fa per me, lo sai”

“A domani”

“Ciao!”

Comunque: mi manchi.

*Gergo partenopeo -a dire il vero- anche un po’ volgare, ma nell’informalità tra amici si usa molto

Dott.ssa Giusy Di Maio

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La memoria del ricordo: pensieri Psy.

Avevo la convinzione di riuscire a metter insieme parole che fossero di senso compiuto; speravo -dico invece ora- , di riuscire a rendere in parole scritte l’emozione e il sentimento -doloroso- della perdita.

Mi rendo conto, invece, che su (e di) alcuni sentimenti non ci sono dissertazioni che tengano.

Il sentimento puro persiste nella sua accezione più piena, viva e dolorosa anche quando la carne che lo accompagnava, non c’è più.

E quello resta forse il problema: c’è carne che resta e carne che va e quella che resta, cerca di attuare tutta una serie di strategie volte alla metabolizzazione a al superamento (difficile ma possibile), di un lutto.

Ho recentemente invidiato una persona al supermercato perché stava ancora avendo quel che io, non potevo più.

L’invidia è durata trenta secondi perché poi è subentrata una dolce malinconia e un sorriso leggero, quasi da ebete, che mi ha accompagnata mentre sceglievo le spezie.

Gabriel Garcìa Marquez diceva “La memoria del cuore elimina i cattivi ricordi e magnifica quelli buoni, e grazie a questo artificio , siamo in grado di superare il passato”.

Non dimenticherò mai quella telefonata alle 2 del mattino; non dimenticherò mai la strana agitazione di quel giorno e tutti i lunghissimi – seguenti- venerdì in cui non ho chiuso occhio lasciandoli invece sgranati, nella luce del buio.

Il pensiero di un saluto che potevo fare e che poi ho rimandato “tanto passo domani”, non potendo sapere che “domani” non sarebbe stato possibile.

Ho smesso di rimandare, nei sentimenti; così come non ho più creduto a chi fa mille giri e trova mille sovrastrutture per viver(si) qualcosa.

Qualcosa è adesso.

Ah.. Un mese dopo… La fuga a Berlino, la città sospesa.. un po’.. come lo ero, io.

Immagini Personali.

“Finisce bene quel che comincia male”.

Dott.ssa Giusy Di Maio.

Lutto.

Studiando -negli adulti- il lutto normale e anormale, la Klein capì che la scomparsa di un oggetto amato (che rappresenta sempre i genitori o i fratelli) risveglia i conflitti della posizione depressiva.

Il soggetto perde sia l’oggetto buono esterno che il senso di sicurezza che questo gli dava (cui si aggiunge l’odio per averlo abbandonato); così oltre al cordoglio per la perdita dell’oggetto reale (esterno), si aggiunge la disperazione per aver perduto gli oggetti buoni del mondo interno (analogamente al bambino nella posizione depressiva).

Si riattivano così le antiche paure paranoidi e depressive (un po’ come accade in chi incolpa in modo paranoide, ad esempio, i medici per aver causato la morte del caro).

Possono poi essere messe in atto difese maniacali (inconscio disprezzo), ma tali difese rendono più acuto il senso di colpa e più ardua l’impresa di ricostruire – nella propria mente- la persona perduta, come oggetto interno buono, con l’effetto di aumentare il dolore che si prova e di rallentare, inoltre, il lavoro del lutto.

Secondo Freud il lavoro del lutto consiste nell’esame di realtà (il soggetto scopre e riscopre che la persona amata è scomparsa dal mondo esterno).

Per la Klein l’esame di realtà non è solo quanto esposto da Freud, ma questo è anche in relazione con il proprio mondo interiore e allo stato in cui si trovano gli oggetti interni originari (con la quale era identificata la persona amata che si è perduta). Fa quindi parte del lutto, superare la regressione a sentimenti paranoidi e a difese maniacali, finché il proprio mondo interiore sia ricostruito e reintegrato.

Se la persona non era stata capace di superare le angosce della posizione depressiva, piò non essere capace di elaborare il lavoro del lutto, con il conseguente insorgere del lutto anormale e della malattia mentale.

La posizione depressiva si riattiva nel lutto normale e anormale e negli stati maniaco depressivi.

Pertanto:

Nel lutto normale: viene rivissuta la posizione depressiva e viene superata con meccanismi analoghi a quelli usati dall’Io dell’infanzia. Il soggetto reinsedia dentro di sé l’oggetto d’amore realmente perduto, ma al tempo stesso, anche i primi oggetti d’amore (ovvero i genitori buoni), che al momento della perdita reale, ha sentito in pericolo di perdere. Reinsediando i genitori e la persona venuta a mancare, e ricostruendo il proprio mondo interiore, il soggetto supera il cordoglio e riacquista il senso di sicurezza.

Lutto anormale e stati maniaco depressivi: hanno i comune che nella primissima infanzia non è stato consolidato l’oggetto interno buono tanto da non sentirsi, il bambino, sicuro nel suo mondo interiore. La posizione depressiva infantile, non è mai stata superata.

“Finisce bene quel che comincia male”.

Dott.ssa Giusy Di Maio.

Tra follia e creazione artistica: Robert Schumann.

La storia che oggi leggeremo racconta di una grande compositore, della sua follia e della sua creazione artistica sapientemente e indissolubilmente legate:

la storia di Robert Schumann.

Buona Lettura.

Il 4 Marzo 1854 il quarantaquattrenne Robert Schumann viene accolto nel manicomio di Endenich in seguito alla sua richiesta. E’ in questo manicomio che sarà seguito dallo psichiatra Richarz, fino alla sua morte nel 1856.

La psichiatria dell’epoca vive sotto l’opera di Philippe Pinel che nel Trattato differenzia la follia in 5 categorie: melancolia, mania con e senza delirio, demenza e idiotismo; molto probabilmente il nostro Schumann fu classificato tra i malati di melancolia. Schumann infatti, pochi giorni prima aveva cercato di suicidarsi gettandosi nel Reno (questo tuttavia non fu il primo tentativo di suicidio, ma il secondo) e il suicidio stesso era considerato tratto patognomonico della melancolia.

Robert viveva insieme all’eccellente pianista-moglie Clara Wieck; dal primo bacio del 25 novembre 1835 passeranno 5 anni prima di unirsi nel vincolo matrimoniale (passando attraverso una causa legale); Schumann infatti porterà in tribunale il suocero/maestro di pianoforte, accusato di aver offeso la libertà delle persone, rifiutando di dare la mano della propria figlia a Schumann stesso.

La vita di Schumann è costellata di lutti; fratelli e sorelle moriranno. Robert inoltre era sofferente fin da bambino di stati depressivi in conseguenza della morte del padre; inoltre anche la madre era depressa (segno della trasmissione familiare del disagio). Uno dei lutti peggiori da affrontare fu per Robert quello dell’amata sorella (così tanto amata da generare voci su un presunto legame incestuoso).

Il lutto però più importante fu per Schumann quello della perdita della sua mano destra; la mano perderà la funzione del dito terzo facendo cessare in Schumann ogni desiderio di poter diventare un grande pianista come Chopin. Nel 1832 Robert lega due dita della mano destra per poter allenare il medio e renderlo più forte e indipendente alla tastiera; questa pratica era piuttosto comune all’epoca ma per Schumann qualcosa andò storto giungendo alla completa perdita di tutto l’uso della mano.

Robert potè quindi dedicarsi alla sola composizione.

Clara divenne per Schumann la sua mano perduta. Interprete, mano e cuore mancante al compositore sofferente.

Robert inoltre era affetto da paralisi (forse a causa del mercurio usato per trattare la sifilide) e da maniacalità (curata con ipnosi e magnetismo); in quegli anni comporrà opere di straordinaria bellezza e inquietudine, mostrando l’evidenza clinica secondo cui il delirio e le allucinazioni sono presenti anche nelle fasi fortemente depresse.

Il dubbio diagnostico tra schizofrenia e disturbo bipolare (maniaco depressivo) è incentrato sul ruolo del delirio nelle due categorie.

Il delirio è una errata interpretazione della realtà; il soggetto infatti non riesce a dare una corretta lettura del mondo che lo circonda ma lo interpreta in funzione di un Io modificato. Al delirio si accompagnano le allucinazioni (percezioni di voci interne o esterne o di immagini). Nella iniziale storia della psichiatria, il delirio è stato legato alla schizofrenia, all’Io diviso, frammentato ma successivamente si è scoperto che anche nella melancolia e maniacalità vive questa condizione.

Per quanto concerne Schumann, quindi, è possibili ipotizzare un inquadramento dei suoi sintomi nelle alternanze maniacali e depressive e che in tale quadro si innesti la demenza propria della paralisi progressiva. Schumann quindi, soffriva molto probabilmente di una condizione a doppia diagnosi “disturbo bipolare e infezione luetica cerebrale”.

La nostra fortuna -tuttavia- è stata che Schumann non perdesse mai l’impulso vitale che ci ha regalato il genio che – nonostante tutto- ha saputo essere.

“Finisce bene quel che comincia male”.

Dott.ssa Giusy Di Maio.

Sul divorzio

Oggi vorrei affrontare un altro argomento correlato all’articolo precedente della collega e al strettamente intersecato con il mio di ieri dedicato al matrimonio. Vi parlerò del divorzio.

Il divorzio è un evento paranormativo che traumatizza tutte le aree del legame, all’interno di una coppia inoltre “è considerato dai clinici come una crisi prevedibile del ciclo vitale della famiglia, sebbene l’attacco al legame che i soggetti avvertono è forte e traumatico” (V. Cigoli).

Il divorzio e la separazione, rappresentano una fase di cambiamento e sconvolgimento che interessa l’intero progetto di vita pensato e delineato nel corso del tempo da una coppia. Questa fase comporta una riorganizzazione di diversi aspetti della propria vita che riguardano gli aspetti economici, l’abitazione, le relazioni, i legami familiari.

