L’approfondimento di oggi ci porta tra le stanze della storia della psicoanalisi.
Di ritorno dalla prima guerra mondiale, i soldati che erano stati impegnati nel conflitto bellico mostravano una strana sintomatologia nevrotica che però si presentava diversa da ciò che fino a quel momento si conosceva circa la nevrosi.
Non si mostrava, ad esempio, un conflitto tra pulsione di autoconservazione e sessuali, ma c’era qualcosa di diverso..
Scopriamo insieme le nevrosi di guerra.
Dott.ssa Giusy Di Maio, Ordine Degli Psicologi della Regione Campania, matr. 9767
“Non me la sentivo più di essere un simbolo, di rappresentare qualcosa, di reggere tutto lo stress che procura questa macchina, questo calcio. Confesso la mia incapacità, la mia fragilità, anche se la mia presunzione, il mio orgoglio mi facevano apparire diverso.”
Diego Armando Maradona
Il supereroe è una persone eccezionale, dotata di poteri e capacità fantastiche e fuori dal comune. Utilizza le sue capacità per aiutare gli altri, in maniera disinteressata, spinto da una motivazione intrinseca di valore molto alta.
Il supereroe ha però quasi l’obbligo di offrire sempre prestazioni eccezionali. Chi guarda e spera nelle sue gesta “eroiche”, si aspetta sempre molto da lui.
Deve quindi essere sempre al top per aiutare gli altri e per essere da riferimento per tutti.
Ma a volte può capitare che anche Batman cade e credetemi “non succede nulla” (cit.).
Riconoscere, comprendere ed accettare le proprie difficoltà, i propri limiti, le proprie debolezze e fragilità, permette a se stessi di accedere ad una nuova consapevolezza su ciò che ci sta accadendo e rende decisamente più “forti” e pronti ad affrontare le difficoltà che arriveranno ancora.
Mostrarsi agli altri anche attraverso le proprie fragilità, ci rende decisamente più liberi e meno “appesantiti” dal fardello del giudizio altrui.
Anche un “Supereroe” deve potersi sentire libero di mostrarsi umano.
In una intervista di alcuni giorni fa su Relevo il calciatore Edison Cavani fa un bilancio della sua vita calcistica e personale e mette a nudo, senza alcun timore, le sue fragilità.
“La primera vez que fui a terapia fue tras la remontada del Barça al PSG”
E. Cavani
E. Cavani – Uruguay
Cavani rivela di essere in psicoterapia da diverso tempo, da quel giorno in cui, giocatore del Psg, subì con la sua squadra una “remuntada” incredibile. Il Psg perse 1 a 6 contro il Barcellona.
Alcuni possono pensare che sia solo calcio; cosa c’entra questo con la salute psicologica?
C’entra molto, anche perché attraverso la testimonianza di questi campioni può crescere l’attenzione verso la salute psichica.
Bisogna che ci sia una “normalizzazione” e una diversa attenzione al tema della sofferenza psicologica affinché si possa abbattere in maniera definitiva il pregiudizio e la disinformazione verso questo aspetto della salute individuale delle persone.
Gli atleti, sono esseri umani e come tutti hanno fragilità e soffrono pressioni esterne ed interne. Cavani lo descrive benissimo centrando e soffermandosi su alcuni temi molto interessanti. Alla domanda “Vai dallo psicologo?”, risponde così:
“Sono in terapia da molti anni. Siamo cresciuti in una generazione con genitori che ti dicono di non piangere, che non puoi rilassarti o esprimere le tue emozioni. Come se non potessi mostrare debolezza, quindi sei cresciuto con un guscio che ti fa pensare di essere più forte di tutti.
Ci sono persone molto capaci, ma alla fine finiscono per cadere.
Non sei un supereroe, quello che sa gestire tutto, aiutare la famiglia, segnare ogni domenica…
Ma a volte non ci ascoltiamo. Perché sta succedendo proprio a me?Per questo ci sono professionisti. La mia teoria è che tutti abbiamo bisogno di tutti, la vita è una ruota. Combattere per essere sempre il migliore è una bugia. Ci sarà sempre qualcuno sopra di te, che ha o sa più di te, è più carino di te, ecc.”
E. Cavani (dall’intervista su Relevo)
La relazione terapeutica è un fondamento essenziale nella psicoterapia e si basa sulla fiducia reciproca. Fiducia è anche riconoscere l’altro nei panni del ruolo importantissimo che riveste. In questo caso Cavani è chiaro e sicuro quando ha riconosciuto e compreso l’opportunità di affidarsi ad un professionista psicologo, che avrebbe potuto aiutarlo ad uscire da quel momento buio della propria vita.
Alla domanda “Quando iniziò la terapia?”, la risposta di Cavani è molto significativa perché fa comprendere quanto sia stato inaspettato, debilitante ed improvviso il “sintomo”:
La prima volta che sono andato in terapia è stato dopo il ritorno del Psg in casa del Barcellona (la remuntada: 6-1). Mi colpì molto. In cinque minuti cambiò tutto quello che avevamo fatto. È un colpo così grande, che non puoi controllare e che, sebbene sia il calcio, tocca altre parti della tua persona, con sintomi di ansia, sudorazione fredda, avevo le vertigini ad addormentarmi e già prima avevo paura di addormentarmi. Mi chiedevo: “Ho un problema nella mia testa?”. Sono andato dal medico PSG, di cui mi fido molto, e mi ha detto: “Quello che sta succedendo a te, sta accadendo a molte persone in diversi settori”. E ho capito che non ero un supereroe.
E. Cavani (dall’intervista su Relevo)
E. Cavani con la maglia del Napoli
L’aspetto psicologico diventa fondamentale e centrale per il benessere della persona e in questo caso di un atleta. Se la mente funziona bene, allora anche il corpo si muoverà meglio; se la mente funziona bene, il corpo sarà in grado di spingersi persino oltre i propri limiti. Quando la mente cede, anche un “supereroe” difficilmente sarà in grado di utilizzare le sue capacità e i suoi super poteri al meglio.
“..Perdimos mucho tiempo por cosas que no importan. El fútbol cada vez es más mediático e influyente en la vida de los otros. Pero la salud mental es fundamental y en el fútbol falta.”
E. Cavani
La salute mentale è fondamentale e non va sottovalutata né nel calcio né nella vita di tutti noi.
Continua il nostro affascinante viaggio nel mondo della psiche umana In questa tappa del nostro viaggio ripercorreremo ancora una volta le numerose e tortuose strade delle emozioni. Quelle emozioni legate al cibo e alle nostre abitudini alimentari. Strade in apparenza conosciute, ma spesso piene di luoghi inesplorati. Buon Ascolto..
Tutti i bambini crescono, meno uno. Sanno subito che crescono, e Wendy lo seppe così. Un giorno, quando aveva tre anni, e stava giocando in giardino, colse un fiore e corse da sua madre. Doveva avere un aspetto delizioso, perché la signora Darling si mise una mano sul cuore ed esclamò, -Oh, perché non puoi rimanere sempre così!- Questo fu quanto passò fra di loro circa l’argomento, ma da allora Wendy seppe che avrebbe dovuto crescere. Tu sai questo quando hai due anni. Due anni sono l’inizio della fine.
Peter Pan
La Sindrome di Peter Pan è probabilmente una delle sindromi psicologiche più conosciute e discusse, anche al di fuori delle sedi cliniche e didattiche.
In realtà, pur essendo universalmente riconosciuta, la sindrome di Peter Pan non è presente nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM V).
Il termine è entrato nell’uso comune dopo la pubblicazione nel 1983 di un libro di Dan Kiley, intitolato The Peter Pan Syndrome: Men Who Have Never Grown Up.
Sostanzialmente quella di Peter Pan descrive una condizione psicologica che caratterizza una persona che si rifiuta o è incapace di crescere, di pensarsi e diventare adulta e quindi di accettare di assumersi le responsabilità legate al passaggio alla fase successiva del proprio ciclo di vita.
C’è quindi un rifiuto verso il “mondo adulto”, perché lo si ritiene ostile. “Peter Pan” si rifugia spesso nel suo mondo e in comportamenti e atteggiamenti molto vicini al mondo dei giovani e dei bambini.
fonte: web
“Mi manderete a scuola?” chiese Peter Pan. “Sì” “E poi in ufficio?” “Credo di sì” “E presto sarò un uomo?” “Molto presto” “Ma io non voglio andare a scuola e imparare cose serie” disse stizzito “Io non voglio diventare un uomo. Oh mamma di Wendy, se un giorno dovessi risvegliarmi e accorgermi di avere la barba!”
Peter Pan
Una persona con la Sindrome di Peter Pan non vuole crescere. E per fare in modo di bloccare il tempo resta ancorato alla sua fase egocentrica, narcisistica ed immatura tipica dei bambini.
Peter Pan teme gli impegni e le responsabilità e sfugge ad essi con tutte le sue forze, spesso anche con strategie elaborate. Hanno, inoltre, una idea tutta loro di libertà; infatti tutto ciò che implica un loro impegno o responsabilità viene considerato come qualcosa che può minare seriamente la loro libertà personale.
