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Violenze domestiche: conseguenze psicologiche e fisiche.

Il fenomeno della violenza domestica ha a che fare con una serie di azioni che hanno luogo all’interno della relazione che partono dal passato e arrivano al presente. Questa serie di condotte e azioni riguardano l’aspetto psicologico, economico, fisico e sessuale. Nel tempo le conseguenze di questi atti possono portare a danni di natura fisica e psicologica.

La violenza psicologica è moto subdola e può riguardare tutta una serie di atteggiamenti intimidatori, vessatori, denigratori. Sono subdoli perché spesso non esplicitati e di difficile comprensione da parte delle persone estranee alla coppia. Il partner tende infatti a mettere in atto tutta una serie di “strategie” di isolamento, limitazione dell’espressione personale e terrore, nei confronti dell’altro partner. Attuando ricatti, insulti verbali, colpevolizzazioni nel privato e nel pubblico, umiliazioni e denigrazioni. Spesso l’ “efficacia” pervasiva di questi atti porta ad un vero e proprio “lavaggio del cervello” e la sensazione da parte delle vittime, di vivere sempre con la paura che possa succedere qualcosa di molto grave. La continua esposizione a queste condizioni portano le donne (che nella maggior parte dei casi sono le vittime delle violenze domestiche) ad avere gravi danni sul piano psicologico.

La conseguenza di queste situazioni porta la donna vittima di violenza a colpevolizzarsi continuamente, portando dentro di sé una sensazione costante di inadeguatezza. Entra così in un circolo vizioso di accondiscendenza e sottomissione alle richieste del maltrattante, così da risultare il più possibile adeguata alle sue richieste, per non farlo adirare.

Si crea così una sorta di perversa dipendenza psicologica dall’aggressore maltrattante.
La maggior parte delle donne che denunciano il partner che le maltratta, spesso non hanno intenzione di lasciarlo, ma solo di contenerlo e controllarlo. Capita che una volta subite le prime violenze le donne, loro malgrado, interpretano il ruolo di vittima. La serie di atti prima descritti e la pressione psicologica generata dal comportamento del maltrattante genera nella donna, come fonte di sofferenza, il senso di colpa per il sospetto di essere responsabili di quella reazione, in sintesi di meritarla.


In diversi i casi può accadere un ribaltamento della situazione: il soggetto maltrattante dopo la violenza diventa vittima della vittima, che ora si trova in una posizione di dominanza, desiderando il perdono.
Si invertono così i ruoli se la donna minaccia l’allontanamento fisico l’uomo risponde con il vittimismo. Questo altalenarsi della relazione in un sorta di danza perversa di dominanza/sottomissione, permette alla donna di restare. La donna infatti in questo caso avverte il vittimismo del compagno come un momento di gratificazione e quindi s’illude di poter avere la possibilità di “aggiustare” e controllare la relazione.

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Le donne spesso denunciano questi fatti a parenti ed amici i quali non hanno le capacità o non avvertono la necessità di impedire l’aggressione fisica e psicologica.
La famiglia può rappresentare una risorsa e un aiuto, ma tante volte può diventare un ostacolo e paradossalmente può giustificare in qualche modo le violenze. Infatti può capitare che alcune famiglie possono incoraggiare la donna a tenere unito il matrimonio per ragioni etico religiose, giustificando anche la loro linea di pensiero con il fatto che i danni non sembrano particolarmente gravi.
Ad esempio può capitare quando nel compagno maltrattante viene riconosciuta una situazione di sofferenza, una qualche patologia mentale o psichica. In questo caso la donna non legittima la separazione in quanto comprende la sofferenza dell’altro, subordinando la propria di sofferenza.

La violenza fisica comprende invece tutta quella serie di azioni atti a far del male (procurare dolore fisico e segni) e quindi a spaventare la vittima, che può temere continuamente per la sua incolumità. La violenza fisica può essere esperita in tanti modi diversi (calci, pugni, morsi, colpi alla testa, torsioni del braccio, soffocamento, scossoni, spintoni). Queste violenze fisiche sono agite proprio per spaventare e rendere l’altra persona in un stato di soggezione e controllo.

La violenza economica riguarda tutta quella serie di espedienti volti ad evitare che la donna arrivi ad avere una indipendenza economica. Ciò ovviamente ha come finalità quella di rendere la donna sempre e comunque dipendente e senza nessuna possibilità di pensare di poter essere economicamente emancipata. Anche quando la donna ha un lavoro, il maltrattante farà in modo di gestire o sperperare il denaro del lavoro della partner., che sarà costretta a nascondere una parte dei propri introiti.

La violenza sessuale riguarda tutti quegli atti legati alla sfera del sessuale. Il partner in questo caso è costretto ad avere rapporti sessuali, con minacce, violenze e ricatti. Costrizione ad avere rapporti anche con terzi e visionare o fare video.

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La violenza e gli abusi contro le donne non hanno alcuna giustificazione, qualunque natura essi abbiano.

Non bisogna mai sottovalutare i primi segnali di una escalation violenta.

Mai sottovalutare le offese, mai sottovalutare la limitazione delle libertà, mai sottovalutare i gesti e le intenzioni, mai sottovalutare una spinta o uno schiaffo!

Denunciare e chiedere aiuto è un grande passo verso la libertà.

La violenza domestica e contro le donne non può essere tollerata!

“Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi

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Quando la leadership va in pensione..

Non è raro che molti leader fanno di tutto e impiegano tutti i mezzi e energie per mantenere una base di potere, quando sono alla fine del loro periodo di attività. In quanto, il senso di perdita e di invecchiamento può indurre nelle persone (abituate ad avere grossi ruoli di responsabilità) una idea di perdita di potere, che risulta essere molto sgradevole.

Una posizione di grande responsabilità e potere, può in diversi momenti costringere il leader ad operare e prendere decisioni in solitudine ed è proprio questo isolamento che provoca quel timore di restare soli e di deprimersi, in seguito alla perdita del potere. “La minaccia di cadere da un momento all’altro nella non-esistenza, l’esperienza della propria nullità generano un’ansia enorme” (Manfred F.R. Kets de Vries,1995).

I leader diventano spesso uomini soli, costretti ad allontanarsi dagli altri, sia a causa della loro posizione sia a causa dei propri comportamenti. Quando sono alla fine della propria attività e magari anche prossimi al pensionamento, le loro relazioni (anche quelle sentimentali) risultano inficiate; sono spesso così soli da avere solo pochissime persone a cui rivolgersi per un sostegno, un consiglio o un aiuto.

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“Il terrore di una simile esperienza può portare un leader ad aggrapparsi alla sua carica, anche se questo limita i suoi contatti personali alla frequentazione di persone motivate solo dai propri interessi e dall’adulazione sfacciata“. (Manfred F.R. Kets de Vries, 1995).

Interessante è anche un altro elemento che accompagna la prospettiva dell’abbandono del potere, cioè il timore a volte inconscio “ma più spesso subliminale” dell’arrivo improvviso di una particolare punizione, da parte degli altri. De Vries parlava di paura della “legge del taglione” (una paura quasi atavica).

Questa consapevolezza inconscia porta spesso e volentieri i leader a gestire in modi diversi la propria paranoia. Alcuni leader rispondono a questo timore attraverso la “sindrome del senso di colpa” (Levinson,1964) che è la tendenza a non fomentare o ridurre al minimo i conflitti per non far aumentare la rabbia tra le persone. Alcuni leader e dirigenti, vivono con la paura che prima o poi qualcuno possa fargli qualcosa, ma il potere, fin quando c’è, fa da scudo protettivo. Altri leader invece possono rispondere in maniera diversa a questa paranoia cioè impegnandosi “senza via di scampo in una escalation di aggressività. Il timore paranoide di ritorsioni li rende attaccati al potere e pronti a prevenire l’aggressione altrui per mezzo di iniziative tese a demolire gli oppositori, veri o supposti, anche senza che nulla indichi in loro l’intenzione di vendicarsi“. (Manfred F.R. Kets de Vries, 1995).

“Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi