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La paura in faccia

“Nelle situazioni in cui ti fermi a guardare la paura in faccia acquisti forza, coraggio e fiducia. Devi fare le cose che credi di non poter fare”.

Eleanor Roosevelt
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Per comprendere le nostre paure bisogna affrontarle.

dott. Gennaro Rinaldi

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La Sindrome di Peter Pan

Tutti i bambini crescono, meno uno. Sanno subito che crescono, e Wendy lo seppe così. Un giorno, quando aveva tre anni, e stava giocando in giardino, colse un fiore e corse da sua madre. Doveva avere un aspetto delizioso, perché la signora Darling si mise una mano sul cuore ed esclamò, -Oh, perché non puoi rimanere sempre così!- Questo fu quanto passò fra di loro circa l’argomento, ma da allora Wendy seppe che avrebbe dovuto crescere. Tu sai questo quando hai due anni. Due anni sono l’inizio della fine.

Peter Pan

La Sindrome di Peter Pan è probabilmente una delle sindromi psicologiche più conosciute e discusse, anche al di fuori delle sedi cliniche e didattiche.

In realtà, pur essendo universalmente riconosciuta, la sindrome di Peter Pan non è presente nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM V).

Il termine è entrato nell’uso comune dopo la pubblicazione nel 1983 di un libro di Dan Kiley, intitolato The Peter Pan Syndrome: Men Who Have Never Grown Up.

Sostanzialmente quella di Peter Pan descrive una condizione psicologica che caratterizza una persona che si rifiuta o è incapace di crescere, di pensarsi e diventare adulta e quindi di accettare di assumersi le responsabilità legate al passaggio alla fase successiva del proprio ciclo di vita.

C’è quindi un rifiuto verso il “mondo adulto”, perché lo si ritiene ostile. “Peter Pan” si rifugia spesso nel suo mondo e in comportamenti e atteggiamenti molto vicini al mondo dei giovani e dei bambini.

fonte: web

“Mi manderete a scuola?” chiese Peter Pan.
“Sì”
“E poi in ufficio?”
“Credo di sì”
“E presto sarò un uomo?”
“Molto presto”
“Ma io non voglio andare a scuola e imparare cose serie” disse stizzito “Io non voglio diventare un uomo. Oh mamma di Wendy, se un giorno dovessi risvegliarmi e accorgermi di avere la barba!”

Peter Pan

Una persona con la Sindrome di Peter Pan non vuole crescere. E per fare in modo di bloccare il tempo resta ancorato alla sua fase egocentrica, narcisistica ed immatura tipica dei bambini.

Peter Pan teme gli impegni e le responsabilità e sfugge ad essi con tutte le sue forze, spesso anche con strategie elaborate. Hanno, inoltre, una idea tutta loro di libertà; infatti tutto ciò che implica un loro impegno o responsabilità viene considerato come qualcosa che può minare seriamente la loro libertà personale.

Generalmente questa sindrome è molto più presente nel genere maschile, ma non si escludono anche casi di donne affette da tale sindrome.

Ci sono dei comportamenti o dei segnali caratteristici e riconoscibili per riconoscere un Peter Pan? In effetti si..

Ad esempio, chi ha la sindrome di Peter Pan accetta raramente di convolare a nozze, di convivere e comprare casa con il proprio partner. Ha difficoltà ad andare a fondo nei problemi perché potrebbero compromettere la relazione e la sua libertà.

Peter Pan può apparire come una persona molto affascinante, intraprendente, divertente ed estroversa, ma in realtà dietro questa facciata si nasconde, in genere, un manipolatore molto resistente ai cambiamenti.

Infine, Peter Pan è spesso incapace di godersi le cose, si può legare con grande passione a oggetti e cose materiali, ma se ne può liberare velocemente, senza una ragione particolare.

I segnali che fanno pensare alla Sindrome di Peter Pan non devono essere sottovalutati, perché a lungo andare possono cronicizzarsi e aggravarsi. Ovviamente questa condizione può compromettere seriamente la vita e il quotidiano, sia di chi ne soffre sia di chi vive insieme a Peter Pan.

Un aiuto Psicologico è in questi casi necessario e consigliabile.

“Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi

Chiusura – Una persona al di là del muro – PODCAST

In questa tappa del nostro viaggio saremo alle prese con una piccola scalata, quindi ci armeremo di strumenti adatti ad una arrampicata perché dovremo scavalcare un muro. Un muro fatto di insicurezze, riservatezza, timidezza, isolamento, tristezza, chiusura..

La chiusura è un atteggiamento caratteristico di alcune persone portatrici di un disagio psichico; è caratterizzato da estrema riservatezza, diffidenza, isolamento e quindi una grande difficoltà ad instaurare relazioni interpersonali.


Buon Ascolto..

Chiusura – Una persona al di là del muro – In Viaggio con la Psicologia – Spreaker Podcast
Chiusura – Una persona al di là del muro – In Viaggio con la Psicologia – Spreaker Podcast

“Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi

L’irraggiungibile felicità..

“Alcuni temono che la felicità sia un bene molto lontano, quasi irraggiungibile, motivo per cui corrono a più non posso nella speranza di avvicinarla, senza mai rendersi conto che più corrono e più se ne allontanano.”

LUCIANO DE CRESCENZO

Tempo fa una giovane donna mi contattò per un appuntamento. La sua insistenza era legata ad un’urgenza apparentemente impossibile da contenere.

Venne il giorno dell’appuntamento. Ricordo la luce grigia di un pomeriggio autunnale che faticava ad attraversare la finestra dello studio. Un pomeriggio opaco, bagnato e trafficato.

Photo by Samuel Theo Manat Silitonga on Pexels.com

Nonostante le difficoltà legate al traffico, la giovane donna si presenta puntuale. Il suo saluto è veloce, il suo sguardo è sfuggente. Accenna un sorriso e farfuglia qualcosa che stento a capire.

Lei anticipa la mia domanda con una risposta: “Mi scusi, a volte parlo tra me e me, ad alta voce” (ride).

“Dottore credo di non essere mai stata felice. Non voglio più essere quella eterna infelice, quella triste. Da un po’ di tempo questa condizione mi sta stretta, prima invece me la tenevo stretta. “

“Quindi presumo stia già facendo qualcosa per cambiare le cose?”

“Si, sono una che si mette subito in gioco e ho provato da subito a fare qualcosa per sentirmi meglio per mandar via questa tristezza. Pensi che ho cambiato tre fidanzati in due anni, lascerò a breve l’ennesimo posto di lavoro e cambierò tra tre mesi casa per la seconda volta in tre anni. Cominciai tre anni fa accettando un lavoro all’estero, poi mi sono resa conto dopo qualche mese che non era quella la vita che volevo, anche se guadagnavo molto bene. Adesso sono poco più di due anni che “non trovo pace” (sorriso sarcastico e triste)”

“Insomma, ha fatto di tutto per cambiare le cose e per stare meglio, ma è cambiato poco o nulla della sua condizione emotiva iniziale..”

“Si.. da qualche settimana sento di essermi persa.. mi sento stanca di rincorrere..”

“..di rincorrere se stessa..”

“Ecco..” (i suoi occhi diventano rossi e scorrono sulle guance due lacrime)

“Credo sia arrivato il tempo di fermarsi e ascoltarsi, forse quello che cerca è molto più vicino di quanto pensa..”

“Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi

Rocce, sabbia e psicoterapia: riflessioni psy.

Ho sempre trovato affascinanti le rocce e ogni volta che posso, le osservo, le “studio”, le manipolo.

Una roccia è un aggregato solido naturale di minerali o mineraloidi (si tratta, in questo caso, di un materiale che non corrisponde alla definizione di minerale).

Nella maggior parte dei casi, le rocce, hanno una composizione polimineralica (composte quindi da molti tipi di cristalli minerali) ma abbiamo anche rocce monominerali (composte da cristalli di un singolo minerale).

Come facciamo a fare l’identikit di una roccia?

Dobbiamo fare un’analisi petrografica, un terminone che indica la possibilità di fare delle sezioni sottili della roccia usando un microscopio petrografico (cioè un microscopio che illumina questa sottile sezione utilizzando una luce polarizzata trasmessa).

Lo so… stai cercando di capire il mio inconscio dove vuole finire…

Aspetta… e -se ti va- seguilo insieme a me…

Le rocce possono essere:

Ignee: in maniera (troppo) breve, dirò che si tratta di di rocce che si formano per solidificazione del materiale fuso.

Sedimentarie: si formano a bassa temperatura e pressione sulla superficie terrestre mediante il consolidamento (diagenesi) dei sedimenti, dopo che sono stati trasportati e depositati/accumulati dall’acqua, dal vento o dal ghiaccio in un bacino.

Metamorfiche: derivano da cambiamenti nel tempo dei fattori ambientali (pressione, temperatura, composizione dei fluidi) di una roccia precedente (denominata protolite) rispetto al suo stato iniziale.  Il metamorfismo si verifica al di sotto della superficie terrestre, quando il protolito si trova in un nuovo ambiente e subisce cambiamenti sia fisici (cioè strutturali) che chimici. Il metamorfismo è un processo molto lento, che richiede tempi geologici per permettere ai nuovi assemblaggi minerali di formarsi e di equilibrarsi alle condizioni metamorfiche. 

L’essere umano è un po’ come una roccia metamorfica; non è passivo spettatore dell’ambiente che lo circonda ma interagisce e agisce con e su esso: si tratta di uno scambio che è un processo attivo e circolare.

Siamo costantemente esposti (che ne siamo consapevoli o meno) a processi che agiscono dentro -e fuori- di/da noi; la nostra temperatura, la nostra pressione e i nostri fluidi sono continuamente in variazione/movimento.

La stasi non è condizione naturale -pertanto- nemmeno condizione umana.

Buona parte delle psicopatologie contemporanee ha infatti inizio in una stasi che la persona “si impone”. Hikikomori (persone che decidono di ritirarsi completamente dalla vita sociale, chiudendosi in una stanza della loro casa .Nei casi gravi non escono nemmeno per andare in bagno, ma lasciano i propri bisogni fuori dalla porta della stanza); disturbi di ansia generalizzata, panico e fobie, ne sono grandi esempi.

Anche la psicoterapia è un processo metamorfico lento e persistente.

Un processo implica un avanzamento, una successione di fenomeni (qui condivisa), uno scambio attivo in cui nel momento presente della situazione terapeutica, paziente e terapeuta modificano qualcosa di sé pur conservando -analogamente alle rocce- sottili lamelle della propria forma originaria.

Siamo fatti di strati; siamo sovrapposti, certo… ma non del tutto schermati dalla possibilità di sfaldarci.

Cosa può accadere allora?

Diventiamo sabbia (e anche di questa, ne ho passione) una roccia sedimentaria clastica, che proviene dall’erosione di altre rocce.

La sabbia non è ben vista; si dice si “attacchi”, da fastidio.. a certi prurito… te la trovi nei posti più assurdi del costume (per chi lo usa).. e anche se spazzi come un ossessivo compulsivo, anche dopo settimane la trovi sempre da qualche parte, sul pavimento…

Siamo come le rocce, portatori pluristratificati di storie con la possibilità di diventare sedimento che persiste senza insistere (quindi esiste) e come la sabbia, abbiamo possibilità di lasciar nostra traccia…

Prenditi cura dei tuoi strati e se ne hai bisogno, chiedi aiuto.

“Finisce bene quel che comincia male”.

#PromozioneDelBenesserePsicologico

Dott.ssa Giusy Di Maio.


Come regolare le emozioni spiacevoli?

La capacità di regolare le emozioni come la rabbia, la paura, la tristezza è essenziale per affrontare in maniera efficace lo stress e le situazioni potenzialmente traumatiche. Le emozioni negative sono esperienze normali e spesso sono adattive, ma possono diventare controproducenti e incontrollabili e metterci addirittura in difficoltà nella quotidianità. Possono finanche mettere a repentaglio la nostra capacità di giudizio, quando siamo chiamati a prendere decisioni importanti e difficili.

Alcuni ricercatori hanno trovato dei modi e delle strategie che permettono la regolazione emotiva e il miglioramento della resilienza. Uno di questi metodi prende il nome di “rivalutazione cognitiva“. Con questo metodo, ad esempio, si reinterpreta il significato di un evento negativo, per arrivare a considerarlo in modo più positivo. Così facendo, i ricercatori hanno potuto notare anche una attenuazione delle reazioni fisiologiche ed emotive connesse all’evento negativo vissuto.

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I ricercatori della Columbia University (coadiuvati dallo psicologo Kevin Ochsner) hanno potuto rilevare, inoltre, che quando si reinterpreta intenzionalmente (in positivo) un evento brutto o una situazione emotivamente complessa (perdita di un lavoro, esito negativo di un colloquio, un lutto improvviso) si arrivano a provare emozioni meno spiacevoli e più gestibili. Questo cambiamento dell’umore porta inevitabilmente a cambiamenti cerebrali, in particolare ad una minore attività della corteccia prefrontale (la parte del nostro cervello che si occupa della pianificazione e della inibizione del comportamento) e ad una maggiore attività dell’amigdala (la sede del cervello dove vengono elaborate le emozioni come la paura).

Chi utilizza questa strategia della “rivalutazione cognitiva” per modulare le proprie reazioni emotive allo stress e ai traumi, ha un maggiore benessere psicologico rispetto a chi si limita ad affrontare questi eventi in maniera “neutra” o in maniera negativa.

In uno studio del 2008 della Mount Sinai School of Medicine alcuni ricercatori hanno intervistato 30 veterani ex prigionieri di guerra in Vietnam, chiedendo loro come valutassero le loro esperienze in campo bellico. Gran parte dei prigionieri avevano subito torture anche brutali, ma la maggior parte di loro avevano rivalutato in maniera positiva il periodo di prigionia, dando un senso alla loro esperienza, tanto da diventare più saggi e più resilienti. Riferivano, inoltre, che era migliorata in loro anche la loro capacità di scorgere prospettive per il futuro, relazionarsi con gli altri e apprezzare la vita.

La “rivalutazione cognitiva” è parte integrante di diversi approcci teorici psicoterapeutici ed è molto utile a migliorare il benessere psicologico, aumentare la resilienza e diminuire la sofferenza.

“Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi

Definirsi e farsi definire..

“Non dobbiamo permettere alle percezioni limitate degli altri di definire chi siamo.”

Virginia Satir
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Un giorno arrivarono allo studio un ragazzo e sua madre. Il ragazzo aveva poco più di 20 anni, la madre molto giovanile, sicura e eccessivamente gioviale, esordisce dicendo:

Dottore piacere, lui è mio figlio T. . Finalmente! Non vedevo l’ora di venire a questo appuntamento.

Il piacere è mio signora, come mai era così ansiosa di vedermi?”

Non lo vede?”

Cosa devo vedere?”

Mio figlio.. lo vede? (lo indica con lo sguardo, mentre il figlio si mostra annoiato e contrariato, abbassando lo sguardo e sbuffando) “Lo vede !? E questo è ? Sta sempre così.. dorme, mangia e gioca con la playstation. Non esce, non vuole cercarsi un lavoro, è fermo a casa da due anni, da dopo il diploma. Non parla, mugugna.. poi è sfaticato! Ma cosa gli manca? Ha tutto quello che vuole, sono sempre presente. Non lo so, non esce, eppure ce li ha gli amici. Pensate che teneva pure una fidanzata.. era accussì bellell..

Questo è quello che vede lei di suo figlio.. io vedo qualcos’altro. T. tu ti vedi come ti vede tua madre?”

Impariamo a conoscerci abbastanza per poterci definire e non permettiamo agli altri di farci definire per come vogliono vederci.

“Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi