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Le teorie fattoriali e la personalità. PODCAST

Il viaggio di oggi ci porta tra le stanze della psicologia della personalità. Viaggeremo insieme a Cattell e tramite la sua opera scopriremo come si può applicare l’analisi fattoriale, alla personalità, e cos’è il big five, uno strumento (test) largamente usato in ambito aziendale per procedere con la selezione del personale.
Buon viaggio e buon ascolto.

Dott.ssa Giusy Di Maio.

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La personalità

Il termine personalità deriva dal termine latino “persona”, che indicava la maschera dell’attore teatrale, che era caratterizzata dalla sua fissità e continuità.

La personalità si può quindi definire come una struttura fissa, portante, che ha delle caratteristiche peculiari che la rendono riconoscibile e prevedibile in qualche modo, perché coerente e costante,

La personalità può quindi definirsi come quell’insieme di caratteristiche psichiche e comportamentali, che nella loro integrazione costituiscono un nucleo centrale stabile nel corso del tempo.

Lo strutturarsi della personalità e di quelli che Gordon Allport definisce come tratti di personalità (modi di percepire, rapportarsi e pensare nei confronti dell’ambiente), coincide con lo sviluppo dell’identità e quindi della personalità di una persona.

Maschere – immagine web – google

Nello specifico definiva la personalità come “l’organizzazione dinamica di quei sistemi psicofisici e sociali che determinano il pensiero e i comportamenti caratteristici dell’individuo”. Lui considerava i tratti di personalità come innati. Essi, infatti, sono il risultato di un intreccio dinamico tra gli aspetti psicofisici e la rete sociale.

Allport inoltre riteneva che fosse impossibile individuare due personalità identiche, perché la combinazione dei tratti di personalità per ogni singola persona è unica.

I tratti di personalità, sempre secondo la teoria di Alport, possono essere suddivisi in tratti comuni e tratti personali.

I tratti comuni sono quelli che si utilizzano e che possono essere identificativi per un gruppo specifico di persone o una categoria in particolare (ad esempio gli atleti professionisti sono in genere molto competitivi).

I tratti personali sono invece quelle caratteristiche proprie di ogni singolo individuo e possono essere distinti in ulteriori tre tipologie differenti:

I tratti cardinali (sono i più forti e pervasivi e hanno l’influenza maggiore sulla personalità e sul comportamento); i tratti centrali (influenzano gran parte del comportamento e colgono l’essenza dell’individuo); i tratti secondari (molto specifici, ma difficile che si manifestano liberamente).

Sono però differenti le teorie che hanno studiato la personalità; un contributo notevole a questi studi è stato dato dalle teorie psicodinamiche, che hanno legato lo sviluppo della personalità e dell’identità alle interazioni tra istanze diverse nel corso dello sviluppo psicosessuale.

“Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi

Il Disturbo Schizoide di Personalità

Questo disturbo della Personalità è caratterizzato principalmente da un distacco dalle relazioni sociali e da una riduzione dell’espressività emotiva. Questi pazienti vivono ai margini della società. Caratteristiche di questo disturbo sono disturbi nelle relazioni, lievi disturbi del pensiero, anedonia ed isolamento sociale. Ciò può indurre gli altri a cercare di stabilire un contatto con loro; tuttavia, gli individui che fanno tali tentativi finiscono col rinunciare dopo essere stati ripetutamente respinti.

Il mondo interno del paziente schizoide può differire considerevolmente dall’apparenza esterna dell’individuo. Egli vive una diffusione d’identità, data da una fondamentale scissione del Sé. I pazienti schizoidi non sanno con sicurezza chi sono e si sentono tormentati da pensieri, sentimenti, desideri e pulsioni fortemente conflittuali. Questa diffusione d’identità rende problematiche le relazioni interpersonali. Tali pazienti sembrano fondare la loro decisione di rimanere isolati sul convincimento che il loro fallimento nel ricevere ciò di cui avevano bisogno dalle loro madri implica che essi non possono in alcun modo tentare di ricevere altro da figure significative incontrate successivamente.

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Tutte le relazioni, quindi, sono vissute come pericolose e come tali da evitare. Poiché la decisione di non relazionarsi lascia l’individuo solo e vuoto, è spesso presente un “compromesso schizoide”, per cui il paziente si aggrappa agli altri e simultaneamente li respinge. Il caratteristico ritiro dalle relazioni interpersonali del paziente schizoide può assolvere un’importante funzione evolutiva. Secondo Winnicott, l’isolamento e il ritiro del paziente schizoide è un modo per comunicare e preservare il “vero Sé”, invece di sacrificare questa autenticità a interazioni artificiali con gli altri che porterebbero a un “falso Sé”.

I pazienti schizoidi che permettono al terapeuta di accedere ai loro mondi interni spesso riveleranno fantasie onnipotenti, che aumentano di frequenza in proporzione inversa rispetto al livello della loro stima di sé. Non avendo buone rappresentazioni interne del Sé e dell’oggetto che li possano aiutare ad avere successo nelle relazioni o nella carriera, i pazienti schizoidi si servono delle fantasie di onnipotenza per aggirare tale percorso e raggiungere direttamente le loro fantasie grandiose. I pazienti schizoidi provano spesso una grande vergogna per le loro fantasie e sono riluttanti ad ammetterle.

Restano quindi per lo più isolati anche perché appaiono indifferenti a stabilire delle relazioni strette e non paiono interessati a far parte di un gruppo di amici o di una famiglia. Preferiscono stare da soli e per questo agli altri paiono isolati e solitari.

Spesso sono anche indifferenti alle critiche o all’approvazione degli altri. Hanno difficolta persino ad esprimere la rabbia anche in risposta a provocazioni. Possono inoltre avere poco interesse alle esperienze sessuali.

“Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi

Persona

La personalità è “ciò che conserva memoria di se stesso, ciò che ricorda di essere stato prima come adesso, uno e solo”.

C. Wolff (XVIII sec.)

Possiamo considerare la Personalità come “la funzione psichica con la quale e grazie alla quale un individuo si considera come un Io unico e permanente”.

“Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi

L’esperienza soggettiva dell’impulso.

Immagine Personale.

Una piccola introduzione sull’azione impulsiva, sulle sue caratteristiche e sulle sue possibili spiegazioni.

Un paziente impulsivo- un artista- dice, riflettendo su alcune decisioni prese durante una festa a cui ha partecipato, lasciandosi andare totalmente al gioco d’azzardo: “L’ho fatto, ma non so perché”.

Probabilmente la frase completa poteva essere “non intendevo farlo” così come altre frasi spesso ascoltate dai pazienti impulsivi sono “l’ho fatto e basta; non lo so; non so il motivo”.

Queste espressioni (analogamente a quanto avviene per gli scoppi emotivi dell’isterica), spesso contengono sia la comunicazione di una esperienza soggettiva, ma al contempo la giustificazione di un qualcosa “sono colpevole, ma senza premeditazione”.

E’ l’esperienza di un’azione che non è sentita come completamente deliberata o pienamente voluta. Si tratta di esperienze di volere, desiderare o decidere ma al contempo tali esperienze sono di un desiderio troppo improvviso, passeggero, un desiderio che è così attenuato da rendere persino possibile la giustificazione “colpevole ma senza premeditazione”.

Uno psicopatico potrebbe dire “semplicemente mi sento di farlo”, per spiegare un furto (faccio questo furto perchè ho il capriccio da soddisfare).

L’esperienza del bisogno o impulso cioè non è una percezione distaccata di un attacco vero e proprio che annulla quel che uno vuole fare, ma una deformazione e attenuazione della normale esperienza di volere in cui il senso di deliberatezza e intenzione attiva è menomato e poi rinnegato per ragioni difensive.

Ne deriva che l’affermazione tipica dell’impulso “Io non lo voglio fare, ma proprio non sono capace di controllare l’impulso”, si potrebbe tradurre con “Io non sento che farei bene a farlo, ed eviterei anche di farlo, ma se smetto di guardare, le mani, i piedi e i miei impulsi semplicemente lo fanno”.

Per colui che presenta i caratteri dello stile impulsivo, l’esperienza dell’impulso occupa aree psicologiche che normalmente sarebbero occupate dall’esperienza di volere, scegliere o decidere. Ne deriva che l’esperienza dell’impulso non sia occasionale, ma regolare.

Un’azione impulsiva ha delle qualità:

  • E’ veloce e rapida indicando con ciò che il tempo tra il pensiero e l’esecuzione è molto breve.
  • E’ brusca o discontinua (a differenza dell’attività normale che proviene da periodi di pensiero e/o preparazioni).
  • Non è progettata (caratteristica fondamentale). Non vuol dire che sia imprevista (il bevitore può prevedere la prossima festa a base di alcool), ma questo tipo di progettazione rientrerebbe (è assimilabile) nella previsione di eventi probabilisticamente poco catalogabili.

“Finisce bene quel che comincia male”.

Dott.ssa Giusy Di Maio.

La Sindrome dell’impostore

Ci sono persone che non sono affatto convinte di meritare il proprio successo, nemmeno quando è palese che abbiano messo un grande impegno per arrivarci.

Queste persone soffrono della “sindrome dell’impostore” e vivono gran parte della loro vita con il timore di poter essere scoperti, perché si ritengono degli imbroglioni. Questo succede perché sentono che il loro successo o i risultati ottenuti nella loro vita, non sono dovuti alle loro capacità reali. Sentono invece di essere stati semplicemente fortunati a raggiungere un obiettivo, oppure solo capitati al posto giusto e nel momento giusto. Addirittura possono farsi la falsa idea che sia stato merito del demerito degli altri che abbiano così tanto successo.

Generalmente chi soffre di questa sindrome ha avuto esperienze di vita abbastanza favorevoli in passato, non hanno mai avuto grossi problemi e frustrazioni e hanno sempre avuto ottimi risultati in tutto, a partire dalle esperienze scolastiche.

immagine google

Secondo una Psicologa Pauline Clance (Georgia State University di Atlanta) che si è occupata di questo problema, la percezione soggettiva di essere “un impostore” può subentrare per la prima volta proprio alla fine del percorso scolastico di una persona o all’inizio del percorso universitario o della vita professionale. Queste persone arrivano a questi “appuntamenti” critici della propria vita sguarniti di difese, perché non hanno imparato mai a prepararsi adeguatamente a queste sfide e a saper attribuire i progressi e i successi a se stessi e alle proprie capacità.

La sindrome dell’impostore è dovuta ad uno stile di attribuzione sfavorevole, che praticamente vuol dire che non si sentono mai responsabili degli eventi positivi, imputandoli esclusivamente a fattori esterni. Inoltre si sentono veramente degli imbroglioni e quindi di non meritare i propri successi.

In alcuni studi americani dei primi anni del duemila, i ricercatori hanno scoperto che queste persone, sono più predisposte a vergognarsi di qualcosa, soffrono più spesso di ansia e depressione. Inoltre sembrano essere dolorosamente coscienti di tutti i loro difetti, mentre tendono a sopravvalutare le capacità degli altri. Si mettono a confronto con gli altri e hanno una percezione soggettiva (molto spesso fallace) di inferiorità, questo ovviamente comporta anche una autostima molto bassa.

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Le persone con questa sindrome hanno inoltre un modo di pensare ossessivo. Ad esempio, quando non vogliono essere scoperti come imbroglioni ad un esame, adottano due tipi di strategia: l’overdoing e l’underdoing. Nel primo caso si preparano in maniera quasi ossessiva all’esame, per limitare al massimo la possibilità di non essere “scoperti” e quindi di rendere al massimo. Ma se riescono a superare l’esame con un ottimo voto attribuiranno questo successo, non alle proprie capacità, ma piuttosto alla grande fatica o al fatto che gli sono state fatte domande semplici. Nel caso dell’underdoing, la persona si comporterà al contrario, cioè tenderà a preparare l’esame in ritardo e in fretta, perché probabilmente ha preferito occuparsi di altro nel tempo disponibile. Lo psicologo sociale Edward Jones descriveva questo comportamento come self handicapping: boicotto da solo i miei risultati e le mie azioni, in tutti i modi possibili, così posso proteggermi dall’insuccesso e dalla possibilità di un fallimento che dovrei per forza assegnare a me stesso, ma in fondo se l’avessi voluto ci sarei riuscito. Entrambe le strategie (underdoing e overdoing) limitano la propria visione del futuro e limitano la propria capacità di azione nel mondo.

Come è possibile affrontare un problema simile e come è possibile risolverlo?

Bisognerebbe rafforzare la propria autostima, riducendo l’apporto dell’ansia e della depressione. In terapia i pazienti affronteranno e analizzeranno le diverse sfaccettature della propria personalità, scoprendo e rafforzando i propri punti di forza, i rapporti positivi con le altre persone e valorizzando i risultati ottenuti e riconoscendo la loro responsabilità nelle loro azioni.

“Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi