In questi giorni mi è capitato di mettere in ordine il materiale utilizzato durante la conduzione/osservazione di alcuni progetti.
“Chiamarlo amore non si può” è stato un progetto attivato sul territorio di competenza dell’ASL in cui, all’epoca, mi trovavo.
Il progetto era indirizzato alle scuole primarie coinvolgendo tutto il personale scolastico, i genitori e i bambini, attuando un lavoro su due fronti: con i genitori e il personale scolastico il lavoro prevedeva una metodologia attiva fatta di lezioni frontali, focus group e discussioni mentre con i bambini, il lavoro prevedeva l’uso di modalità attive/interattive procedendo con l’uso di giochi, favole, e così via.
Il punto centrale del post non è la descrizione del progetto (se non un suo accenno), quanto porre in evidenza una delle cose che mi colpì: la giovane età a cui il progetto, era destinato.
La violenza sulle donne e sui bambini vittima di violenza assistita, è una questione di diritti umani universali, negati. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dal 1995 pone in evidenza come tale questione non sia da sottovalutare e che vada posta attenzione – mondiale- a uno dei fattori eziologici e di rischio più importanti per tutta una serie di patologie che interessano la popolazione femminile: la violenza.
La Convenzione di Istanbul, 2011, si propone di prevenire la violenza riconoscendo la violenza sulle donne come una forma di violazione dei diritti umani e di discriminazione; la Convenzione -inoltre- si preoccupa di proteggere i bambini testimoni di violenza domestica e (tra le altre cose) richiede la penalizzazione delle mutilazioni genitali femminili.
Guardo all’attualità.. all’impossibilità di veder riconosciuti tanti diritti realmente basilari per l’essere umano e capisco che c’è davvero tanto.. ma tanto da fare!
“Finisce bene quel che comincia male”.
Dott.ssa Giusy Di Maio.