Generalmente questa sindrome è molto più presente nel genere maschile, ma non si escludono anche casi di donne affette da tale sindrome.
Ci sono dei comportamenti o dei segnali caratteristici e riconoscibili per riconoscere un Peter Pan? In effetti si..
Ad esempio, chi ha la sindrome di Peter Pan accetta raramente di convolare a nozze, di convivere e comprare casa con il proprio partner. Ha difficoltà ad andare a fondo nei problemi perché potrebbero compromettere la relazione e la sua libertà.
Peter Pan può apparire come una persona molto affascinante, intraprendente, divertente ed estroversa, ma in realtà dietro questa facciata si nasconde, in genere, un manipolatore molto resistente ai cambiamenti.
Infine, Peter Pan è spesso incapace di godersi le cose, si può legare con grande passione a oggetti e cose materiali, ma se ne può liberare velocemente, senza una ragione particolare.
I segnali che fanno pensare alla Sindrome di Peter Pan non devono essere sottovalutati, perché a lungo andare possono cronicizzarsi e aggravarsi. Ovviamente questa condizione può compromettere seriamente la vita e il quotidiano, sia di chi ne soffre sia di chi vive insieme a Peter Pan.
Un aiuto Psicologico è in questi casi necessario e consigliabile.
“Tutti abbiamo paura di cambiare. Una delle ragioni principali della resistenza a comprendere, è la paura del cambiamento: se veramente mi permetto di capire un’altra persona, posso essere cambiato da quanto comprendo.”
Carl Rogers
Il Cambiamento – ilpensierononlineare channel – Youtube Shorts
“Nel gioco i bambini riproducono simbolicamente fantasie, desideri, esperienze. Nel farlo si servono dello stesso linguaggio, della stessa forma di espressione arcaica e filogeneticamente acquisita che ci è ben nota nei sogni”
Melanie Klein
Melanie Klein fu tra le prime ad utilizzare il gioco e nel particolare l’uso dei giocattoli nelle terapie con i bambini. Fu però la prima a teorizzare che l’uso dei giocattoli nella terapia infantile può considerarsi esattamente l’analogo delle “associazioni libere” negli adulti.
Il gioco, quindi, secondo la Klein esprime un significato simbolico che può essere interpretato, esattamente come accade per la associazioni libere.
I processi mentali che accadono durante una seduta terapeutica infantile con i bambini sono praticamente gli stessi di quelli che avvengono negli adulti, con la sola differenza che mutano le modalità espressive.
I bambini mettono in scena i propri pensieri, proprio come avviene nel corso dell’esperienza onirica, dove le espressioni verbali vengono sostituite da rappresentazioni corrispondenti. Nel setting dell’analisi infantile accade proprio questo.
Durante l’ora di analisi, secondo la Klein, bisogne tener conto del comportamento complessivo assunto dal bambino; si considera quindi il materiale prodotto attraverso la manipolazione dei giocattoli, la rappresentazione dei ruoli, i disegni spontanei, l’uso e il ritaglio della carta..
Infine secondo la Klein è molto importante il modo con il quale il bambino fa tutte queste cose, il perché passa da un gioco all’altro e gli strumenti scelti.
Tutto il “materiale” prodotto dal bambino durante la seduta verrà poi analizzato e proprio come avviene per i sogni, si rivelano i pensieri latenti e la loro carica affettiva.
Con il gioco, la realtà psichica acquista un’autonomia.
Si rendono “pensabili i desideri prima rimossi e le energie preposte alla censura vengono rimesse in circolo, rafforzando il debole Io infantile”.
Inoltre, non è necessario che il bambino rielabori in maniera consapevole le interpretazioni che gli verranno proposte. Queste interpretazioni arriveranno direttamente al suo inconscio.
A dimostrare che il “messaggio” è stato recepito e che vi è stata una modifica nell’ “economia psichica” ci sarà un’accresciuta produttività e una diminuzione dell’angoscia.
Insomma, per la Klein, durante la seduta con il bambino, nulla è casuale, ma è tutto determinato da motivazioni inconsce.
“Essere annoiati significa essere sconnessi dal mondo”
John D. Eastwood (Psicologo – York University Toronto)
La noia si può definire come una condizione psicologica caratterizzata da demotivazione, sentimenti di vuoto, riluttanza al movimento e all’azione, insoddisfazione. è una condizione umana che ha da sempre focalizzato l’interesse della psicologia e della psicoanalisi, e anche la filosofia.