Archivi tag: Psicologia e Musica

“How to Save a Life”

Me lo chiedo spesso.

Quando qualcuno muore in mare con i polmoni rigonfi di acqua salata: “torna a casa tua!” -Gli dicono-

Quando qualcuno muore per ipossia tra la folla, calpestato e fracassato: “la prossima volta restavi a casa tua, invece di uscire!” -gli dicono-

Quando una bomba sminuzza in mille pezzi un corpo: “questa è casa mia!” -gli dicono-

Quando in un centro commerciale, una lama improvvisa recide e lacera l’epidermide: “casa tua è più bella della mia” -gli dicono”

Me lo chiedo spesso.

Quando una lumachina perde la strada ma reca con sé, ovunque nel mondo, la propria casa e allora basta rimetterla su una data via: saprà da sola, cosa fare.

Troveremo mai una casa che sia tale, per tutti?..

Né migliore, né peggiore.

Una casa, unica e sola dove:

Nuotare

Respirare

Ballare

Uscire

Senza rischiare: la vita.

“Finisce bene quel che comincia male”

Dott.ssa Giusy Di Maio

Pubblicità

Chi sale?

“Non dubitare mai che un piccolo gruppo di cittadini coscienziosi ed impegnati possa cambiare il mondo. In verità è l’unica cosa che è sempre accaduta.”

Margaret Mead

Ci sono momenti e situazioni dove il contributo responsabilmente pensato del singolo è decisivo ai fini dell’esito. Non esistono alibi.

Scegliere di non agire e dare il proprio contributo, non è una “non scelta”, è scegliere di non agire il proprio diritto a poter esprimere il proprio parere.

Gatto ANTIFA

Daniele Silvestri – Caparezza – La guerra del sale

“Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi

Me duele.

“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno , non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Italo Calvino

Dott.ssa Giusy Di Maio

Officina 99.

30 anni sempre da una sola parte.

Nel corso dei secoli -Napoli- ha imparato a raccontare se stessa avvalendosi in special modo del teatro e della musica. L’uso dei suoni o della parola (che in quanto produzione sonora è essa stessa già musica), è da ricercare nel bisogno di affermazione e descrizione di cui la città ha bisogno; bisogno che si situa come quel legame indissolubile tra la città e l’arte.

La sopraccitata considerazione che è bene dirlo, può apparire al limite di un ragionamento euristico che vede Napoli come un ” teatro a cielo aperto”, trova invece terreno fertile nell’attività di ricerca che ho perseguito al fine di rintracciare le origini del rap nel contesto napoletano.

“Tu m’haje prummiso quatto muccature, io so venuto me li voj dare1questo frammento, tratto dal ” Canto delle lavandaie del Vomero” è stato collocato da Roberto De Simone2intorno al XII – XIII secolo. Questo canto permette di comprendere il ruolo che la musica ha ben presto avuto nel contesto sociale napoletano: inizialmente la funzione del canto fu di “supporto” in quanto le lavandaie cantando, riuscivano a sopportare il duro lavoro nei campi; successivamente il brano servì per urlare con forza il proprio disprezzo contro il dominatore straniero accusato della mancata distribuzione delle terre promesse3. Tuttavia secondo altre ipotesi, la connotazione di protesta del canto era presente fin dall’origine; pertanto sembra che il canto sia stato indirizzato a Federico II di Svevia (1194- 1250). Alla luce di quanto detto, e ai fini del lavoro che in questa sede propongo, posso sostenere che un primo motivo che permetterà in anni più recenti a fenomeni quali il Rap di svilupparsi nel contesto napoletano, risieda proprio in quel legame presente tra musica e protesta fin dall’ XI secolo.

Concedendoci un ampio stacco in senso diacronico (non per mio volere, ma per non esulare troppo dal tema preso in esame), giungiamo agli anni novanta del novecento i quali rappresentano un momento fondamentale per la musica e la cultura napoletana. Il 9 ottobre del 1991 nascerà il gruppo 99 Posse che darà il là ad un’ondata rap a Napoli (e a ben vedere anche in Italia) che di lì in poi, ancora non accenna a placarsi. Il gruppo ebbe il merito e il coraggio di voler rimarcare l’importanza delle proprie origini in particolare facendo largo uso del dialetto (lingua madre), e ponendo l’attenzione su temi di grande attualità. Si sentiva così raccontare dell’emigrazione di giovani che in cerca di lavoro, si spostavano dal sud verso le città del nord4; venivano raccontati episodi di razzismo che spesso gli emigrati subivano; si denunciava l’assenza dello Stato sul territorio o gli insulti e i frequenti arresti di tutti quelli che avevano “pelle o accento diverso”. Altro tema che spesso ricorreva nelle canzoni dei 99 Posse, era l’aumento incalzante dei suicidi tra i giovani che lottavano contro ” il sistema che tutto ciò ha determinato” (99 Posse, 1991).

Nel 1993 uscirà il singolo “Curre Curre Guagliò”5inno di una intera generazione che per la prima volta trovava, nel testo di una canzone, la descrizione vivida e non edulcorata della realtà così come veniva vissuta6. La denuncia che partiva da frasi come:

“forse nu licenziamento in tronco d’ ‘o padrone

forse na risata ‘nfaccia ‘e nu carabbiniere

non so bene non so dire come nasca quel calore

certamente so che brucia so che arde so che freme”7

attireranno tra i tanti, l’attenzione del regista Gabriele Salvatores che nel 1993, girerà il film Sud di cui curre curre guagliò sarà la colonna sonora (tema centrale del film è la disoccupazione nonché la collusione dei politici di una cittadina della Sicilia).

Alla luce di quanto appena detto, è possibile richiamare ad un interrogativo posto all’inizio del lavoro, ovvero: ” sono le parole a farsi portatrici di un messaggio, o assumono significato perché sono gli altri a dotarle di senso?”. Per rispondere alla domanda, credo sia opportuno richiamare ancora una volta alla struttura metrico- ritmica del rap.

Le canzoni (in questo caso i brani delle Posse) riescono a raccontare gli eventi contando sulla fluidità della narrazione, unita alla ritmica ridondante del rap. Ne deriva che “l’ascoltatore sospeso” possa in un certo qual modo lasciarsi andare e trovandosi in balìa di un gioco (ritmico) in cui il regolare susseguirsi delle parole lo riporta indietro, ritrovarsi o regredire al momento in cui la madre intonava le rassicuranti filastrocche.

Restano tuttavia da chiarire ancora alcuni punti, primo fra tutti le dinamiche relazionali esistenti tra rapper e fan.

1” Tu mi hai promesso quattro pezzi di terra, me li vuoi dare”. Muccature : “termine di derivazione spagnola; indica il fazzoletto e per estensione, andrà ad indicare l’appezzamento di terra”.

2Da http://www.wikipedia.org.

3Secondo una iniziale ricostruzione di Roberto De Simone, il canto era indirizzato ai dominatori aragonesi (1442-1503).

4“… Napolì città dimenticata sfruttata e abbandonata/ da tutti disprezzata ma a Agnelli c’è piaciuto ‘o lavoro ‘e l’emigrato (…) e a Torino Milano napulitano terrone e ignorante magnate ‘o sapone lavate cu l’idrante”. Da “Napolì”, 1993, 99 Posse.

5L’album dall’omonimo titolo, verrà inserito dalla rivista Rolling Stone Italia nella classifica dei 100 dischi italiani più belli di sempre (alla posizione 49). Il testo della canzone (a cui verranno apportate delle censure) sarà invece inserito in un’antologia della letteratura italiana per scuole superiori (Bruno Mondadori Editore, 2013). Da http://www.wikipedia.org.

6E’ d’uopo un chiarimento al fine di rendere al lettore meglio comprensibile quanto detto. La situazione politica italiana degli anni 90, era alquanto caotica e caratterizzata da crisi e scandali. La fine dell’Unione Sovietica portò alla crisi dei partiti (primo fra tutti il Partito Comunista Italiano); il rinnovamento poi la trasformazione della Democrazia Cristiana in Partito Popolare Italiano; Tangentopoli (sistema di tangenti su cui era fondato il funzionamento dei partiti); la persistenza della questione meridionale; l’apertura di una questione settentrionale. Tale clima di malcontento generale, fornirà ai 99 Posse terreno fertile per le proprie canzoni. Cfr., Aurelio Lepre, Claudia Petraccone, La Storia dalla metà del Novecento a oggi, Prima edizione marzo 2009, Terza edizione 2014, Zanichelli editore.

799 Posse, Curre curre guagliò, 1993

Da: “Parole sospese e giochi ritmici: analisi delle dinamiche relazionali e comunicative alla base del fenomeno musicale Rap”, Cap.1, Paragrafo 1.3. “Dal canto delle lavandaie del Vomero a curre curre gualiò: quando Napoli protesta”, pp. 16-19, G.S. Di Maio, 2015.

Auguri, cattivi guagliuni…

Dott.ssa Giusy Di Maio

“Hey, You!”.

Bob: “Non voglio andarmene”

Charlotte: ” Non lo fare. Resta qui con me, metteremo su una banda jazz”.

Lost in Translation , 2003

Perché spesso l’azione potente è restare, non andare via…

Dott.ssa Giusy Di Maio

Ghetto Music.

“La musica si presenta pertanto come connotata da un forte carattere simbolico, in cui è l’espressività ad essere centrale; questa espressività si presenta tuttavia diversa dal segno linguistico, in quanto questo viene in un certo senso esaurito dalla sua funzione referenziale mentre la musica, non essendo subito leggibile (non avendo quindi un significato immediato) assume il ruolo di simbolo dotato di forte contenuto espressivo. I brani rap, avendo una metrica cadenzata e regolare permettono all’individuo di leggere e rileggere il testo in quando il flow (il flusso di parole) lascia spazio alla libera interpretazione agevolata dal forte legame con il corpo (il tempo 4/4 su cui battono le canzoni rap, è un tempo regolare al punto che, diviene molto intuitivo comprendere dove cadono gli accenti; questo consente all’individuo di lasciarsi trasportare fisicamente dal ritmo).

Da: “Parole sospese e giochi ritmici: analisi delle dinamiche relazionali e comunicative alla base del fenomeno musicale Rap”, p.24 Cap. 2.1 “Che cos’è la massa”, 2015, G. S. Di Maio.

“Finisce bene quel che comincia male”.

Dott.ssa Giusy Di Maio

“BOOM!”

Michele* ha 18 anni. Giunge in consultazione su insistenza della madre che prelevandolo -letteralmente- di peso, lo porta presso il mio studio.

“Prelevandolo di peso”, vuol dire che Michele è stato seduto con la forza, innanzi a me e -con la stessa forza materna- è stato obbligato almeno al primo colloquio con me.

Michele è stato forzato al nostro incontro perché è un delinquente. Non ci sono mezzi termini ma, la facilità delle etichette che società o politica possono dare, direbbero senza girarci troppo intorno che Michele “è un caso perso. Delinquente senza speranza; braccia per la criminalità”.

Com’è Michele?

Molto alto e dal corpo curato. Tutte le parti dell’epidermide che sporgono sono tatuate come una cartina geografica che il ragazzo fatica a tenere insieme. I riferimenti alla malavita sono lapalissiani, così tanto da essere, per me, assolutamente secondari (almeno per il momento).

La barba biondissima che vira quasi al rossiccio rende questo diciottenne molto più adulto ed è evidente fin da subito l’ambivalenza del ragazzo.

(I colloqui saranno tenuti sempre in lingua madre, porterò all’attenzione del lettore una traduzione di questi, in italiano).

Sono venuto solo perché mi ci ha portato mamma, io faccio quello che cazzo mi pare ma almeno mo questa si sta un poco zitta. Che devo dire mo? Come funziona?

Mi fate qualche domanda?

Che devo dire?

(L’iniziale colloquio è stato portato avanti con la presenza della madre di Michele, una donna completamente disintegrata. Successivamente Michele è tornato per molto tempo da me, di nascosto. Non ha mai voluto dire alla madre o agli amici di questo percorso).

Dottorè sono stato al nord, a ******

Dicono che qua siamo tutta criminalità e camorra…. ma non avete idea di quello che ho visto! Se continuo così divento io il re! Mi compro la città!

Mi sono fatto di ogni cosa!

(I colloqui diventano sempre più articolati perché Michele sarà spesso sotto l’effetto di sostanze più o meno legali. Mai troppo fatto da perdere completamente il contatto con la realtà ma con un esame di realtà** che -al contempo- appare sempre più compromesso).

Perché non ti sei mai fatta di niente tu? Ja Dottorè e che sei una principessa veramente allora?

BOOM!

(Michele comincia, durante i nostri colloqui, a salutarmi prima di andare via -oppure a farlo mentre sta parlando di qualcosa- a fare BOOM! mimando una pistola alla tempia).

Tanto la mia fine sarà BOOM!

Michele evidenzia e ripete sempre di conoscere il suo destino: “essere un re con un trono non troppo lungo”***. Sa che il suo comportamento e la vicinanza a certe “associazioni”, non gli garantiranno una vita troppo lunga.

Un giorno Michele mi guarda con una improvvisa luce diversa, meno esaltata e più velata, triste e lugubre:

Doc… io, vi devo dire una cosa. Però non ora.. cioè.. non lo so. Vabbè mo me ne vado, facciamo che ci vediamo non lo so, quando ci vediamo.

(Michele allora per la prima volta, mi viene vicino e portandomi le dita alla tempia mi esclama BOOM! ridendo).

Sono passate un paio di settimane e Michele non è più tornato in consultazione. Presa da una strana sensazione passo sotto il quartiere del ragazzo.

Michele è deceduto una settimana fa, fuori regione.

La madre disgregata ha appreso che il figlio aveva portato avanti, in segreto, il percorso di supporto psicologico ma non da me, ma da un diario che Michele teneva custodito sotto il materasso del suo letto di bambino.

Molte cose crediamo di sapere sui nostri giovani, specialmente su quelli che facilmente etichettiamo come psicopatici senza speranza alcuna.

Molte cose pensiamo di sapere da dietro i nostri pc, dove facilmente ci si inventa esperti, politici, educatori.

La certezza (non più ipotesi, ora) diviene che ogni giorno falliamo miseramente come società.

Michele andava supportato maggiormente e non solo da me, che in un piccolo centro polispecialistico fatto da professionisti volontari, non ho potuto portare avanti un programma che prevedesse un’attivazione della rete di supporto sociale e familiare maggiore.

Ho fallito?

Non lo so.

Stiamo fallendo?

Michele era un mondo contorto, confusamente infantile e straordinariamente resiliente. Una pennellata di nero, ma anche il nero… ha le sue sfumature.

*Nome di fantasia. Tutti i dati sensibili sono coperti dal segreto professionale e dalla tutela del cliente (ART.4,9,11,17,28, Codice Deontologico degli Psicologi)

**Per esame di realtà, si intende la capacità di differenziare se stessi e la propria vita interiore da quella delle altre persone e differenziare e mettere in relazione ciò che si pensa, percepisce e crede da ciò che viene consensualmente definito reale.

***Definizione data dal ragazzo

“Finisce bene quel che comincia male”.

Dott.ssa Giusy Di Maio

Sguardo.

Photo by Arvind shakya on Pexels.com

Un modo di guardare il mondo esterno, ponte tra il me e il non me.

Nel mondo esterno ci sono gli altri esterni che possono -sotto il tocco del mio sguardo- diventare altri interni.

La natura, gli animali, case, edifici, cibo…

Lo sguardo è l’intimità più assoluta (non a caso è il mezzo non verbale, utilizzato per la maggiore in psicologia).

Con l’intimità dello sguardo guardo il mondo da un luogo interno e silenzioso che si situa come calco per quello che sarà il luogo dell’esperienza avvenuta: ora c’è quello che ho visto; quello su cui ho (oppure posso), riflettere.

Lo sguardo ha un suo radicamento nel Sé, un sé che può inviare pseudopodi consentendo alla persona di guardare il “fuori”, come il “dentro”.

Quando uno sguardo incontra quello dell’altro con cui riesce a fare esperienza dell’intimità, avviene un rispecchiamento.

Sperimento ed incontro la tua intimità, che diviene la mia situandosi come terreno di congiunzione per la nostra intimità. Questa nostra intimità mi consente di fare la più autentica esperienza: quella del vero sé.

Certi sguardi sono casa e riparo.

Certi sguardi sono conforto e bellezza.

“Finisce bene quel che comincia male”.

Dott.ssa Giusy Di Maio