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“Metà uomo metà Flow”.

(…) Nei paragrafi precedenti, ho accennato alla struttura metrica del rap, andando ad evidenziare come questa possa contare sulla regolarità (il beat, altro elemento caratteristico del rap è il battito che serve a scandire il tempo della battura: laddove cade il battito che di solito viene percepito dall’ascoltatore come un colpo di batteria o percussioni, cade la rima). Ciò che rende diverso il rap da altri generi musicali, è il forte uso che viene fatto delle figure retoriche (allitterazioni, climax, metafore..) o delle rime, che concorrono ad aumentare la musicalità del testo; ne deriva pertanto che i testi rap, possano essere accostati alla poesia.

Uno dei teorici che si è dedicato alla musicalità come essenza della poesia è stato Edgar Allan Poe, che nel 1846 ha sostenuto “la musica è come l’idea della poesia. L’indeterminatezza della sensazione suscitata da una dolce aria, che dev’essere rigorosamente indefinita, è precisamente quello a cui dobbiamo mirare in poesia”.

Ne deriva quindi che secondo Poe è importante che nella poesia, la parola debba essere “indefinita” ovvero deve suscitare delle sensazioni e non avere un significato come quello che ad esempio, gli attribuirebbe il linguaggio della quotidianità, e per far ciò, deve avere come modello proprio l’arte dei suoni.

Il significante (la sonorità) prende il sopravvento sul significato; non diviene quindi importante cosa viene detto ma come quel qualcosa viene detto in quanto è difficile parlare di un significato universale, giacché trattiamo contenuti simbolici a cui ciascun individuo, può attribuire lettura diversa. La musica si presenta pertanto connotata da un forte carattere simbolico in cui è l’espressività ad essere centrale; questa espressività è diversa dal segno linguistico in quanto questo viene (in un certo senso), esaurito dalla sua funzione referenziale mentre la musica non essendo subito leggibile (non avendo quindi un significato immediato) assume il ruolo di simbolo dotato di forte contenuto espressivo.

I brani rap, avendo una metrica cadenzata e regolare permettono all’individuo di leggere e rileggere il testo in quando il flow (il flusso delle parole) lascia spazio alla libera interpretazione agevolata dal forte legame con il corpo (il tempo4/4 su cui battono le canzoni rap, è un tempo regolare al punto che, diviene molto intuitivo comprendere dove cadono gli accenti; questo consente all’individuo di lasciarsi tra sportare fisicamente dal ritmo).

Il mondo rap riesce quindi ad assicurarsi una forte adesione nei membri (fan) sia perchè può contare su un abbigliamento specifico ma soprattutto perché lascia all’individuo la possibilità di leggere o rileggere il testo delle canzoni, agevolato dalla fluidità della metrica. Il rap con la presenza dei flussi di parole, riesce a creare una forte adesione, tanto che gli individuo arrivano a sentirsi parte di un gruppo.

Ma cos’è un gruppo? Il rap può realmente essere considerato un gruppo allargato?

Da “Parole sospese e giochi ritmici: analisi delle dinamiche relazionali e comunicative alla base del fenomeno musicale rap”, pp. 23-25, paragrafo “Che cos’è la massa”, 2015, G.S, Di Maio.

Dott.ssa Giusy Di Maio

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Gioco simbolico.

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Durante il secondo anno di vita, i bambini cominciano a pensare a situazioni possibili o ipotetiche e non più solo a cose presenti.

Questa nuova abilità – che apre la strada all’immaginazione nelle sue diverse forme – si manifesta inizialmente come “gioco di finzione”. E’ grazie all’opera di Piaget (nata dall’osservazione dei suoi tre figli) che conosciamo, nello specifico, tale abilità.

Secondo Piaget, possiamo affermare che il gioco di finzione segna l’emergere della rappresentazione simbolica, la capacità di usare qualcosa (il significante) per rappresentare qualcos’altro (il significato).

Alan Leslie pur concordando con Piaget, sostiene che vi sia una piccola differenza rispetto a quanto affermato dallo studioso svizzero. Se Piaget sostiene che il gioco simbolico, in quanto assimilazione pura è fondamentalmente un’attività individuale (e implica la creazione di simboli soggettivi), Leslie sostiene che nel momento in cui cominciano a far finta giocando da soli, i bambini riconoscono anche la finzione negli altri.

Il gioco è presente sin dalle fasi più precoci dello sviluppo e diventa via via più complesso e sofisticato: le forme rudimentali di gioco con l’oggetto (come la sua semplice manipolazione), si evolvono in gioco funzionale nel quale il bambino cerca di conformare l’azione all’oggetto; successivamente le azioni di gioco vengono separate dall’oggetto in sé e il bambino sarà in grado di fingere che un oggetto sia qualcosa di completamente diverso o di evocare un oggetto “finto”, dal nulla.

Leslie ha identificato tre aspetti chiave del gioco simbolico.

Il primo aspetto consiste nella fungibilità di un oggetto per un altro; il secondo consiste nel creare un oggetto immaginario; il terzo aspetto è costituito dall’attribuzione all’oggetto di proprietà simulate.

Anche un singolo episodio di gioco può contenere tutte le strutture prototipiche ravvisate dall’autore: sostituzione, creazione di un oggetto e attribuzione di proprietà.

E’ uno, in particolare, l’aspetto fondamentale del gioco simbolico: la creazione e attribuzione di stati mentali a oggetti inanimati.

Wolf e colleghi hanno documentato, con uno studio longitudinale, questo sviluppo. Intorno ai 18 mesi di età i bambini cominciano a trattare le bambole come rappresentazioni di esseri umani (ma le bambole non vengono dotate di sentimenti autonomi o facoltà di azione; vengono infatti nutrite, lavate e messe a letto). Tra i due anni e i due anni e mezzo, i bambini attribuiscono alle bambole alcune abilità comportamentali ed esperienziali (le bambole parlano) successivamente attribuiscono loro desideri, sensazioni ed emozioni. A partire dai tre anni e mezzo (quattro anni), i bambini iniziano a dotare le bambole di processi di pensiero più espliciti e intenzioni complesse.

Dal momento che il gioco simbolico costituisce la prima manifestazione della capacità metarappresentazionale che consente al bambino di comprendere e attribuire stati mentali a se stesso o agli altri, lo sviluppo dell’abilità simbolica di “far finta” è considerato la principale pietra miliare nello sviluppo della teoria della mente.

Giocare è sempre una cosa seria.

“Finisce bene quel che comincia male”.

Dott.ssa Giusy Di Maio.

Senza Parole: musica e inconscio.

Immagine Personale.

E’ possibile pensare all’inconscio partendo dal discorso musicale?

Da Freud in poi sentiremo parlare di inconscio non intendendolo come in precedenza era stato fatto ad esempio, dagli artisti romantici, dove la parola era usata per indicare l’interiorità oscura, l’inquietudine, la follia o l’irrazionalità.

Senza indagare troppo la questione “prima di Freud”, è con Sigmund stesso che l’inconscio viene pensato non più a partire dai suoi contenuti, ma dalle sue qualità formali, dal suo modo di funzionare, dalle sue formazioni. Ne deriva che la realtà dell’inconscio si manifesta sia nelle “cose da decifrare”, che in quelle che resistono a tale decifrazione; si manifesta soprattutto nelle dimenticanze, nel ricordo di quel che non è esistito, nella coazione a ripetere, nelle cose che non si riescono a pensare e dire, negli atti mancati.

L’inconscio diventa posto vuoto, cesura tra ciò che potrebbe e (forse?) non è; inconscio senza “rappresentazione” in quanto non è un contenuto o una data funzione localizzabile nel cervello, in un luogo stabile e preciso.

Jacques Lacan comincerà a ripensare all’inconscio guardando al linguaggio musicale.

Prima però di Lacan uno dei primi ad affrontare il rapporto “musica e psicoanalisi” fu Theodor Reik; ciò che Reik fece fu comprendere l’analogia tra ascolto musicale e ascolto psicoanalitico.

Reik introdusse infatti l’idea di un ascolto “il terzo orecchio” orientato non al contenuto e significati ma alle forme espressive cui ricorre il paziente durante il racconto. Diventano importanti ritmi, silenzi, prosodia, pause, tono, tutti elementi che ritroviamo nel discorso musicale. L’analista così facendo riesce a cogliere gli “infrasuoni del discorso inconscio” andando ben oltre il mondo apparente fatto di suoni che possono solo apparire consonanti, celando invece dissonanze o accordi non ben armonizzati.

Lacan riprenderà la funzione del suono dello shofar (corno ebraico). Generalmente si tratta di un corno di ariete che viene usato in momenti di raccoglimento, fede, pentimento dove offre un sottofondo sonoro particolarmente adatto a rendere sentimenti di commozione (di tale strumento si parla anche nella Bibbia).

Quando Lacan pensa al suono di tale strumento (soprattutto alla luce di come viene presentato e della funzione che ha nella Bibbia stessa), si chiede se si tratti di un semplice strumento o se, invece, non sia una voce, un sostituto della parola che reclama (in tal caso, obbedienza).

Se immaginiamo una musica, una melodia, percepiamo una sequenza di suoni “diciamo” armonica (il discorso sarebbe molto più ampio specie alla luce di moderni generi musicali non del tutto consonanti); di una melodia riconosco un ordine, una struttura e un codice in sostanza: un discorso.

Un discorso che può dire senza dire, analogamente a quanto un suono musicale può fare presentandosi come significante di qualcosa che non c’è (non in maniera visibile). Anche l’inconscio può presentarsi come costituito da qualcosa che “sta al posto di”.

Il significante prende il sopravvento sul significato e così come in una composizione artistica non mi fermo al suo significato immediato, scavo e scovo nell’inconscio tracce di significazione nascoste, celate tra le mille note raggruppate che creano trilli, acciaccature (in musica piccola nota che vediamo attaccata alla nota principale che suonata prima di, toglie una frazione di durata molto breve alla nota principale), abbellimenti del nostro mondo interno.

(Gli abbellimenti sono – brevemente- in musica note o gruppi di note accessorie, ornamentali, che sono inserite tra le note principali di una melodia per dare maggiore grazia al discorso musicale).

“Finisce bene quel che comincia male”.

Dott.ssa Giusy Di Maio

“Finisce bene quel che comincia male!”

Immagine Personale.

Oggi è con il pensiero del grande Totò, che vogliamo iniziare la nostra giornata.

“Finisce bene quel che comincia male” è un pò il mantra con cui da oggi, decidiamo di concludere, salutare e accompagnare tutti coloro che con tanto affetto, ci stanno seguendo. E’ un augurio, una speranza, una frase aperta e densa di significato.

Si tratta di una frase prospettica con cui tutti ci auguriamo di “truvà pace / trovare pace”, come invece Eduardo De Filippo, ci ricorda.

Ognuno nella vita ha calpestato strade dissestate; ha seguito percorsi dagli incomprensibili segnali. Ostacoli si frappongono quasi quotidianamente tra noi e i nostri obiettivi e la paura spesso aleggia sulle nostre scelte, ma nonostante tutto, non molliamo!

E’ proprio questo il messaggio che da oggi, decidiamo più che mai di voler condividere.. anche il peggiore degli inizi, può generare una magnifica gemma che se sapientemente coltivata, potrà dare vita a solidi rami e magnifici fiori.

Finisce bene ciò che comincia male, allora! e… Buona fine!

Dott. Gennaro Rinaldi Dott.ssa Giusy Di Maio