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La Lobotomia.

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Rosemary fu la terzogenita della famiglia Kennedy. I primi due figli nacquero senza alcun problema, in casa, così fu deciso di far nascere anche Rosemary stessa, in casa. Il giorno del parto qualcosa andò storto in quanto la famiglia Kennedy ebbe difficoltà a trovare un medico disponibile e l’infermiera (che stava seguendo la famiglia), decise di bloccare il parto lasciando la piccola Rosemary con la testa per due ore intrappolata nel canale uterino. La carenza di ossigeno portò Rosemary ad avere danni cerebrali che causarono alla bambina anche disturbi mentali. La famiglia non badò troppo a questi problemi fino a quando la ragazza non compì 20 anni mostrando una bellezza fuori dal comune. Impauriti dalla possibilità che gli uomini si accorgessero di Rosemary e della sua bellezza, con la possibilità di creare scandalo, decisero di sottoporre la ragazza a lobotomia, i cui rischi erano già stati descritti dall’American Medical Association.

Nel novembre del 1941 Rosemary fu sottoposta alla procedura presso la George Washington University; le fu chiesto di canticchiare e raccontare storie mentre le venivano provocati due buchi in testa atti al taglio delle terminazioni. Durante questa procedura Rosemary canterina si trasformò in Rosemary silente e incoerente.

La ragazza cominciò a non riuscire più a muovere un braccio, non tornò mai più a camminare normalmente e inizialmente non riusciva a pronunciare che pochissime parole. Fu internata in un istituto per morire a 85 anni nel 2005.

La sua storia solo recentemente è stata raccontata.

All’inizio del 900 i disturbi psichiatrici erano curati con metodi coercitivi o di tipo meccanico; i pazienti pericolosi venivano infatti contenuti con ogni mezzo (camicie di forza, ad esempio); venivano chiusi in enormi vasche di legno (simili a botti) piene di acqua in cui restavano immersi anche per giornate intere; venivano usate catene e altri mezzi di contenimento.

Le pratiche più diffuse e note in medicina generale erano: il dissanguamento terapeutico attraverso l’applicazione di sanguisughe o incisioni; la somministrazione di calomelano, arsenico o sali di mercurio; oppure si induceva il sonno forzato a suon di barbiturici o oppiacei.

Negli anni 30 cominciò anche a diffondersi l’uso di insulina per il trattamento dei sintomi schizofrenici. L’idea era quella di indurre il paziente in coma provocando un rapido abbassamento dell’insulina nel sangue (ipoglicemia) , il risultato erano gravi danni cerebrali, spesso, la morte.

La leucotomia o lobotomia persuase l’audience del secondo congresso internazionale di neurologia presentandosi come una promettente terapia per i disturbi mentali.

Era il 1935 e due medici ricercatori John Fulton e Carlyle Jacobsen, illustrarono ai loro colleghi i progressi ottenuti con tale tecnica su due scimpanzé. I due primati esibivano comportamenti normali considerando il fatto che erano chiusi in una gabbia, ma per i due medici i loro comportamenti erano troppo esuberanti e decisero di correggere il comportamento in maniera chirurgica rimuovendo i lobi frontali del cervello dei primati. Dopo l’operazione i due scimpanzé erano piatti, senza emozione (non si muovevano nemmeno per raggiungere il cibo) e piuttosto spenti.

Per i medici questo era un successo.

Egas Moniz (futuro premio Nobel per tale psicochirurgia) decise di ampliare gli studi in merito, sottoponendo diversi pazienti alla procedura. Inizialmente i pazienti erano trattati con alcool etilico iniettato direttamente nei lobi frontali del cervello. In tal modo si otteneva l’uccisione immediata dell’aera interessata. La procedura fu successivamente migliorata e fu ideata una procedura che comportava la resezione chirurgica.

L’intervento prevedeva una trapanazione preventiva del cranio a livello della tempia, in modo da facilitare l’ingresso ai neuroni bersaglio. La chirurgia (la distruzione meccanica della materia bianca del cervello attraverso il leucotomo), era per Moniz uno dei primi passi di una tecnica da approfondire.

Dopo la procedura i pazienti erano apatici e incapaci di comunicare anche le più banali necessità fisiologiche.

Per Moniz queste persone ombra, incapaci di parlare, apatiche, incapaci di mangiare da sole; incapaci di stare in piedi, di ridere, di sentire e pensare, erano da considerare guarite.

Mi viene sempre il pensiero: “chi è realmente il folle?”.

“Finisce bene quel che comincia male”.

Dott.ssa Giusy Di Maio

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E tu, sei pazzo?

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Nel 1973 lo psicologo David Rosenhan condusse un esperimento per verificare la validità della diagnosi psichiatrica. Il suo studio fu pubblicato sulla rivista Science “On being sane in insane places” (“Sull’essere sani in luoghi matti“) , presentandosi come una delle maggiori critiche in merito alla diagnosi psichiatrica.

La situazione sperimentale ideata da Rosenhan prevedeva l’invio presso strutture psichiatriche, di persone sane (incluso sé stesso); in sostanza queste persone sane (pseudopazienti) dovevano solo fingere alcuni sintomi normalmente associati alla malattia mentale o pazzia.

Gli otto pseudopazienti costituivano un gruppo eterogeneo, per professione, età e sesso e utilizzarono degli pseudonimi per evitare di rimanere bollati a vita con diagnosi psichiatriche. Anche gli ospedali furono scelti in modo da rappresentare, come tipologia e distribuzione geografica, uno specchio realistico della situazione nazionale americana.

Lo pseudopaziente si presentava all’accettazione dell’ospedale dichiarando di sentire voci e che tali voci gli indicavano parole come “vuoto, cavo, inconsistente”. Questa era la bugia raccontata (le voci) mentre per il resto (ad esempio la descrizione della famiglia o dei rapporti familiari, corrispondeva alla realtà).

Una volta ammesso nel reparto psichiatrico, lo pseudopaziente cessava di simulare ogni sintomo di anormalità e iniziava a comportarsi in reparto così come si comportava “normalmente”, parlando ad esempio, con gli altri pazienti o con i membri dello staff. Anche gli infermieri sostenevano che questi nuovi pazienti fossero molto collaborativi e lontani dal mostrare segni di squilibrio.

Tuttavia gli pseudopazienti non furono mai identificati come tali; ammessi con una diagnosi di schizofrenia, con una sola eccezione (ricoverato come maniaco depressivo), furono tutti dimessi con una diagnosi di schizofrenia “in via di remissione”.

Ciò che la psichiatria stava facendo era in sostanza non riconoscere l’esse “sano” dello pseudopaziente ma -basandosi su un etichettamento secondo cui “se lamenti.. allora hai”- indicare quella persona come portatrice di una psicopatologia al massimo in via di remissione.

Tutti i pazienti si attennero alle istruzioni date dai medici, seguendo anche la terapia farmacologica (in realtà nei 19 giorni di ricovero, riuscirono a non ingerire i farmaci ma a nasconderli).

Nonostante dopo i giorni di ricovero ( e durante il ricovero stesso) questi pazienti non mostrarono segni della malattia, nessuno capì che questi soggetti erano in realtà sani e furono etichettatti e dimessi come schizofrenici.

Lo staff di un noto istituto psichiatrico, avendo ricevuto notizia di questo esperimento, sfidò Rosenhan a inviare i suoi pseudopazienti, certi che non avrebbero commesso errori così grossolani. Il personale di questo istituto fu dunque avvisato: in un certo momento, nel corso dei tre mesi successivi, uno o più pseudopazienti si sarebbero presentati in accettazione.

Al personale fu richiesto di classificare ogni paziente secondo la probabilità che si trattasse di uno pseudopaziente. Su 193 pazienti arrivati in questi tre mesi, l’istituto identificò ben quarantuno pseudopazienti, mentre altri ventitré furono considerati “sospetti” da almeno uno psichiatra.

In realtà, Rosenhan non aveva inviato nessuno!

L’esperimento ha aperto a diversi dibattiti in particolare quelli centrati sul sostenere o meno se la psichiatria sia un scienza e se la diagnosi psichiatrica sia realmente “scientifica” o se, in sostanza, non sia piuttosto un artefatto derivato dal labelling dato dal massiccio uso dei manuali.

“Finisce bene quel che comincia male”.

Dott.ssa Giusy Di Maio.

Senza Parole: musica e inconscio.

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E’ possibile pensare all’inconscio partendo dal discorso musicale?

Da Freud in poi sentiremo parlare di inconscio non intendendolo come in precedenza era stato fatto ad esempio, dagli artisti romantici, dove la parola era usata per indicare l’interiorità oscura, l’inquietudine, la follia o l’irrazionalità.

Senza indagare troppo la questione “prima di Freud”, è con Sigmund stesso che l’inconscio viene pensato non più a partire dai suoi contenuti, ma dalle sue qualità formali, dal suo modo di funzionare, dalle sue formazioni. Ne deriva che la realtà dell’inconscio si manifesta sia nelle “cose da decifrare”, che in quelle che resistono a tale decifrazione; si manifesta soprattutto nelle dimenticanze, nel ricordo di quel che non è esistito, nella coazione a ripetere, nelle cose che non si riescono a pensare e dire, negli atti mancati.

L’inconscio diventa posto vuoto, cesura tra ciò che potrebbe e (forse?) non è; inconscio senza “rappresentazione” in quanto non è un contenuto o una data funzione localizzabile nel cervello, in un luogo stabile e preciso.

Jacques Lacan comincerà a ripensare all’inconscio guardando al linguaggio musicale.

Prima però di Lacan uno dei primi ad affrontare il rapporto “musica e psicoanalisi” fu Theodor Reik; ciò che Reik fece fu comprendere l’analogia tra ascolto musicale e ascolto psicoanalitico.

Reik introdusse infatti l’idea di un ascolto “il terzo orecchio” orientato non al contenuto e significati ma alle forme espressive cui ricorre il paziente durante il racconto. Diventano importanti ritmi, silenzi, prosodia, pause, tono, tutti elementi che ritroviamo nel discorso musicale. L’analista così facendo riesce a cogliere gli “infrasuoni del discorso inconscio” andando ben oltre il mondo apparente fatto di suoni che possono solo apparire consonanti, celando invece dissonanze o accordi non ben armonizzati.

Lacan riprenderà la funzione del suono dello shofar (corno ebraico). Generalmente si tratta di un corno di ariete che viene usato in momenti di raccoglimento, fede, pentimento dove offre un sottofondo sonoro particolarmente adatto a rendere sentimenti di commozione (di tale strumento si parla anche nella Bibbia).

Quando Lacan pensa al suono di tale strumento (soprattutto alla luce di come viene presentato e della funzione che ha nella Bibbia stessa), si chiede se si tratti di un semplice strumento o se, invece, non sia una voce, un sostituto della parola che reclama (in tal caso, obbedienza).

Se immaginiamo una musica, una melodia, percepiamo una sequenza di suoni “diciamo” armonica (il discorso sarebbe molto più ampio specie alla luce di moderni generi musicali non del tutto consonanti); di una melodia riconosco un ordine, una struttura e un codice in sostanza: un discorso.

Un discorso che può dire senza dire, analogamente a quanto un suono musicale può fare presentandosi come significante di qualcosa che non c’è (non in maniera visibile). Anche l’inconscio può presentarsi come costituito da qualcosa che “sta al posto di”.

Il significante prende il sopravvento sul significato e così come in una composizione artistica non mi fermo al suo significato immediato, scavo e scovo nell’inconscio tracce di significazione nascoste, celate tra le mille note raggruppate che creano trilli, acciaccature (in musica piccola nota che vediamo attaccata alla nota principale che suonata prima di, toglie una frazione di durata molto breve alla nota principale), abbellimenti del nostro mondo interno.

(Gli abbellimenti sono – brevemente- in musica note o gruppi di note accessorie, ornamentali, che sono inserite tra le note principali di una melodia per dare maggiore grazia al discorso musicale).

“Finisce bene quel che comincia male”.

Dott.ssa Giusy Di Maio