Fin dalla nascita della psicologia, la questione del dolore psichico è stata al centro di molte teorizzazioni. Bion ha ampliato molto la concettualizzazione in merito collegando la frustrazione e il dolore all’esperienza conoscitiva. In particolare, l’autore, ha prestato attenzione al funzionamento dell’apparato psichico e ai modi con cui esso affronta (o evita) gli stati emozionali connessi ai processi di pensiero.
Bion, infatti, afferma che il percorso della conoscenza (finalizzato alla ricerca della verità), implichi molto dolore; dolore che si cerca di evitare attuando manovre elusive
L’esperienza psicoanalitica si configura come un processo teso all’acquisizione di una conoscenza approfondita di sé; un processo che tuttavia espone il paziente a un confronto con il “principio di realtà”, mettendolo a stretto e diretto contatto con la violenza delle sue emozioni e con i vissuti emotivi. Secondo Bion
“un’analisi deve essere dolorosa, non perchè vi sia per forza qualche valore nel dolore, ma perchè non si può ritenere che un’analisi nella quale il dolore non venga osservato e discusso, affronti una delle ragioni centrali per le quali il paziente è lì”. Bion 1963.
Per evitare di incontrare e scontrarsi con questo dolore, il paziente mette in atto un uso massiccio delle difese. Il dolore di cui però Bion parla è uno stato mentale che si riferisce alla capacità di soffrire il dolore assumendone coscienza e conoscenza; qualcosa di diverso dai vissuti di angoscia che frequentemente di incontrano in terapia.
Incontrare questi vissuti dolorosi può essere così avvilente, tanto da spingere le persone ad abbandonare subito il setting e non ritornare più; possono non essere disposte a chiedere aiuto; possono attaccare il terapeuta (e tutta la categoria), e così via..
La storia di Emilia.
Un giorno arriva la telefonata di un uomo che chiede appuntamento per la sua compagna. L’appuntamento viene fissato ma la prima domanda riguarda il motivo per cui non sia stata la donna stessa a fare la telefonata; la risposta dell’uomo è “sta troppo male!”.
Il giorno in questione, con circa 15 minuti di ritardo si presenta in studio una giovane coppia. Lui (Carlo) un uomo alto, magro e ben vestito; lei (Emilia) 35 anni, una donna bassina, molto magra con due enormi occhiali da sole che a stento fanno vedere qualche porzione del viso.
La coppia entra e si siede; è subito Carlo a parlare dicendo che sono venuti per Emilia che viene descritta come una donna che ha avuto un precedente matrimonio (da cui è nata una bambina che ora ha 6 anni) e che ora loro vivono insieme. Emilia è stata da diversi dottori che la liquidavano in 2 minuti riempiendola di farmaci. Carlo parla velocemente senza sosta, Emilia fruga nella borsa senza rispondere, posa a caso delle cose sulla scrivania evitando il contatto degli occhi e prende la mano di Carlo stringendola in maniera vistosamente forte quasi come a dirgli “non lasciarmi sola”.
Carlo esce.
Emilia toglie gli enormi occhiali e svela un volto da ragazzina (mostra molti anni in meno); il viso è rosso (avrà pianto?) gli occhi sono enormi e castani ma appaiono privi di vita. La postura di Emilia è rigida e chiusa; appare come senza spinta di vita, meccanica e robotica. Emilia comincia a parlare, poi si ferma.. poi dice frasi che appaiono molto sconnesse.
Racconta del lavoro da cui si è licenziata (lavorava per una casa editrice) e del lavoro del compagno, sempre assente. Alterna durante i suoi racconti espressioni da “cerbiatta innocente” a lampi quasi di cattiveria come quando racconta di alcuni comportamenti di sua figlia dicendo che “forse tutti i bambini sono cattivi chissà.. magari anche io lo ero…”.
Emilia racconta poi di alcuni episodi in cui il compagno la ha profondamente delusa “come quando io dicevo che anche aspettando un bambino handicappato lo avrei tenuto, mentre lui, Carlo, sostiene che questi bambini non vanno fatti nascere”.
Il mondo di Emilia è nero; sembra proiettare i suoi stati d’animo ovunque: mi sento cattiva “allora loro sono cattivi”; sono una delusione per la mia famiglia “allora loro mi deludono”.
La maggior parte della giornata Emilia è a letto; è passata dai tacchi a spillo ai calzettoni e tuta, ma sostiene che così si sente più apprezzata come donna.
Quello che emerge dal colloquio è un bisogno di Emilia di volerci dire qualcosa, un qualcosa che fatica a venir fuori.
Le viene detto che non deve essere facile essere qui e parlare del suo dolore ma che può farlo liberamente perchè qui nessuno la giudica; qui non ci sono emozioni sbagliate; qui si può pensare, si può piangere e si può provare ad ordinare i pensieri..
Emilia sembra quasi si stia aprendo ma niente “oggi non me la sento, la prossima volta, Dottoressa”.
Il giorno del secondo appuntamento Carlo chiama in studio e dice che Emilia non si sente bene, che si è trovata benissimo e tornerà, ma non oggi.
Il giorno del terzo appuntamento Emilia non si presenta in studio; al telefono risponderà Carlo e dice che neanche oggi Emilia vuole venire e che richiamerà non appena lei si sentirà più forte e decisa.
Sono passati mesi e di Emilia non sappiamo più niente.
La donna mostrava molto probabilmente una sintomatologia depressiva caratterizzata da una massiva presenza di umore triste e tendenza al pianto; la donna mostrava inoltre un certo rallentamento psicomotorio, mancanza di energia e una evidente fragilità che le impediva di affrontare una situazione così complessa.
Capita che le terapie non vadano a buon fine o che non inizino proprio. Ci si scontra, in sostanza, con il fallimento e soprattutto il clinico fa esperienza della propria impotenza quando il desiderio di fornire aiuto viene frustrato e i propri strumenti vengono avvertiti come inutili.
Emilia si offre come esempio di quanto sostenuto da Bion.
Il dolore si affronta e si vive. Il dolore è una sfida del tutto personale che non va giudicata nè va approcciata colludendo con colui che mostra il malessere.
E’ una sfida e come tale richiede il coraggio di essere sminuzzata e compresa attuando un giusto training di allenamento (la terapia) per riuscire a gestire i carichi eccessivi di stress, acido lattico, fatica che un processo come quello della comprensione del proprio vissuto, richiede.
“Finisce bene quel che comincia male”.
Dott.ssa Giusy Di Maio.
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