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Ottimismo irrealistico vs. Pessimismo difensivo.

Fonte immagine “Google”.

Alla scoperta di due approcci alla vita che muovono lungo un continuum che li vede agli antipodi. L’uno “ottimismo irrealistico” che fa sentire come Polyanna immersi in un mondo roseo, l’altro il “pessimismo difensivo” che prova a salvarci dalle possibili insidie dell’ottimismo irrealistico.

“Le visioni del futuro sono così rosee che farebbero arrossire Polyanna”

Shelley E. Taylor, Positive Illusions, 1989.

L’ottimismo predispone l’essere umano a un approccio positivo alla vita. E’ ottimista colui che tende a considerare solo i lati migliori della realtà in cui è calato; colui che sa valutare e/o attendersi solo sviluppi favorevoli circa il corso degli eventi che gli si pongono innanzi.

Tuttavia molti di noi possiedono ciò che il ricercatore Neil Weinstein definisce un “ottimismo irrealistico nei confronti degli eventi futuri della vita”. E’ interessante a tal proposito, citare i dati di una survey condotta tra il 2006 e il 2008 in cui molte persone dichiararono di aspettarsi un miglioramento della propria vita (di qualsiasi aspetto) nei prossimi 5 anni, maggiore di quanto fosse successo nei 5 anni appena trascorsi (Daron, 2010). Il miglioramento che i soggetti intervistati sembravano aspettarsi, è particolarmente interessante visto che la survey è stata condotta nel pieno del periodo della recessione economica che ha colpito il mondo.

Come provare a leggere o interpretare questi dati?

Linda Perloff (1987) sostenne che l’ottimismo illusorio potesse aumentare la nostra vulnerabilità in quanto potenzialmente deleterio: ma in che modo? l’ottimista a tutti i costi, tende infatti a sottostimare la possibile negatività di un evento o la possibilità che qualcosa possa andare storto con l’inevitabile risultato che non vengano prese delle precauzioni di fronte a quello che potrebbe essere invece un potenziale pericolo.

In un sondaggio condotto tra la Scozia e gli Stati Uniti, i ventenni hanno valutato di avere molte meno probabilità dei loro compagni di essere infettati dal virus dell’AIDS (Abrams,1991; Pryor e Reeder, 1993). Allo stesso modo i giocatori d’azzardo ottimisti, tendono a persistere ostinatamente (più dei pessimisti) nel loro gioco anche dopo che hanno accumulato perdite su perdite (Gibson e Sanbonmatsu,2004).

Gli studiosi sono ancora impegnati nello studio dell’ottimismo in quanto consapevoli del fatto che essere ottimisti comporti miglioramenti nella gestione della vita (promozione del senso di autoefficacia; promozione della salute fisica; promozione nel benessere dell’individuo). Tuttavia è molto più probabile che la “virtù stia nel mezzo”.

Julie Norem (2000) definisce il pessimismo difensivo come “un valore adattivo legato all’anticipazione di problemi e al controllo dell’ansia da parte della persona motivata a compiere azioni efficaci”, in sostanza il pessimismo difensivo piò salvarci dalle insidie dell’ottimismo irrealistico.

Da studi condotti (Robins e Beer, 2001), è emerso che gli studenti che iniziano il proprio percorso universitario considerando “troppo” la propria preparazione/capacità accademica, tendono poi ad avere (durante il percorso di studi), gravi danni alla propria autostima poichè incapaci di fronteggiare lo stress dovuto a qualche piccolo – spesso inevitabile- fallimento. Ciò che invece sembrerebbe fare il pessimismo difensivo, è anticipare i possibili problemi/ostacoli, puntando a fare leva su una risoluzione efficace.

Se prima di un esame, colloquio di lavoro o qualsiasi evento di vita (anche una convivenza), mi prendo del tempo per meditare e vagliare le possibili conseguenze della mia azione/strategia, applicando anche quel pizzico di pessimismo difensivo “questa cosa potrebbe andare male se..”, molto probabilmente aumenterò la possibilità che di converso quella data cosa finisca bene, in quanto sarò più pronto ad attuare delle strategie maggiormente adattive anche in caso di errore o fallimento.

In un tempo sempre più veloce dove l’essere umano sembra perdere ogni giorno sempre più il legame con il proprio desiderio, abbandonarsi alla riflessione sembra oggi più che mai, uno dei modi per recuperare e riuscire laddove fino a poco prima si falliva.

“Finisce bene ciò che comincia male”.

Dott.ssa Giusy Di Maio.

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TUTTI MI GIUDICANO: quando il giudizio degli altri ci influenza al punto tale da dirci “chi siamo”.

Sentirsi appellare come persone intelligenti, simpatiche e brillanti, comporta che inevitabilmente anche noi cominciamo a pensare le medesime cose. Nell’ambito della psicologia questo fenomeno è stato a lungo studiato, fino a rintracciare il suo effetto anche nel campo scolastico. Ciò che gli psicologi sociali hanno notato, è che ad esempio quando gli studenti si sentono minacciati da stereotipi negativi sulla loro capacità scolastica (ad esempio le studentesse a cui viene continuamente ripetuto di non essere brave in matematica o nelle materie scientifiche), questi potrebbero disidentificarsi con tali campi di studio e invece di lottare contro i pregiudizi, finire per dirigere la loro attenzione altrove.

Salvo specificazioni, fonte immagine “Google”.

Nella descrizione del sé riflesso, il sociologo Charles Cooley, ha proposto il concetto di rispecchiamento indicando con ciò che il modo con cui le persone pensano di essere percepite dagli altri, viene usato come una sorta di specchio per percepire se stessi (pertanto se dicono di me che sono simpatico, lo sarò per forza!). Il sociologo George Herbert Mead ha approfondito questa nozione evidenziando invece come non sia tanto importante come gli altri ci vedono, quanto come immaginiamo ci vedano (non è tanto importante che gli altri dicano che io sono simpatico, quanto che io penso che gli altri pensino che io sia simpatico).

Questi studi hanno poi approfondito un ulteriore concetto che è invece legato all’immagine sproporzionata del sé (autoenfatizzazione), che si ritrova maggiormente nelle culture occidentali. Shinobu Kitayama (1996) ha rilevato che i Giapponesi che visitano il Nord America, sono colpiti dalle parole di encomio scambiate tra amici. Quando infatti Kitayama e colleghi hanno chiesto alle persone americane, a quando risalissero gli ultimi complimenti ricevuti, la risposta era un giorno. In Giappone invece, dove i rapporti sociali tendono ad attribuire minor merito ai singoli, la risposta era di quattro giorni.

Per le persone appartenenti alla cultura occidentale, prevale l’individualismo (viene pertanto data priorità ai propri obiettivi a scapito di quelli del gruppo e la propria identità è definita maggiormente in termini di attributi personali piuttosto che di identificazioni di gruppo). Per le culture orientali invece, la definizione di “chi sono” passa maggiormente attraverso il proprio gruppo sociale di appartenenza; diviene pertanto importante ciò che la mia casta, famiglia o gruppo religioso di appartenenza dice di me.

Gli studi sulle differenze culturali, sono un potente antidoto contro il pregiudizio che spesso dilaga. Non possiamo pensare di applicare il nostro modo di pensare e agire (cultura occidentale) a tutte le culture esistenti, proprio perchè non si tratta di un modello univoco e infallibile. Quello che per un italiano può sembrare ovvio e banale, non necessariamente lo sarà per un indiano. Ciò che però bisogna rimarcare è che questa “differenza” non è insita nella persona stessa (diventa inutile scagliarsi contro il singolo) quanto in una intera cultura di provenienza.

Anche in questo caso conoscere (senza giudicare) le differenze, può aiutarci ad apprezzare maggiormente le diverse specificità.

Dott.ssa Giusy Di Maio