Una separazione e un divorzio possono arrivare al termine del processo anche in maniera positiva quando entrambi i genitori hanno compreso le cause e le dinamiche implicite che hanno portato ad una fine prematura del rapporto.

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Quando la decisione della fine di un rapporto è univoca (cioè presa direttamente solo da uno dei coniugi), l’altro coniuge può vivere il distacco improvviso emotivamente come una condizione assimilabile al lutto.

Nel 2005 David Sbarra e Robert Emery, due psicologi americani hanno teorizzato il “modello ciclico del lutto”.

Questo modello prevede tre emozioni caratterizzanti che al termine di una relazione possono presentarsi inizialmente una per volta con forte intensità per poi presentarsi in maniera simultanea in un secondo momento. Ecco il ciclo delle emozioni:

  • L’ Amore caratterizza il sentimento di perdita e quella segreta speranza che tutto si possa “aggiustare” e rimarginare. Il rischio di rimanere bloccati su questa emozione porta alla negazione psichica della separazione perché la persona coverà dentro di se sempre la speranza che possa avvenire una riconciliazione;
  • La Collera aumenterà a causa della frustrazione subita. Si avrà la sensazione di essere stato ingannato e si darà la colpa all’altro per il dolore percepito. Il rischio di una fissazione su quest’emozione determinerà una visione alterata della realtà che porterà a investire solo ed esclusivamente l’altro coniuge delle colpe della separazione. L’ex sarà quindi considerato a tutti gli effetti la rovina della propria vita;
  • La Tristezza invece è legata a quel sentimento di profondo sconforto, vuoto e solitudine che si può provare in una situazione del genere. Purtroppo la fissazione a questa emozione può provocare stati depressivi e in alcuni casi più gravi pensieri suicidari. In questi casi in genere la colpa della separazione viene data a se stessi.

Se elaborati correttamente queste emozioni e questi contenuti dolorosi possono portare all’accettazione della separazione con la prospettiva della costruzione di un nuovo progetto di vita personale. Infatti, la fine del rapporto, anche se ricca di dolore e sofferenza, una volta elaborata, può rappresentare comunque la possibilità di una crescita interiore. La persona che si appresta ad affrontare questo cambiamento deve però affrontare la fine del legame, mettendosi in discussione e incuriosendosi della nuova realtà che la separazione comporta.

immagine personale

Questo processo di elaborazione del divorzio è dura e dolorosa, richiede un faticoso lavoro su se stessi. Però con un buon supporto psicologico è possibile superare queste fasi per poi cominciare ad investire su se stessi valorizzando le proprie risorse personali, ripensandosi e riadattandosi alla nuova realtà.


Ciclo di vita e criticità

Spesso noi psicologi e psicoterapeuti ci troviamo ad intervenire in situazioni che riguardano il ciclo di vita delle persone, il loro sviluppo e la loro crescita personale. Potremmo definire queste fasi determinanti della vita come “processi di cambiamento” o “eventi critici“.

Nella vita di una persona l’intero ciclo di vita e il proprio sviluppo è caratterizzato da episodi o eventi che determinano passaggi evolutivi importanti per la persona stessa.

I ritmi evolutivi sono spesso scanditi da eventi socialmente riconosciuti (adolescenza, maternità, menopausa, invecchiamento, matrimonio..). Questi eventi sono fondamentali per la crescita personale, ma determinano rotture dell’equilibrio precedente che possono a volte attivare reazioni emotive o difese, che a loro volta possono sfociare in manifestazioni sintomatologiche di vario tipo in cui prevale il disagio e la sofferenza emotiva.

Gli episodi critici, invece, possono essere considerati come eventi imprevisti traumatici (lutti, malattie, separazioni, insuccessi, eventi esterni). Questi eventi rompono l’equilibrio precedente e possono attivare una condizione di patologia reattiva, cioè relativa a quella situazione critica, improvvisa e apparentemente ingestibile.

Ad esempio il lutto può creare una condizione di vissuto personale caratterizzato da atempotalità; che comporta una percezione del tempo e dello spazio anomala, dilatata e completamente trasformata. Vissuti legati al lutto possono essere anche legati ad una rottura di un rapporto o di un legame affettivo importante (in queste situazione spesso si ha la sensazione di aver perso una parte di sé, nel momento in cui ci si deve separare dall’altra persona). Questi eventi luttuosi possono a volte creare “rotture” tali da comportare manifestazioni al limite, con carichi emotivi e psichici difficili da sostenere, fino a determinare sintomi, segnali di un malessere psichico.

Immagine fonte Repubblica.it

La patologia si crea quando la condizione di equilibrio psichico ed emotivo precedente, per qualche motivo si rompe.

La buona notizia è che queste fasi “critiche” del ciclo di vita sono purtroppo e per fortuna parte integrante delle nostre vite. Possono creare dolore e malessere, ma possono essere affrontate e superate con il supporto e l’aiuto di un professionista. In queste situazioni, infatti, lo psicologo interviene per “accompagnare” la persona, che chiede aiuto, in un processo di consapevolezza e comprensione della trasformazione e del cambiamento che avverrà affrontando questi eventi.

“Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi