Quando studiavo all’università durante un corso il professore (uno degli analisti lacaniani migliori nel territorio nazionale) uno di quelli che l’esame te lo fa sudare a colpi di notti insonni e mal di testa ricorrenti, cominciò a parlare della questione secondo cui, nella nostra stanza d’analisi, siamo tenuti ad analizzare tutta una serie di cose.
Ci è stato insegnato che sin dal momento della telefonata con cui il paziente chiede un incontro, si getta un piccolo seme che comincia ad intessere le proprie (future) radici. Questo infinitesimale semino, è irrigato dall’attivazione delle prime fantasie -fantasie- che si attivano da ambo le parti (nel paziente e nel terapeuta stesso).
“Chi ha chiamato, come sarà, mi è sembrato così (così), ho avuto questa sensazione, questo feedback.. mi sono sentito in questo modo…”
La nostra relazione terapeutica è già cominciata.
Si giunge al momento “della porta”. Il nostro primo incontro -accogliere l’altro- che gran mistero e che azione straordinariamente potente.
Si stringe la mano (si o no, molto dipende dall’interlocutore perché non siamo tutti uguali), ci si presenta: si sorride.
Si invita l’altro a penetrare nel nostro mondo mentre noi penetreremo in lui, la compenetrazione del sentire: la risonanza emotiva.
Ci si apre allo sconosciuto che si apre ad altrettanto sconosciuto: diventiamo porto d’attracco per nave in mezzo al mare che io, l’altro non lo lascio di stenti a morire…
Il professore di cui sopra, cominciò allora a dirci di quante micro cose dobbiamo tener conto; di quanto -nel comportamento dell’altro- ci sia, nella nostra stanza, da analizzare.
Ci raccontò a tal proposito di un suo paziente che soleva avere una certa abitudine/usanza, quando andava da lui. Tale abitudine era del tutto “insignificante”, nel senso che, in una situazione non analitica non avrebbe minimamente destato interesse nell’altro che sicuramente nemmeno ne avrebbe colto sfumatura.
Ricordo vivamente le lezioni dei miei professori, le ricordo soprattutto perché sono integrate nel mio agire la “pratica” clinica.
(Leggere un libro da soli non è minimamente paragonabile ai training che si possono seguire, ai “segreti” da carpire, alle sfumature di cui godere.)
Un mio paziente un giorno mi chiede di poter fumare nello studio.
Lo guardo e lui mi rende, quasi come uno specchio, due enormi occhi castani, spalancati accompagnati da un sorriso gigante.
“Dai Dottoressa, sarà il nostro piccolo segreto!”
20 minuti prima il ragazzo aveva spento il cellulare. Si tratta di un giovane che vive per il suo telefono così tanto da aver esplicitamente detto che lui si sente il suo stesso telefono. Quando per un motivo X, chiedo di spegnere cortesemente il telefono, tendenzialmente gli adulti sono molto restii a farlo mentre i ragazzi sono sempre pronti e ricettivi.
Di solito non lo chiedo e sono loro stessi, in autonomia a mettere il cellulare in modalità aereo.
Lui lo aveva spento direttamente perché “ora è inutile”.
E’ stato così che S. ha terminato la sua seduta settimanale mentre un po’ ridendo, un po’ piangendo, si è comodamente fumato la sua sigaretta.
Dall’altro lato della scrivania, io mi godevo la naturalezza con cui un ragazzo è passato dall’essere una App, al diventare un fiume in piena di ricordi, sentimenti e bisogni accettando -anche- qualche “colpa”.
Al termine del nostro colloquio ho scritto il mio resoconto.
Mi sono ricordata del professore G. e ho pensato ad un cosa: il mondo del non detto è il mondo con più detto in assoluto.
“Finisce bene quel che comincia male”.
Dott.ssa Giusy Di Maio