“Perché l’isola? Perché è il punto dove io mi isolo, dove sono solo: è un punto separato dal resto del mondo, non perché lo sia in realtà, ma perché nel mio stato d’animo posso separarmene.” Giuseppe Ungaretti
La solitudine è la condizione psicologica che nasce dalla mancanza di rapporti interpersonali (significativi) o dalla discrepanza tra le relazioni umane che un soggetto desidera avere e quelle che effettivamente ha; tali relazioni possono essere insoddisfacenti (per il loro numero, per la loro natura o per l’incapacità del soggetto stesso di stabilire o mantenere in essere tali relazioni).
La solitudine può diventare un dato inoltrepassabile dell’esistenza umana che non può mai uscire dal suo mondo e dal suo modo di percepire e vedere le cose; si tratta di ciò che in filosofia prende il nome di solipsismo (sottolinea l’assoluta invalicabilità della coscienza personale).
C’è poi una solitudine “scelta” come stile di vita per favorire esperienze di senso ulteriore a quello che comunemente viene considerato “il senso giusto, il senso buono delle cose” e , ancora, una solitudine che deriva dalla percezione del mondo come ostile e negativo che induce a rifugiarsi presso di sé finché non sopraggiunge, in certi casi, anche il disgusto di sé (dovuto al fatto che per aver tagliato i legami con tutto, l’esistenza si trova nell’impossibilitò di conferire altro senso a se stessa che non sia quello della prigionia della propria individualità).
Queste tre forme di solitudine sono state descritte a livello fenomenologico come finitezza dell’esistenza, pienezza dell’esperienza e vuoto dell’esperienza.
Una donna lamentava l’indifferenza delle persone “A stento chiedono come sto, ma tanto lo so.. a loro non interessa minimamente come io mi senta; sono solavivo nell’indifferenza del prossimo e il mio dolore cresce. Sento il bisogno di domande – che non ricevo- a cui non so dare una risposta.. Poi.. ne sento la mancanza, forte.. fortissima”.
L’assenza di parole genera un vuoto e la ricerca di una domanda che tarda ad arrivare “come stai?” lascia nello sconforto e preda della solitudine.
Una solitudine che sa farsi presenza nella stessa assenza rimandata da una eco incessante che si perde nel ricordo e nel bisogno.
La donna stava palesando, nel non detto, il desiderio non tanto di sentirsi chiedere come stesse, ma la potenza del dubbio incessante:
“Come sta?” “Cosa starà facendo?” “Si ricorda?”
L’abbandono avvenuto mesi fa, l’aveva lasciata come quei rametti che il mare talvolta rende alla riva: sfilacciata, spezzata, umida e scorticata.
L’abrasione non era tanto presente sul piano fisico, quanto sul piano psicologico dove Lei attuava un uso massiccio di difese, primo fra tutti l’isolamento dell’affetto (scissione dell’affetto dalla rappresentazione. Frequente ad esempio nei traumi. La rappresentazione resta cosciente, disturbante, ma è privata di connessioni emotivamente cariche. E’ ciò che in condizioni “normali” accade con pensieri quali quelli della morte che risultano così angosciosi da portare l’individuo a prendere una distanza affettiva).
La donna era rimasta sola e nei mesi aveva a lungo cercato una domanda, mai giunta.
Le parole vanno via, ma resta – in luogo del segno grafico o della componente fonetica- l’emozione che evocano e il ricordo.
La componente maggiormente dolorosa e più sottovalutata, della parola stessa, è il mondo interno che sa smuovere; il legame con i sentimenti, l’aggancio, l’amo che sa tendere al nostro inconscio giungendo ad abbattere anche le difese attuate dall’Io, istanza che protegge (e prova a proteggersi) dalle esperienze pulsionali eccessive (percepite come pericolose), dall’Es e le sue eccessive richieste istintuali.
“Come stai” è una domanda da porsi ogni giorno; un decentramento cognitivo importante perché consente noi di guardare alle nostre emozioni e ai nostri pensieri, come degli eventi.
E’ un guardarsi senza giudicarsi.
E’ porsi quasi nella prospettiva dell’altro restando se stessi nel mentre ci si osserva.
Quando qualcuno ci chiede “come stai”, non preoccupiamoci troppo della sua mancata attenzione alla risposta, gettiamo un amo nel nostro inconscio e prendiamoci cura di noi stessi.
Se poi.. abbiamo cura e bisogno di sapere come sta qualcuno.. non lasciamo che questo spazio resti vuoto creando sconforto e dilatazione al cui interno attecchisce il dolore o il dubbio.
“Come stai”.. resta – ancora- una delle domande e delle attenzione più belle da riservare all’altro e a se stessi.
La solitudine è quella condizione in cui una persona si trova ad essere sola per qualche motivo, per scelta personale o per una scelta forzata. La sensazione della maggior parte delle persone che affrontano questo tema rimanda ad un’accezione negativa del termine, in quanto chi è solo in genere viene “pensato” come una persona triste, depressa e strana.
In effetti l’uomo è un animale sociale, vive di relazioni, vive nelle relazioni, per le relazioni e si ammala di relazioni.
Se vediamo una persona sola abbiamo quasi sempre la tentazione di “riempire” la distanza che la separa dalla socialità. Quasi percepissimo il senso di vuoto ci prodighiamo affinché si trovi un rimedio a quel deserto relazionale che circonda la persona sola.
La sensazione di solitudine è uno stato personale che abbiamo provato tutti nella vita. Essa può essere negativa e provocare frustrazione e rabbia, delusione e tristezza, un senso di abbandono alimentato da una strana angoscia che alimenta quella paura di non riuscire mai a sperimentare la socialità. Quella negativa è la solitudine che deriva da situazioni impreviste, imposta dalle circostanze della vita: la fine di un amore, la prigionia, una malattia, l’isolamento percettivo o l’abbandono di una persona cara.
Ci può essere anche una solitudine imposta dalla società, quella che ci vede in presenza dell’altro, ma immersi nella solitudine degli schermi o quella imprevista che abbiamo potuto provare in questi mesi di pandemia.
Insomma una persona può trovarsi improvvisamente ad essere relegata in solitudine e non essere pronta e capace di stare da sola. In questo caso può soffrire molto.
La solitudine può però essere anche ricercata e voluta, come succede per i creativi, per gli asceti o ad esempio di chi vuole staccare dallo stress della quotidianità per recuperare le energie, per ritrovare se stesso. Molte persone riescono ad acquisire durante i primi anni di vita la capacità di trarre giovamento dalla solitudine, possono persino apprezzarla e gestirla come un bene prezioso.
Quanto siamo capaci di essere soli?
La capacità di essere soli secondo Donald Winnicott si può acquisire durante l’infanzia e può considerarsi un derivato positivo delle esperienze relazionali diadiche (con la madre) e triangolari (con la madre e il padre o gli altri). Lo stesso Winnicott attraverso un paradosso, dice che l’esperienza determinante e fondamentale affinché l’abilità di esser solo si sviluppi è l’esperienza di essere solo, da infante e da bambino piccolo, in presenza della madre.
La capacità di essere soli deriva dell’esperienza di esser soli in presenza dell’altro.
Nel piccolo viaggio che stiamo percorrendo insieme tra le strade della psicologia e i suoi numerosi vicoli e vicoletti che, a loro volta aprono ad ulteriori percorsi, desidero soffermarmi un po’ sul senso di solitudine.
Per senso di solitudine – in questo caso- non riferiamo alla situazione oggettiva di chi si trova privo ad esempio, di compagnia; ma a quel senso di solitudine più profondo che è quello interiore.
“Mi sento solo, Dottorè.. anche tra dieci, cento, mille persone.. Anche in famiglia.. anche tra gli affetti più cari..”
Secondo Melanie Klein, questo stato di solitudine interna dipende dall’aspirazione che tutti nutrono per una condizione irraggiungibile che è la perfezione interiore.
Il senso di solitudine può, per l’essere umano, essere inteso come un sentimento doloroso che si associa a stati interni di isolamento o abbandono, oppure come spazio di introspezione e di espressione della propria soggettività.
Se per la Klein il senso di solitudine affonda radici nella nostalgia che si prova per aver perso l’originaria sintonia tra inconscio della madre e inconscio del bambino, sintonia che rende possibile una comprensione profonda anche in assenza di parole (da qui poi la teoria diventa piuttosto complessa confluendo nelle due posizioni denominate Posizione schizoparanoide e depressiva), per Winnicott invece, la questione è diversa.
Winnicott sostiene che il senso di solitudine derivi da un difetto nell’esperienza di essere stato solo in presenza di un altro significativo. L’autore pone maggiormente l’accento sul versante positivo di tale capacità, considerandola una tappa importante nello sviluppo emozionale; ciò che è rivelante è che tale capacità si regga su un paradosso: per Winnicott il bambino deve “imparare” ad essere solo in presenza della madre.
La solitudine spaventa e spaventa ancor di più il sapersi pensare soli; l’immaginare cosa “potrebbe essere se”.. l’abbandono, il restare senza un sostegno.. percepire il mondo come trasparente intorno a sè e di converso, la paura di sentirsi trasparenti.
Nel temere di sentirsi trasparenti ed evanescenti, finiamo per cedere ed essere fagocitati dal buio..
“Intorno a me non c’era più niente, Dottorè.. Solo buio che mi tirava giù”.
Le parole con cui ho iniziato il tempo che oggi, stiamo trascorrendo insieme, a mio avviso ben riassumono quel che penso.
Il buio spaventa.. azzera i colori, la percezione.. altera lo spazio.. Al buio si perdono i punti di riferimento.. i confini della stanza o del posto dove siamo.. La testa gira.. strizziamo gli occhi cercando di accomodarli alla (non) luce.. Ma dal nulla nascono le cose.. dall’incertezza, dall’errore, dallo spaesamento.. lì germoglia il coraggio,
Oggi voglio parlarvi della paura e del suo esito più estremo il panico (approfondirò poi in un prossimo articolo il disturbo da attacchi di panico). Potremmo considerare il panico come quella sensazione di paura incontrollabile che può prenderci alla sprovvista e che ci rende impotenti. Spesso questa sensazione può avere delle connessioni con fattori oggettivi esterni, ma tante volte può alimentarsi con fattori interni all’individuo. La paura può infatti essere condizionata anche dall’interpretazione falsata di segnali esterni. La persona che la prova, per esempio, percepisce come pericolosi segnali che per altre persone risultano innocui e decisamente affrontabili.
Una crisi di panico può verificarsi sia in situazioni oggettivamente critiche e pericolose (incidenti, disastri, incendi…) sia in situazioni legate a luoghi della quotidianità (in supermercato, in ascensore, al cinema, in auto, per strada..), “l’elemento comune è che la persona perde il dominio di sé, dei propri atti e pensieri e cade sotto il dominio delle percezioni trasmessele dal contesto: spazio, rumori, luci, ombre. Si tratta […] di un disturbo che nei casi più gravi porta le persone che ne sono afflitte a non uscire di casa e/o ad avere sempre bisogno di una presenza rassicurante accanto a sé.” (Anna Oliverio Ferraris)
In alcuni studi e ricerche i ricercatori hanno potuto osservare che per far si che una situazione di ansia o paura si tramuti in panico in genere la persona si deve sentire anche psicologicamente isolata, senza riferimenti e magari in presenza di altre persone molto spaventate, impotenti e incapaci di dare sostegno o aiuto.
Quindi ciò che può predisporre una persona al panico, è un sentimento e un vissuto personale di impotenza e solitudine, oltre alle situazioni oggettive che si possono vivere in prima persona e che possono fungere da innesco al panico. Il fatto di sentirsi soli, senza una via di scampo e senza il possibile sostegno o il conforto di qualcuno, provoca una sensazione di smarrimento che quindi porta ad uno degli esiti più estremi della paura.
Questa emozione così forte e così dissestante ha una funzione originaria totalmente diversa. Essa preparava e organizzava la risposta personale e adattiva attraverso l’istinto di sopravvivenza, ad un evento reputato come potenzialmente pericoloso. La risposta poteva essere di difesa, attacco o fuga.
La paura è una emozione primaria importantissima e funzionale alla propria sopravvivenza e alla sopravvivenza degli altri, perché è facilmente riconoscibile dagli altri(se mi spavento per qualcosa allerterò gli altri, che se potenzialmente in pericolo potrebbero salvarsi). La paura si può quindi considerare come una emozione positiva (anche se è sempre vista nella sua accezione negativa).
L’autolesionismo (in adolescenza) si potrebbe definire come una forma di aggressività auto diretta atta a “scaricare e svuotare” una sensazione di “pieno” malessere interiore che può essere legato a situazioni personali o interpersonali.
È
un fenomeno comportamentale già ampiamente trattato e discusso in letteratura.
Ha radici ampie e molto profonde nelle persone, nella società, nelle diverse
culture e religioni.
Negli ultimi anni questo comportamento pare abbia assunto connotazioni differenti. Difatti la diffusione delle immagini e dei video degli “atti” di self injury, attraverso la rete e i social, funge da rapido “veicolo contenitore” e da amplificatore, per le nuove generazioni di adolescenti. Questi “luoghi del virtuale” raccolgono l’espressione di una collettività che vuole restare invisibile, ma che cerca la visibilità e che si serve del mezzo virtuale per trovare altri simili e limitare così la solitudine che spesso caratterizza questo comportamento.
L’autolesionismo o “Non Suicidal Self-Injury- NSSI” (come descritto nel DSM V) è un comportamento molto diffuso anche in Italia. Il “cutting” (denominazione anglofona) è la forma di autolesionismo più comune, che si manifesta in giovani dai 12 ai 22 anni in particolare. Consiste nel tagliarsi con lamette, coltelli, pezzi di vetro, chiodi. I dati non sono molti, ma si stima che in Italia siano circa 200.000 i giovani (nel 90% ragazze), che praticano il cutting. Il cutting è la forma di autolesionismo più praticata, ma ne esistono diverse; infatti l’autoferimento (self injurious) indica, più in generale, comportamenti volti al danneggiamento del tessuto corporeo, come tagli o bruciature.
immagine tumbrl
Nella maggior
parte dei casi gli atti di autolesionismo possono svanire con l’età, ma sono
più del 30% i giovani che rischiano il cronicizzarsi. “ Uno studio compiuto su studenti tra
i 13 e i 22 anni di Napoli ha riscontrato che il 42% di questi ha una
precedente storia di comportamento autolesionista ed il 10% riferisce più di 4
episodi nella vita (cit.
CIFRIC) (Cerutti, Manca, Presaghi e Gratz, 2010)”.
Lo
stesso studio, riportato alla popolazione universitaria, stima che circa il 21%
dei partecipanti allo studio ha riferito di aver avuto almeno un episodio di
auto-ferimento. La maggioranza è di sesso femminile e ha iniziato a tagliarsi,
la prima volta, in una età compresa tra i 13 e i 16 anni. In genere, soltanto
il 15% dei minori con questo disagio chiede aiuto.
Negli
ultimi anni, con lo svilupparsi rapido dell’uso delle tecnologie social tra i
giovanissimi, il trend è in forte aumento, a causa anche dell’emulazione
favorita da alcuni social che agevolano inevitabilmente la visibilità del
fenomeno.
Le motivazioni
alla base dei comportamenti di autoferimento, tendono ad essere attribuite dal
self-injurer a cause legate a diverse situazioni e potrebbero essere suddivise
in intrapersonali ed interpersonali. Spesso possono ricorrere a comportamenti autolesivi in
seguito a conflitti con figure importanti e molto significative della propria
vita come familiari, partner o amici.
Quindi le motivazioni potrebbero ricercarsi nella loro difficoltà nel regolare e gestire un certo tipo di emozioni, fermare sensazioni di vuoto, incapacità di reagire a situazioni complesse e stressanti ed altro. Difatti chi si auto ferisce spesso racconta di sentirsi senza speranza e vie d’uscita, oppresso da sensazioni negative. Raccontano, inoltre di sentirsi molto ansiosi e depressi e quindi ricorrono all’autoferimento proprio per provare a gestire questi momenti.
Pare,
infatti, che il gesto dell’autoferimento, riesca in qualche modo a congelare e
fermare queste forti emozioni. Ma la sensazione di “sollievo e benessere” è
molto limitata. L’equilibrio è mantenuto fino alla crisi successiva; pare
insomma che questo tipo di comportamento abbia caratteristiche simili e tipiche
delle dipendenze patologiche.
È quindi necessario comprendere a fondo e
fornire informazioni chiare sui comportamenti autolesionistici, principalmente
sul significato che viene attribuito da chi li mette in atto.
Intervenire in modo preventivo su questo comportamento, potrebbe rivelarsi essenziale, soprattutto nella fascia di età compresa fra i 12 e i 16 anni. Una buona campagna informativa nelle scuole (ad esempio) potrebbe predisporre ad una maggiore sensibilità e comprensione negli adulti (genitori e insegnanti) e nei ragazzi. È importante, infatti, in tali casi, cogliere alcuni segnali caratteristici nei ragazzi che ne soffrono e predisporsi all’ascolto, alla comprensione, all’empatia e cercare quindi un aiuto professionale. Rivolgersi ad uno Psicologo o ad uno Psicoterapeuta è certamente di grande aiuto per le famiglie e per i ragazzi; “cercare di dar sostegno piuttosto che stigmatizzare, inorridire o addirittura schernire o sminuire un comportamento che, per quanto terribile possa apparire, rimane l’unica cosa che dà sollievo al self-injurer” cit. (http://www.sibric.it )