“Dove ci sono in apparenza solo rovine e nient’altro, in realtà si possono scovare grandi tesori.”
Buona Visione!
#psicologia #shorts #youtubeshorts #ilpensierononlineare
“Finisce bene quel che comincia male”
Dott. Gennaro Rinaldi
“Dove ci sono in apparenza solo rovine e nient’altro, in realtà si possono scovare grandi tesori.”
Buona Visione!
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“Finisce bene quel che comincia male”
Dott. Gennaro Rinaldi
“Molti dei bivi più importanti delle nostre vite sono il risultato di casi banali”
Albert Bandura
Serendipità significa scoprire qualcosa di importante senza cercarlo.
La storia del termine serendipità probabilmente si può collegare a una storia che attinge ad un’altra storia.
Il 28 gennaio del 1754 Sir Horace Walpole, quarto conte di Oxford scrisse una lettera a Horace Mann dove descriveva una scoperta fortuita e fortunata che aveva fatto da poco. Cercando nella sua biblioteca personale, trovò per caso un blasone che decorava anche un quadro rinascimentale che proprio l’amico Horace Mann gli inviò da Firenze, quando aveva servito la corona come ambasciatore britannico presso il Granduca di Toscana.
Walpole descrisse la propria scoperta come un caso di “serendipity”, un neologismo coniato da lui stesso e che gli ricordava una fiaba che aveva letto da bambino: “I tre Principi di Serendippo”.
Serendippo è l’antico nome sanscrito di Ceylon, l’attuale Sri Lanka.
La fiaba racconta della storia dei figli del Re Jafer che viaggiando in paesi stranieri affrontano diverse esperienze e traggono ogni genere di conclusioni curiose dalle esperienze che vivono, nel corso del loro viaggio.
La morale della favola era che con il necessario spirito di osservazione si conoscono cose che restano nascoste agli altri e così facendo si dà una grossa mano alla propria fortuna.
Oggi il concetto di serendipità è molto considerato sia in ambito filosofico che scientifico. Resta infatti spesso oggetto di analisi da parte di ricercatori che lavorano in modo empirico in studi sul campo e di laboratorio.
Il meccanismo che farebbe scattare la serendipità è direttamente collegato all’osservazione casuale o a qualcosa di apparentemente insignificante che però attira l’attenzione a cui segue la cosiddetta incubazione.
Non possiamo controllare gli eventi della nostra vita e il modo in cui si verificheranno, ma possiamo fare in modo di sfruttarli al meglio delle nostre capacità.
La curiosità, l’apertura mentale, la speranza e la fiducia nelle proprie capacità e nella propria fortuna, sono le condizioni migliori per farlo.
“Finisce bene quel che comincia male”
dott. Gennaro Rinaldi
Oggi è con il pensiero del grande Totò, che vogliamo iniziare la nostra giornata.
“Finisce bene quel che comincia male” è un pò il mantra con cui da oggi, decidiamo di concludere, salutare e accompagnare tutti coloro che con tanto affetto, ci stanno seguendo. E’ un augurio, una speranza, una frase aperta e densa di significato.
Si tratta di una frase prospettica con cui tutti ci auguriamo di “truvà pace / trovare pace”, come invece Eduardo De Filippo, ci ricorda.
Ognuno nella vita ha calpestato strade dissestate; ha seguito percorsi dagli incomprensibili segnali. Ostacoli si frappongono quasi quotidianamente tra noi e i nostri obiettivi e la paura spesso aleggia sulle nostre scelte, ma nonostante tutto, non molliamo!
E’ proprio questo il messaggio che da oggi, decidiamo più che mai di voler condividere.. anche il peggiore degli inizi, può generare una magnifica gemma che se sapientemente coltivata, potrà dare vita a solidi rami e magnifici fiori.
Finisce bene ciò che comincia male, allora! e… Buona fine!
Dott. Gennaro Rinaldi Dott.ssa Giusy Di Maio
L’autolesionismo (in adolescenza) si potrebbe definire come una forma di aggressività auto diretta atta a “scaricare e svuotare” una sensazione di “pieno” malessere interiore che può essere legato a situazioni personali o interpersonali.
È un fenomeno comportamentale già ampiamente trattato e discusso in letteratura. Ha radici ampie e molto profonde nelle persone, nella società, nelle diverse culture e religioni.
Negli ultimi anni questo comportamento pare abbia assunto connotazioni differenti. Difatti la diffusione delle immagini e dei video degli “atti” di self injury, attraverso la rete e i social, funge da rapido “veicolo contenitore” e da amplificatore, per le nuove generazioni di adolescenti. Questi “luoghi del virtuale” raccolgono l’espressione di una collettività che vuole restare invisibile, ma che cerca la visibilità e che si serve del mezzo virtuale per trovare altri simili e limitare così la solitudine che spesso caratterizza questo comportamento.
L’autolesionismo o “Non Suicidal Self-Injury- NSSI” (come descritto nel DSM V) è un comportamento molto diffuso anche in Italia. Il “cutting” (denominazione anglofona) è la forma di autolesionismo più comune, che si manifesta in giovani dai 12 ai 22 anni in particolare. Consiste nel tagliarsi con lamette, coltelli, pezzi di vetro, chiodi. I dati non sono molti, ma si stima che in Italia siano circa 200.000 i giovani (nel 90% ragazze), che praticano il cutting. Il cutting è la forma di autolesionismo più praticata, ma ne esistono diverse; infatti l’autoferimento (self injurious) indica, più in generale, comportamenti volti al danneggiamento del tessuto corporeo, come tagli o bruciature.
Nella maggior parte dei casi gli atti di autolesionismo possono svanire con l’età, ma sono più del 30% i giovani che rischiano il cronicizzarsi. “ Uno studio compiuto su studenti tra i 13 e i 22 anni di Napoli ha riscontrato che il 42% di questi ha una precedente storia di comportamento autolesionista ed il 10% riferisce più di 4 episodi nella vita (cit. CIFRIC) (Cerutti, Manca, Presaghi e Gratz, 2010)”.
Lo stesso studio, riportato alla popolazione universitaria, stima che circa il 21% dei partecipanti allo studio ha riferito di aver avuto almeno un episodio di auto-ferimento. La maggioranza è di sesso femminile e ha iniziato a tagliarsi, la prima volta, in una età compresa tra i 13 e i 16 anni. In genere, soltanto il 15% dei minori con questo disagio chiede aiuto.
Negli ultimi anni, con lo svilupparsi rapido dell’uso delle tecnologie social tra i giovanissimi, il trend è in forte aumento, a causa anche dell’emulazione favorita da alcuni social che agevolano inevitabilmente la visibilità del fenomeno.
Le motivazioni alla base dei comportamenti di autoferimento, tendono ad essere attribuite dal self-injurer a cause legate a diverse situazioni e potrebbero essere suddivise in intrapersonali ed interpersonali. Spesso possono ricorrere a comportamenti autolesivi in seguito a conflitti con figure importanti e molto significative della propria vita come familiari, partner o amici.
Quindi le motivazioni potrebbero ricercarsi nella loro difficoltà nel regolare e gestire un certo tipo di emozioni, fermare sensazioni di vuoto, incapacità di reagire a situazioni complesse e stressanti ed altro. Difatti chi si auto ferisce spesso racconta di sentirsi senza speranza e vie d’uscita, oppresso da sensazioni negative. Raccontano, inoltre di sentirsi molto ansiosi e depressi e quindi ricorrono all’autoferimento proprio per provare a gestire questi momenti.
Pare, infatti, che il gesto dell’autoferimento, riesca in qualche modo a congelare e fermare queste forti emozioni. Ma la sensazione di “sollievo e benessere” è molto limitata. L’equilibrio è mantenuto fino alla crisi successiva; pare insomma che questo tipo di comportamento abbia caratteristiche simili e tipiche delle dipendenze patologiche.
È quindi necessario comprendere a fondo e fornire informazioni chiare sui comportamenti autolesionistici, principalmente sul significato che viene attribuito da chi li mette in atto.
Intervenire in modo preventivo su questo comportamento, potrebbe rivelarsi essenziale, soprattutto nella fascia di età compresa fra i 12 e i 16 anni. Una buona campagna informativa nelle scuole (ad esempio) potrebbe predisporre ad una maggiore sensibilità e comprensione negli adulti (genitori e insegnanti) e nei ragazzi. È importante, infatti, in tali casi, cogliere alcuni segnali caratteristici nei ragazzi che ne soffrono e predisporsi all’ascolto, alla comprensione, all’empatia e cercare quindi un aiuto professionale. Rivolgersi ad uno Psicologo o ad uno Psicoterapeuta è certamente di grande aiuto per le famiglie e per i ragazzi; “cercare di dar sostegno piuttosto che stigmatizzare, inorridire o addirittura schernire o sminuire un comportamento che, per quanto terribile possa apparire, rimane l’unica cosa che dà sollievo al self-injurer” cit. (http://www.sibric.it )
Dott. Gennaro Rinaldi