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Due Omicidi a New York.

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Le due storie che a breve descriverò, seppur accadute nel 2006 a distanza di poche settimane l’una dall’altra, si offrono oggi come spunto di riflessione.

L’immensa metropoli New York appare come la cornice di un quadro al cui interno si muovono abitanti che discendono dagli emigrati olandesi del 1626; irlandesi arrivati ai tempi della grande carestia del 1846, tedeschi, austriaci, ungheresi, ebrei, slavi, italiani, e così via..

Capita – in sostanza- di vedere un cinese che fa Tai Chi a Central Park mentre un siriano si trova in ginocchio sul marciapiede pregando rivolto verso la Mecca e contemporaneamente un italiano mangia degli spaghetti (quasi sicuramente scotti), all’angolo della strada.

All’interno di questa fumosa cornice si inseriscono due delitti.

La prima storia è quella di Frantz Bordes, 39 anni emigrato da Haiti. L’uomo lascia sull’isola caraibica la sua famiglia. Arrivato a New York incontra una donna, Mercier, che si prenderà cura di lui mantenendolo e “dandogli” 2 bambini. I due si conoscono da sei anni e convivono da due; sono una coppia dalla discussione facile, sembra infatti che litighino ogni giorno per la più banale delle cose oltre che per la gelosia e i problemi economici. Ad un certo punto nella mente di Frantz comincia ad insinuarsi un’idea.. quella che la famiglia della moglie gli abbia rivolto un rito voodoo.

Frantz si convince che la famiglia della moglie lo voglia morto e che la moglie stessa sia complice di questo complotto.

Mercier lavora come infermiera e la sera del 31 agosto 2006 chiama a casa per salutare i due bambini: nessuno risponde. Precipitatasi in casa comincia a chiamare i nomi dei bambini, ma nessuno risponde. Mercier sale le scale, passa dalle camerette ma niente, i bambini non ci sono, Mercier scorge il bagno apre la porta e delle urla strazianti varcano i confini delle mura domestiche per far correre i vicini su dalla donna.

Mercier trova i corpi dei suoi figli. I bambini sono morti; il bambino è nudo e la bambina ha il pannolino e i polmoni zuppi d’acqua. Qualcuno ha annegato i figli di Mercier.

La donna in preda all’angoscia e alla catatonia prova a chiamare il marito per avvisalo.. quello però che lei non sa è che il marito ha prima ucciso i bambini e poi si è suicidato gettandosi sotto i binari della metropolitana.

Mercier sviene.

Dagli indumenti del corpo ormai dilaniato di Frantz esce una lettera in cui l’uomo sostiene di aver voluto arrecare un danno alla moglie e alla sua famiglia: una vendetta, perchè loro gli avevano messo “accanto una ombra nera”, con il rito voodoo… la stessa ombra che lo ha aiutato a tenere sotto acqua le teste dei suoi bambini fino alla loro morte.

Poche settimane dopo New York è scossa da un altro omicidio.

Raymen Fernandez ha 15 anni e vive con la matrigna che ha 40 anni. Il ragazzo figlio di genitori divorziati ha vissuto con la madre in Spagna fino a 8 anni, età in cui si è poi trasferito in America dal padre e la matrigna. Raymen litiga con la donna per qualsiasi cosa e un giorno, di ritorno dal lavoro, il marito trova sua moglie sul pavimento del bagno con il volto e il collo coperti di sangue. L’assassino ha colpito così tante volte la donna da renderne quasi irriconoscibile il volto.

Raymen viene contattato dal padre e arrivato a casa si lancia in un pianto disperato. Durante le ore seguenti il ragazzo è taciturno e triste ma.. non caccia mai la mano destra dalla tasca. All’ennesima insistenza del padre e forzatamente Raymen caccia la mano che appare piena di graffi e tagli.

Raymen confessa l’omicidio: “la odiavo, non era la mia vera madre”.

Anche attualmente la cronaca italiana è scossa da l’ennesimo caso di omicidio commesso nell’ambito delle mura domestiche. Nonostante qualche giornalista si ostini a non voler credere all’accaduto (confessione inclusa), i delitti e/o i crimini commessi in famiglia sono sempre quelli più frequenti.

Nel caso, ad esempio, degli omicidi commessi a danno della matrigna, il mito della matrigna cattiva è così radicato nella nostra cultura che già Euripide (480- 406 a.C.) sentenziava “meglio un serpente di una matrigna”; per non parlare delle favole dei bambini…

“Finisce bene quel che comincia male”.

Dott.ssa Giusy Di Maio

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Paura o indifferenza? Il caso di Kitty Genovese e l’assunzione di responsabilità.

Nel 1964 a New York, un triste caso balzato alle cronache diede il via a tutta una serie di ricerche nell’ambito della psicologia sociale. Una donna di nome Kitty Genovese venne aggredita durante la notte da un uomo che armato di coltello la colpì ripetutamente, fino a lasciarla a terra agonizzante. Kitty Genovese urlò così tanto, da svegliare 38 persone che ben presto si affacciarono alla finestra. Queste persone riuscivano a vedere cosa stesse accadendo in strada e si vedevano l’un l’altro; nonostante ciò, nessuno di loro chiamò la polizia prima di mezz’ora. Durante questo tempo di stallo però, l’assassino non stette parimenti con le mani in mano, ma anzi.. ebbe tempo di ritornare indietro e continuare ad infliggere ulteriori coltellate alla donna la quale, ben presto morì.

Salvo ulteriori specificazioni, Fonte Immagine “Google”.

Cosa era accaduto?, Perché nessuna di quelle 38 persone chiamò la polizia non appena Kitty Genovese iniziò ad urlare? Gli psicologi hanno pertanto cercato di indagare sperimentalmente la questione, per provare ad evidenziare quali possano essere degli elementi legati alle circostanze che possono influire (spesso in modo determinante) sulla dimensione altruismo/egoismo, prima di mettere in atto una determinata decisione (che spesso andrebbe presa, come in questo caso, in pochi secondi).

Una delle spiegazioni maggiormente utilizzate dagli psicologi, concerne la possibilità di andare a considerare non i vantaggi (per l’individuo o la specie) del comportamento altruistico (in questo caso la possibilità di salvare una vita, o di sentirsi utili), ma le circostanze che, a parità di altre condizioni, rendono più frequente aiutare o meno un’altra persona.

L’ipotesi proposta di basa sul concetto di assunzione di responsabilità: quanto più un individuo si sente investito della responsabilità di intervenire (per aiutare qualcuno o porre rimedio a una determinata situazione), tanto più è probabile che lo faccia. Sono svariate le circostanze che determinano l’essere o il sentirsi responsabili; tra queste ad esempio avere una posizione di “potere” , come essere il capogruppo o il leader. Altre volte sono circostanze accidentali (come il numero degli individui che si trovano sul luogo di un incidente) a determinare se un individuo che chiede aiuto, sarà o meno soccorso. Cosa c’entra quanto appena detto, con il caso di Kitty Genovese?

Due psicologi sociali John Darley e Bibb Latanè, hanno dedicato gran parte della loro ricerca al fenomeno dell’assunzione di responsabilità. Secondo i due autori, è possibile riassumere in cinque punti il processo che porta a prendere o meno la decisione di intervenire.

  1. si presenta una situazione (almeno potenziale) di pericolo
  2. la situazione deve essere definita come un caso di emergenza
  3. la persona che viene a conoscenza del pericolo deve sentire la responsabilità di intervenire in aiuto
  4. questa persona deve avere qualche idea su cosa fare per aiutare
  5. la persona accorre in aiuto.

Il focus delle ricerche dei due autori riguarda il punto 3. Gli psicologi hanno infatti studiato in maniera approfondita le condizioni nelle quali un individuo si sente più o meno responsabile di ciò che accade al suo prossimo. Ciò che viene evidenziato è che non sono tanto importanti le caratteristiche (personalità) di chi deve prestare aiuto, o quelle della persona da aiutare; non è altresì importante l’eventuale pericolosità o gravità dell’intervento. L’ipotesi di Darley e Latanè è invece: quanto più numerose sono le persone che in una data circostanza di pericolo o emergenza sono effettivamente in grado di accorrere in aiuto, tanto meno ciascuna di loro si sentirà investita della responsabilità di agire. In sostanza ciascuno penserà “perchè devo farlo io, sicuramente lo avrà già fatto qualcun altro”.

Sembra quindi che quella sera l’unica “colpa” di Kitty Genovese, sia stata che troppe persone abbiano udito le sue urla disperate.

E voi? Avreste aiutato Kitty Genovese? Pensate di essere persone altruiste oppure no?

Dott.ssa Giusy Di Maio.