Il dolore psichico proprio come il dolore fisico provoca un restringimento del campo di coscienza che si focalizza su temi penosi e depressivi.
Secondo Freud se il dolore psicologico non supera un certo livello, può essere molto importante alla costruzione dell’Io, tanto che secondo la teoria freudiana proprio attraverso la perdita dell’oggetto amato e la conseguente frustrazione, si abbandona lo stato di onnipotenza infantile per giungere infine al principio di realtà.
Inoltre il dolore psicologico sempre secondo Freud è assimilabile, come funzionamento, al dolore fisico. Infatti nel dolore corporeo si produce un grosso investimento (pulsionale) molto simile a quello narcisistico, sulla zona del corpo interessata dal dolore; nel dolore psichico l’investimento è “sempre crescente investimento nostalgico sull’oggetto mancante (perduto) produce condizioni economiche analoghe a quelle generate dall’investimento doloroso della parte lesa del corpo” (Freud, 1925).

L’esperienza del dolore e la tolleranza al dolore psichico non è la stessa da persona a persona, perché dipende dalle precedenti esperienze dolorose e dal vissuto personale. Attraverso queste esperienze passate la persona si crea una rappresentazione mentale e un vissuto emotivo del dolore del tutto personale.
La percezione del dolore è quindi legata alla visione del mondo del soggetto, alla sua personalità, alla sua storia familiare e al contesto storico culturale di riferimento. Per cui è possibile dire che sarà l’ambiente e il contesto in cui è inserita la persona a fornire un codice di significato attraverso cui il fenomeno del dolore acquista un senso specifico.
“L’accento sulla dimensione soggettiva del dolore è stato posto dalla fenomenologia per la quale il dolore è la rottura della coincidenza tra corpo ed esistenza, per cui non è l’organo che soffre, ma l’esistenza che si contrae, alterando il rapporto col mondo che non è più cadenzato dalle intenzioni della vita, ma dal ritmo del dolore. Per questo il dolore lo si “sopporta”, ma non lo si “accetta”, perché accettarlo significherebbe accogliere un arretramento della presenza nel mondo che si dilegua come sfondo di intenzioni, sostituito dal corpo che, per la presenza del dolore, diventa l’unico oggetto di attenzione. “
da Psicologia di Umberto Galimberti
“Finisce bene quel che comincia male”
dott. Gennaro Rinaldi