
Il pensiero di oggi nasce da un caso clinico osservato, caso di cui probabilmente più in là parlerò.
Non esiste un dolore “migliore o peggiore dell’altro”; non esiste sofferenza che sia più forte di un’altra, così come non è sbagliato abbandonarsi al pianto, allo sconforto o alla sofferenza piena.
Chi invade l’altro delle proprie proiezioni evacuando nell’altro ciò che non riesce a gestire e/o sentire dentro di sé “tu sei …/ dove sei…/ che cosa ti è successo… / come sei cambiato..”, evita (demandando a e nell’altro) di sentire le proprie di fragilità.
Questo non significa che chi soffre o stia provando un dolore deve vivere come costantemente avvolto da una nuvola nera che fagocita chi gli è intorno, demandando ogni risposta alle domande con “sto male”.
La questione di apre come su di un campo di ping pong dove la pallina si presenta come la sofferenza che batte e sbatte da un membro all’altro di una diade, gruppo, e così via.
Le parti coinvolte “giocano” su di un terreno comune aspettando ciascuno il proprio turno di rimbalzo; la pallina sbatte sulla racchetta (la protezione); cade vacillando, ci arriva diritto in faccia o su di un braccio.. Provoca lividi, dolore.. Fa segnare il punto della vittoria.
Il dolore “celato, manifestato”, le difese più o meno alte, la possibilità di concedersi una partita liberamente.. sono tutte scelte che si compiono nel rispetto prima personale poi dell’altro.
Nessuno ha il diritto di giudicare la sofferenza di una persona perché non saprà mai cosa e perché l’altro vive in quello stato di sofferenza; chi soffre però non ha il diritto di sentirsi in esercizio di superiorità solo perché ha dalla sua una vita, un momento o un percorso difficile.
Ognuno può trovare il tavolino su cui può decidere di giocare la propria partita; c’è chi decide di venire in terapia e si affida ad un arbitro (il terapeuta) o chi decide di procedere per tentativi ed errori.
La scelta – e non solo perchè me lo impone il codice deontologico che regola la mia professione- ma per background personale, è sempre nelle mani dell’altro ed è sempre una “scelta personale”.
Quanto ti senti pronto a giocare la tua partita?
“Finisce bene quel che comincia male”.
Dott.ssa Giusy Di Maio.