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Autolesionismo (Self injury) – Il dolore celato.

Questa sera ripropongo un articolo di qualche tempo fa sull’autolesionismo. Un problema abbastanza diffuso tra i giovani e i meno giovani, che ha un peso specifico non indifferente nelle vite delle persone che ne soffrono. L’espressione fisica di un dolore per lo più celato, non condivisibile.. ma spesso l’impossibilità del non detto e dell’espressione emotiva, diventa emulazione pericolosa. Insomma un problema molto complesso e dalle tante sfaccettature. Buona lettura!

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L’autolesionismo (in adolescenza) si potrebbe definire come una forma di aggressività auto diretta atta a “scaricare e svuotare” una sensazione di “pieno” malessere interiore che può essere legato a situazioni personali o interpersonali.

È
un fenomeno comportamentale già ampiamente trattato e discusso in letteratura.
Ha radici ampie e molto profonde nelle persone, nella società, nelle diverse
culture e religioni.

Negli ultimi anni questo comportamento pare abbia assunto connotazioni differenti. Difatti la diffusione delle immagini e dei video degli “atti” di self injury, attraverso la rete e i social, funge da rapido “veicolo contenitore” e da amplificatore, per le nuove generazioni di adolescenti. Questi “luoghi del virtuale” raccolgono l’espressione di una collettività che vuole restare invisibile, ma che cerca la visibilità e che si serve del mezzo virtuale per trovare altri simili e limitare così la solitudine che…

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L’importanza del “NO”.

Negli ultimi tempi in molte famiglie è cresciuto l’interesse per le emozioni dei bambini e dei loro vissuti personali. Questo interesse ad approfondire e sensibilizzarsi alle necessità dei bambini è decisamente una cosa molto positiva. Ma questo interesse, a quanto pare, va di pari passo con la necessità di molti genitori di evitare nei loro figli l’emergere di emozioni negative e quindi assolutamente da nascondere.

Per molti adulti, il modo più semplice per evitare (ed evitarsi) sensazioni spiacevoli e frustrazioni (rabbia, tristezza, pianto) è quello di abolire l’uso del “no”. C’è infatti una abitudine molto condivisa nelle giovani coppie di genitori “a lasciar perdere” a “non porre dei limiti” ai propri piccoli.

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Le reazioni di frustrazione dei bambini, sono abbastanza normali e comuni, semplicemente perchè i bambini piccoli, sono ancora caratterizzati da un egocentrismo molto marcato. Quindi questa loro “posizione cognitiva” li porta a voler avere tutto, e a voler vedere soddisfatte tutte le loro richieste e tutti i loro desideri, subito. Purtroppo la maggior parte dei genitori davanti alla possibilità di una reazione “esagitata” e negativa del bambino, tendono ad assecondare tutte le richieste e spesso a concedere anche di più. Queste concessioni spesso non sono pensate e possono portare qualche volta a conseguenze spiacevoli.

Pare che la tendenza degli adulti è quella di voler rimandare, in qualche modo, il periodo dei divieti, delle regole e dei no, all’adolescenza. o almeno ai primi anni di scuola primaria (7-8 anni), dove l’intercessione e l’aiuto sperato della scuola e degli insegnanti può rivelarsi a quel punto un po’ caotico. Spesso infatti tanti conflitti tra le famiglie e la scuola hanno origine nella gestione del comportamento dei bambini a scuola.

I primi “no” hanno un ruolo importantissimo nello sviluppo del bambino e con essi le prime emozioni negative. Lo stesso Psicologo infantile René Spitz mostrò l’importanza delle proibizioni fin dal primo anno di vita del bambino. In particolare Spitz studiò le interazioni adulto – bambino sin da quando quest’ultimo comincia a muoversi in maniera indipendente e volontaria (quando gattona o muove i primi passi e comincia a manipolare con interesse gli oggetti) e quindi può fare cose che lo possono mettere in pericolo. Egli mostrò che il bimbo piccolo, in genere, ripete verbalmente il no dell’adulto, accompagnandolo anche con il gesto della negazione con la testa. Tuttavia capita che il bambino torni sull’oggetto “proibito”, perché troppo attratto da esso, pur continuando a ripetere il “no”. L’adulto spesso interpreta questo movimento verso l’oggetto negato del bambino, come un atto di sfida. In realtà non è proprio così, in quel caso il bambino ha bisogno solo di avere una conferma e quindi anche di una risposta coerente, che lo possa portare ad “apprendere” quel no.

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Insomma, secondo Spitz, l’esperienza del “no” è una tappa fondamentale per lo sviluppo del bambino piccolo, che coinvolge sia aspetti emotivi che cognitivi. Infatti, identificandosi con la madre, che attraverso la negazione di un atto, gli sta infliggendo una frustrazione, il bambino ne riesce ad interiorizzare il divieto e il significato di questo, così potrà poi superare la sensazione di frustrazione in maniera positiva. In questo modo, compare per la prima volta anche una parola (il no), che prende un significato e sostituisce un gesto o un’azione.

Grazie all’uso dei primi “no” diventa possibile uno scambio reciproco, comunicativo, che genera le prime astrazioni. Il no quindi ha un significato determinante anche per la strutturazione dell’identità e per il carattere del bambino, che avrà la possibilità di far fronte alle frustrazioni e alle difficoltà.

Il divieto e la negazione, provocano certamente un disagio e malessere nel bambino, ma di contro rappresentano una fase di sviluppo importante.

Ma affinchè il “no” funzioni bisogna sia usato con coerenza e fermezza, ciò non vuol dire che bisogna dirlo in modo adirato, anzi il contrario, deve essere utilizzato con tono pacato, ma fermo e sempre motivato. Dirlo in maniera adirata creerebbe solo confusione e non avrebbe un peso comunicativo adeguato. Ovviamente ai no devono assolutamente essere collegati molti “si”, anch’essi coerenti e adeguati.

Insomma l’uso dei “no” deve essere un’occasione anche per gli adulti, per “crescere” insieme al bambino, come genitori consapevoli dell’importanza del loro ruolo e della chiarezza della comunicazione nelle relazioni con i propri bambini.

“Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi

La pandemia silente.

In queste settimane stanno arrivando alla spicciolata i primi dati relativi ai “danni” psicologici legati alla pandemia da Covid-19 e sono abbastanza preoccupanti. Personalmente, nel mio lavoro quotidiano con i pazienti che ricevo nel mio studio e prima ancora con gli immigrati che seguivo nei centri d’accoglienza, avevo notato un certo incremento di alcuni sintomi legati all’ansia e allo stress più in generale, ma in alcuni casi, ci sono stai dei peggioramenti abbastanza evidenti nell’umore delle persone (sintomi legati alla depressione), fobie e attacchi di panico, perdita di riferimenti chiari per il futuro, apatia e rabbia. In diversi casi ci sono state anche delle evidenti regressioni e ricomparsa di sintomi che erano perlopiù stati superati in terapia.

Insomma nel mio piccolo ho notato in queste settimane soprattutto a partire da settembre una situazione decisamente preoccupante e ancor più preoccupante pare essere il velato disinteresse (mascherato da interesse estemporaneo e mirato) dell’informazione e delle amministrazioni predisposte ad attivare degli interventi.

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L’emergenza sanitaria, che ormai dura da quasi dieci mesi e probabilmente proseguirà per un bel po’. Ha come caratteristiche principali quelle della indeterminatezza nel tempo, della insicurezza legata all’imprevedibilità dell’evoluzione pandemica e la lotta contro un nemico invisibile. Questi elementi, insieme alle misure stringenti del governo per contenere il contagio, locali e nazionali, hanno un forte impatto psicologico sulle persone, che vivono personalmente, a livello familiare e collettivamente cambiamenti drastici ed evoluzioni spesso peggiorative delle loro condizioni di vita. Molti devono affrontare perdita del lavoro, riduzione delle ore lavorative o allontanamento forzato dal lavoro (alcuni affrontano le inadempienze del governo, con grandi ritardi negli aiuti economici); altri devono affrontare la stessa malattia con la paura, le insicurezze e la solitudine di lunghe quarantene; altri devono affrontare il dolore dei lutti. Insomma questo stato di emergenza ha costretto tante persone a sacrifici continuativi e a “rotture” improvvise. Da alcuni dati mostrati dalla Fondazione Soleterre nell’ambito del Fondo Nazionale per il Supporto Psicologico Covid-19, delle persone da loro seguite (91) il 31% manifesta disturbi da stress post traumatico in forma grave e il 2% molto grave. Tra i sintomi più comuni c’è la depressione (nel 23% moderata e il nel 40% grave); l’ ansia ( nel 37% moderata e nel 32% grave); la rabbia (nel 25% moderata e nel 23% grave); disturbi del sonno (nel 17% moderata e nel 22% grave) e uso di sostanze (nel 37% grave). In alcuni casi si sono registrati anche episodi di violenza domestica.

In un articolo recente su fanpage è riportato un dato denunciato da Spi Cgil Lombardia che ha messo in atto uno studio sul tema, ma legato alle conseguenze psicologiche sugli anziani; il 30% degli anziani ha subito un peggioramento della propria situazione psicologica rispetto al periodo precedente al primo lockdown di marzo (questi dati sono venuti fuori da un lavoro congiunto effettuato con l’Istituto Mario Negri in Lombardia).

“L’ultima rilevazione sullo stress degli italiani, del 2 novembre, ci da un indice di 62 su 100, lo stesso livello di marzo. Il 41% delle persone evidenzia un livello di stress tra 80 e 100 su 100 (Centro Studi CNOP, Ist. Piepoli 02.11.20).”

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Concludo dicendo che bisogna smetterla di considerare il “dolore psicologico” come un “danno” relativo e di minore importanza. Un qualcosa che esiste, ma che è meglio non considerare. Ciò significa squalificare e svalutare un disagio che non riveste solo il singolo, ma che riguarda tante persone. Non è mai troppo tardi per comprendere e rimediare.

“Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi

Sono esausto! Quando lavorare diventa una forma di disagio a tutti gli effetti.

 

Lavorare è un termine che fin dalla sua etimologia latina “labor” (fatica), mostra il carattere di sofferenza, dolore, insito nell’azione stessa. Strizzando l’occhio anche al resto d’Europa, la situazione non cambia : per i francesi “travaillè” indica dolore, per i tedeschi “Arbeit” comporta “servitù”.

Com’è pertanto possibile che l’attività che dovrebbe rendere l’uomo artefice della propria esistenza , consentendogli non soltanto di provvedere al proprio (e familiare) sostentamento, ma anche la sua piena espressione, possa essere fonte di sofferenza e dolore?

Attualmente il mondo del lavoro continua a subire profondi cambiamenti, appare dunque difficile darne una descrizione dovendo muoversi tra contratti sempre più inesistenti, orari di lavoro sempre più lunghi e mal pagati, qualifiche prima richieste (obbligando il personale a ricorrere magari a corsi a pagamento), per poi sentirsi dire in un secondo momento, che “le troppe qualifiche” non servono per il posto da occupare. In questo mondo così vacillante e incerto , anche coloro che magari un posto “fisso” lo hanno, possono incorrere in difficoltà.

job burnout

Burnout – esempio di stress cronico.

Il burnout indica un disagio professionale esito di uno stress cronico, identificato dapprima nell’ambito delle occupazioni sociali e sanitarie, fino ad estendere le proprie radici nelle diverse professioni di aiuto e in quelle in cui è fortemente richiesto lavorare rapportandosi con le persone. .

Il burnout  è caratterizzato da tre componenti:

  • depersonalizzazione: aumenta la distanza psicologica  tra l’operatore (colui che presta il servizio con il proprio lavoro) e l’utente (colui che ha bisogno dell’assistenza) che viene percepito negativamente
  • esaurimento emotivo: dovuto a eccessivo coinvolgimento emozionale che comporta una sorta di effetto boomerang, per cui l’operatore tenderà a provare sempre meno empatia
  • il senso di ridotta autorealizzazione: ci si sente incapaci di poter realizzare sia nel lavoro, che nel rapporto con gli altri, le proprie capacità e aspettative

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Il lavoratore è ancora presente sul lavoro, nel senso che continuerà ad andare quotidianamente a lavorare, ma mostra crisi d’identità, non riconoscendosi nè come persona, nè come lavoratore. La persona tenderà pertanto a mettere in atto risposte difensive come rigidità, indifferenza, apatia, oppure atteggiamenti quali comportamento aggressivo , tono della voce alto, improvvise crisi di rabbia. 

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Il burnout è in definitiva, un disagio da non sottovalutare. Bisogna sempre essere molto accorti e sensibili quando, nel mondo del lavoro, scorgiamo o avvertiamo segnali di disagio.  Non sottovalutiamo un collega (o noi stessi), se incominciamo a provare disagio quando semplicemente pensiamo di dover andare a lavoro . E’ molto importante intervenire tempestivamente al fine di contenere una possibile escalation del fenomeno.

 

Dott.ssa Giusy Di Maio