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Psicologia e sport: quando i fuoriclasse diventano “di troppo”.

Tutti vogliono una squadra di campioni e fuoriclasse. Tutte le squadre e tutti i tifosi (di qualunque sport) competono, nelle così dette “finestre di mercato” per accaparrarsi i migliori giocatori, spesso non badando ai bilanci.

Ma avere troppi campioni in squadra porta sempre dei benefici?

In una ricerca pubblicata su “Psychological Science” da Roderick Swaab e altri colleghi nel 2014, sono state messe a confronto le prestazioni di alcune squadre che avevano introdotto in squadra dei campioni. La ricerca ha preso in considerazione tre sport nello specifico: basket, calcio, baseball.

Individuati i migliori atleti, i ricercatori hanno calcolato la percentuale di campioni per ogni squadra dividendo, squadra per squadra, il numero dei grandi giocatori per quello totale dei giocatori nella rosa. Alla fine sono state considerate le prestazioni delle squadre misurando il rapporto tra sconfitte e vittorie, nel corso di dieci anni.

Michael Jordan

Sia per il basket che per il calcio, i ricercatori hanno trovato che il numero di campioni poteva condizionare positivamente il successo della squadra, ma solo fino ad un certo punto. Inoltre, i ricercatori hanno scoperto che aumentando il numero dei campioni, i risultati possono cominciare a peggiorare. Infatti le squadre di basket e calcio con un grande numero di talenti in squadra, avevano mediamente risultati peggiori delle squadre che avevano un equilibrio più moderato tra campioni e giocatori buoni e ottimi.

Perchè questi risultati strani?

Il gioco di squadra conta troppo. Il successo è direttamente proporzionale all’impegno e alla collaborazione comune, uno sforzo comune rivolto ad un obbiettivo condiviso. Paradossalmente con un eccessivo numero di campioni e fuoriclasse in squadra può subentrare in maniera consistente l’interesse per il prestigio individuale, e questo rischierebbe di invalidare gli obiettivi di squadra. Pensate ad esempio, ad un calciatore che pensa alla classifica della scarpa d’oro (miglior marcatore europeo) e nelle ultime partite di campionato, pur di segnare un gol, sbaglia passaggi, assist e occasioni da gol per i compagni di squadra.

Insomma bisognerebbe trovare un equilibrio e un compromesso tra campioni e lavoro di squadra. Nello studio sul basket, i ricercatori hanno visto che le squadre che avevano più superstar avevano fatto registrare meno assist e rimbalzi difensivi e percentuali più bassi dei tiri su azione. Queste debolezze nella collaborazione di gioco, minavano l’efficacia della squadra.

Nello studio sul baseball invece il numero dei campioni non pregiudicava le prestazioni complessive della squadra.

Questi risultati suggeriscono che livelli troppo alti di giocatori di talento possono diventare dannosi per la squadra, o almeno bisognerebbe avere una strategia ben coordinata per assemblare una squadra di campioni. Perché il narcisismo e la ricerca del successo personale possono andare a scapito degli altri compagni di squadra.

La riflessione più interessante è che questi concetti possono tranquillamente essere allargati anche agli altri ambiti di lavoro. Dove il lavoro di squadra è fondamentale bisogna trovare un buon equilibrio e un buon coordinamento delle risorse umane eccellenti, affinché non vengano sprecate, utilizzate male e quindi perse, solo per interessi personali di carriera.

“Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi
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Se io dico 3 invece è 2 : tu, che fai?

Dal conformismo alla pressione del gruppo: lo studio di Asch.

Con il termine conformismo ci si riferisce al cambiamento del comportamento, dei pensieri e sentimenti che le persone attuano in conseguenza di una pressione (reale o immaginata) effettuata da parte di un gruppo.

Lo psicologo sociale Solomon Asch decise di strutturare un esperimento per indagare più nello specifico, il fenomeno.

L’esperimento consiste nel mettere in fila una serie di persone alle quali lo sperimentatore, dirà che stanno per prendere parte a uno studio sul giudizio percettivo. A tal proposito viene mostrata una linea standard e 3 linee di paragone. I soggetti sperimentali devono pertanto dire quale delle 3 linee di paragone, corrisponde (ovvero è uguale per lunghezza) alla linea standard.

Fonte immagine “Google”.

E’ facilmente intuibile che la linea uguale a quella standard sia la 2 tuttavia.. cosa succede se 5 persone prima di noi, sostengono che la linea uguale sia ad esempio, la 1? Giunto il nostro turno cosa saremmo davvero disposti a fare: sostenere la nostra ipotesi o appaiarla al pensiero di gruppo?

Molti studenti hanno sperimentato tale conflitto, partecipando agli esperimenti di Asch. Quelli che si trovavano nella situazione di controllo (partecipare da soli) in più del 99% dei casi, davano la risposta corretta mentre quando gli stessi soggetti si trovavano inseriti all’interno di una situazione di gruppo, per circa tre quarti si conformavano giungendo ad una percentuale del 37% di soggetti conformati alla risposta di gruppo.

Di converso il 63% dei soggetti, non si conformava. Tenuto conto dei risultati Asch non “cantò vittoria”. Lo psicologo infatti, fu piuttosto turbato dal rendersi conto di come una percentuale comunque considerevole fosse disposta a dichiarare come vera, una cosa che non lo fosse:

Il fatto che persone giovani, intelligenti e ben intenzionate siano disposte a chiamare bianco il nero è una situazione preoccupante. Fa sorgere dubbi sui nostri sistemi di educazione e sui valori che guidano il nostro comportamento.

Solomon Asch, 1955

Il risultato di tali esperimenti appare interessante per un motivo in particolare. La pressione a cui i soggetti sperimentali sono sottoposti, non è una pressione scontata a conformarsi; non c’è ad esempio come premio il gioco o la vincita della squadra oppure punizioni in caso contrario. Se la gente è disposta a conformarsi così tanto in risposta a delle pressioni che sono minime, cosa succede se il “gioco si fa più serio?” Possono obbligarci a compiere atti crudeli che possono sconfinare nella tortura?

A quest’ultima domanda, proveremo a rispondere con un prossimo approfondimento.

“Finisce bene quel che comincia male”

Dott.ssa Giusy Di Maio.

Perché la percezione di ciò che è giusto, è importante per il lavoratore: la giustizia organizzativa.

Salvo ulteriori specificazioni, fonte immagine “Google”.

La giustizia organizzativa e da essa tutti gli studi e le teorie che ne sono scaturite, concerne la percezione da parte dei lavoratori, dell’equità sul posto di lavoro. Questo vuol dire che per un lavoratore, non è importante soltanto il rapporto basato sullo scambio lavoro/compenso (quindi lavoro/stipendio), ma egli ha bisogno di percepire che è moralmente trattato correttamente. Il lavoro pertanto non è fatto soltanto dalle spinte interne (i bisogni), oppure da meccanismi cognitivi che consentono di valutare le connessioni tra aspettative, attività e risultati.

Secondo tale approccio, dobbiamo invece considerare :

  1. il concetto di giustizia distributiva inteso come credenza circa il fatto che i ricavi (lo stipendio), sia corrispondente alle attese e soprattutto che esso non comporti condizioni di non equità tra i dipendenti.
  2. la nozione di giustizia procedurale, che concerne la credenza sull’adeguatezza circa i modi di distribuzione delle risorse.

A tal proposito, un lavoratore potrebbe incominciare a chiedersi se comportandosi in un certo modo, riceverà un trattamento imparziale. Quanto appena detto, è fondamentale nell’ambito del mondo del lavoro, perché quando si percepisce che le modalità di procedere e decidere sulla distribuzione dei ricavi sono adeguate e corrette, è più probabile che si sviluppino comportamenti motivati rispetto ad un dato obiettivo. Accade pertanto che un lavoratore si sentirà fortemente motivato rispetto ad un compito e ai suoi ricavi se percepisce che il suo impegno è stato compreso e se sente che questo impegno riceve le giuste attenzioni. Se invece ci si rende conto che i criteri adottati non sono trasparenti o le valutazioni sono distorte, il lavoratore adotterà strategie di riduzione dell’impegno (es. assenteismo).

Vi sono due tipi di fattori che hanno un ruolo sulla percezione della giustizia organizzativa; uno concerne i meccanismi adottati per la gestione dei rapporti interpersonali,l’altro è invece legato ai modi con cui si cerca di far comprendere ai diversi dipendenti i processi decisionali che portano a diversi tipi di scelta organizzativa (assumendo una prospettiva etica nella gestione delle vicende organizzative).

Si indica inoltre con il termine “giustizia interazionale”, la qualità degli scambi tra i diversi attori organizzativi. Ciò che bisogna comprendere è che non si tratta qui di dover allacciare particolari (e forzate) relazioni umane, ma semplicemente di garantire condizioni di rispetto delle regole e fare in modo di dar vita a scambi e dialoghi sociali basati su principi condivisi.

La teoria dell’equità e della giustizia richiamano aspetti importanti delle relazioni tra persone e organizzazione, tanto da andare ad influenzare per esempio le strategie di risposta personale nei contesti di lavoro, l’adattamento del singolo lavoratore al determinato contesto, la capacità di controllare il proprio impegno.

Ciò pertanto che emerge da queste teorie è che non dobbiamo dimenticare che anche (e soprattutto) sul posto di lavoro(quindi l’azienda, la scuola, e tutte le più svariate realtà organizzative), funzionano come un sistema in cui ogni parte è interdipendente dall’altra. Se funziona bene un singolo segmento -es un dipendente- funzionerà bene l’intero sistema – es il reparto intero. E’ sempre buona norma quindi, fermarsi a riflettere un momento per capire se si sta agendo (e reagendo) nel modo più giusto possibile.

Dott.ssa Giusy Di Maio.

Considerazioni notturne di uno Psicologo (tifoso)

Poche settimane fa pubblicammo sul nostro blog un articolo molto interessante sullo stress correlato al lavoro e su quanto questo potesse essere determinante (in negativo) nella nostra quotidianità sia nel contesto lavorativo che personale. Nell’articolo, la collega, portò ad esempio il lavoro teorico di Warr con il suo vitamin model. Vitamin Model di Warr

Sostanzialmente si sosteneva il fatto che un buon equilibrio tra le “vitamine” potesse essere la vera panacea a tutti i “mali” legati allo stress lavoro correlato e quotidiano, ma che questa somministrazione equilibrata di vitamine era molto efficace qualora vi fosse stata una buona rete di supporto a sostenerla, sia nell’organizzazione lavorativa sia in quella familiare.
Da queste premesse partono le mie considerazioni psicologiche sul cambiamento della guida tecnica, questa estate, sulla panchina del Napoli (squadra della mia città e squadra della quale sono tifoso).
Mi sono chiesto: cosa è cambiato nella mentalità del gruppo e nel “sistema” squadra quando è subentrato il nuovo allenatore Ancelotti?

allenamento castelvolturno

Fonte SSC Napoli – Facebook

Parto da lontano, ma non molto.. La metafora del motore.
Tutti abbiamo notato (o quasi) che nella seconda parte dello scorso campionato alcuni ingranaggi e alcuni elementi della squadra, anzi dell’intero sistema Napoli cominciavano a funzionare meno bene. Il motore andava e spingeva, il carburante era a metà serbatoio (e bastava), ma c’era qualcosa che faceva attrito e che non permetteva più a quel sistema perfetto e ben oleato di funzionare al meglio. Ecco quindi che a causa di questi “attriti”, il motore aveva bisogno di più potenza per spingere allo stesso modo e garantire le stesse prestazioni della prima parte del campionato, cominciava quindi a consumare più carburante. Il problema era che il quantitativo di carburante immesso nel serbatoio inizialmente, era stato previsto per un percorso senza “attriti”. Il rischio che si palesava (purtroppo per noi tifosi) era che si dovesse terminare il percorso, nelle ultime tappe, con solo la grande forza di inerzia generata e sperare nel frattempo che non si palesassero “attriti e vincoli” troppo “resistenti”.
La sera del 28/04/2018 la forza di inerzia che spingeva la squadra partenopea ancora a grande velocità ha subito un fortissimo rallentamento, causato da un vincolo che ha generato una forza di attrito molto forte.

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Fonte Google

L’illusione di un sogno
I tre anni vissuti con la guida tecnica del mister Sarri sono stati un crescendo di emozioni e di spettacolo. Le sensazioni comunemente diffuse nei tifosi e negli addetti ai lavori sono passate da momenti iniziali di sconforto agli esordi (paura dello sconosciuto) ad un crescendo di approvazione, ammirazione, adulazione e addirittura santificazione per ciò che stava accadendo sul prato verde. E per un popolo che aveva vissuto sulla propria pelle l’esperienza mistica del Pibe e dei fasti aurei di quel periodo d’oro (che ancora ci allieta le menti e il cuore), pareva che l’attesa messianica era finalmente terminata.
Che sia il comandante Sarri il nuovo re? La stragrande maggioranza del tifo lo credeva.
Ma cosa stava accadendo al di la del muro? Quella differenza notata da molti tifosi e addetti ai lavori della seconda parte del campionato era il sintomo di qualcosa che stava modificandosi nel sistema squadra.
Un piccolo passo indietro..

Il gruppo storico della squadra del Napoli era ben saldo. Legato insieme da buone relazioni tra i membri che andavano anche al di là dello spogliatoio (ambiente lavorativo). I vari calciatori hanno sempre intessuto rapporti abbastanza sani, lasciando la possibilità di una permeabilità del sistema, che permetteva ai nuovi innesti di inserirsi con molta facilità. La sensazione (da osservatore esterno) era che il cambiamento che portavano i nuovi elementi del sistema veniva assorbito molto costruttivamente dal gruppo e subito diventava un valore aggiunto importante. Inoltre la perdita di alcuni elementi (ritenuti fondamentali) era ben metabolizzata e presto rimpiazzata. Il gruppo, insomma, era molto resiliente. Inoltre c’era una unità di intenti incredibilmente solida (chi non ricorda il patto scudetto di inizio anno). Tutti remavano insieme verso l’obiettivo comune.

Confronti e riflessioni (anche teoriche)
Sembrava ci fossero tutti i presupposti per raggiungere la meta, ma qualcosa è cambiato. Il comandante in capo ha cominciato a dare segni di “cedimento” e alcune dichiarazioni fatte e non fatte e alcune scelte “strane” palesate in alcuni momenti cruciali della stagione hanno fatto si che il gruppo, da lui guidato, non comprendesse bene la direzione e la rotta giusta.
Le dichiarazioni fatte dal leader (chi guida il gruppo) e la convinzione stessa riguardo le possibilità di raggiungere gli obiettivi è fondamentale per quest’ultimo. Infatti se..
– Io leader, con le mie dichiarazioni (poca enfasi e importanza per le coppe) e le mie azioni (turn over mirato a valorizzare esclusivamente la partita di campionato), comunico al gruppo anche in maniera indiretta che è importante solo il campionato, il resto conta poco. Rafforzo, inoltre, questo messaggio schierando spesso nelle coppe europee e italiana i giocatori che per me non sono i titolari (anche se probabilmente valgono quanto i titolari e sono portatori della stessa promessa fatta a se stessi e ai tifosi).
Così facendo è evidente che si possa creare uno squilibrio negli elementi del sistema e nella mentalità del sistema. Rischiando l’azzardo di investire in modo esasperato (carico eccessivo delle responsabilità dei titolari) sull’unico vero obiettivo della stagione, lo scudetto. Il problema è che se questo obiettivo per qualche motivo sfugge di mano (vedi notte del 28/04/2018), l’ombra del presumibile fallimento si ripercuoterà sull’umore, sulla motivazione e sulla concentrazione dei giocatori. In particolare quando il peso di queste aspettative è caricato esclusivamente solo su un pezzo della rosa della squadra (14 su 24/25).

udinesefabian napoli

Fonte SSC Napoli – Facebook

Il vento del cambiamento …
Le mie sono solo osservazioni, relative al probabile funzionamento del “sistema squadra” in quelle settimane. Ma adesso cosa sta cambiando con Ancelotti?
Tralasciando ovviamente l’aspetto tecnico e tattico, la differenza che emerge di più è la gestione del gruppo. Forse l’ingranaggio mancante di quella macchina perfetta del gruppo guidato dal comandante Sarri.
A questo punto mi vorrei ricollegare con la premessa che ho fatto all’inizio dell’articolo e trarne delle conclusioni. Per far funzionare al meglio un gruppo di lavoro (come lo è una squadra di calcio) c’è bisogno di una buona rete di supporto e di alcuni elementi fondamentali che possano garantire sempre un buon equilibrio in apporto “energetico e vitaminico”. Il nuovo mister pare stia proprio avvalendosi di alcuni di questi principi.
Vediamo insieme quali sono
Sin dal principio (ritiro estivo) mister Ancelotti ha portato avanti una idea abbastanza chiara: una migliore suddivisione dei compiti (il che comporta che tutti si sentano parte di un sistema più ampio, tenuto insieme proprio dal singolo apporto specifico. Il beneficio che il soggetto prova è nel non sentirsi un semplice anello di una catena di cui non si conoscono né l’inizio né la fine, ma viceversa, una parte attiva)
• Una più equa distribuzione del lavoro, dei compiti e quindi delle responsabilità, inoltre, garantisce una migliore gestione dello stress nei giocatori (quindi un miglior adattamento psicofisico del soggetto ai vari impegni).
• Ultimo elemento, ciò che non mancava già nella precedente gestione e che è per la squadra napoletana un grande vantaggio: la possibilità di fare squadra, intessendo solide relazioni con i propri colleghi.

 

 

 

Dott. Gennaro Rinaldi