“Non c’è niente di male nell’andarsene, Giusy…”
“Sì, ma”.. risposi
La frase citata mi fu detta durante una conversazione con una collega, in merito ad un caso che avevano seguito insieme.
Quanto può far male un addio?
Questo divenne il quesito del giorno. La mia collega (parecchio più grande di me), sosteneva che alla fin fine, un addio è un addio “arrivederci e grazie” in sostanza, e tutto torna -più o meno- come prima.
Nella mia opinione invece l’addio non è un “chi s’è visto s’è visto”; l’addio ha a che fare con l’assenza, con la sparizione, con il dolore, con la solitudine e quindi con il lutto.
L’addio fa sperimentare un crollo già avvenuto in uno stadio precedente nella vita del soggetto, analogamente a quanto Winnicott sostenne con “la paura del crollo” (ad esempio in merito agli attacchi di panico), dove la paura è -appunto- il ritorno di una paura già in precedenza sperimentata. Questa paura è inconscia in quanto si tratta di un evento passato che resta lì, come sull’uscio della porta pronto ad entrare; di questo evento (già sperimentato in passato), si ha paura, non lo si vuole ripetere anche se, non vi sono tracce di esso nella memoria (essendo relegato nell’inconscio).
Addio, non è Ciao. Ciao (ri)apre a un ritorno; è un “poi ci rivediamo, ci sentiamo”.. in sostanza è l’apertura, il tappeto che conduce alla porta che si riaprirà..
Addio è invece la serratura a cui è stato messo un lucchetto di cui non si conserva la chiave.
L’addio fa schifo, non ci sono altri termini e/o considerazioni.
Ma lo zero pulsionale non esiste; la pulsione anche quando è distruttiva e mortale è pur sempre una forza che spinge verso qualcosa.
Allora anche un Addio può trasformarsi in un nuovo “Ciao” che possiamo nuovamente offrire..
E che sia Ciao.. per tutti.
“Finisce bene quel che comincia male”.
Dott.ssa Giusy Di Maio.