Un giorno a lavoro in una nuova struttura mi informarono che c’era un uomo di circa 30 anni che da diverso tempo si isolava.
Era in Italia da ormai diverso tempo, forse tre o quattro anni. Era stato sempre paziente, socievole, un gran lavoratore. Rispettoso delle regole e delle persone con cui condivideva la sua stanza e gli spazi del luogo che lo ospitava.
Ad un tratto, stanco e frustrato dall’attesa della farraginosa burocrazia dei documenti, si chiuse in se stesso. Era costretto all’inerzia, in una condizione paradossale in cui era letteralmente un prigioniero senza cella.
Viveva ormai da qualche tempo isolato, in mezzo agli altri. Passava ore a guardare l’orizzonte, mangiava poco e non parlava con nessuno.
Quel mondo lo aveva tradito.. e lui aveva deciso di rinchiudersi nella sua testa.
Il suo corpo mostrava delle cicatrici, la sua storia e la sua mente erano costellate da numerose ferite ancora aperte, che provocavano dolore.
Lui sopportava quel dolore in silenzio e si rifugiava nella sua mente.. che inesorabilmente si stava ammalando..
Il pregiudizio è un atteggiamento negativo (preconcetto), su un gruppo e i suoi membri. Una persona può ad esempio provare antipatia per qualcun altro (senza conoscerlo) arrivando a modificare anche i propri pattern comportamentali, ovvero mettendo in pratica un atteggiamento discriminatorio. Parlare di pregiudizio non è semplice in quanto il concetto appare molto complesso; può infatti essere considerato “pregiudizio” , anche un atteggiamento condiscendente che serve invece – a ben vedere- a mantenere l’altro in posizione di svantaggio.
Il pregiudizio è spesso sostenuto da stereotipi (una credenza sugli attributi personali di una persona, o di un gruppo). Gli stereotipi sono sovra-generalizzati, imprecisi e soprattutto resistenti alle nuove informazioni; questo vuol dire che una volta che uno stereotipo si è insinuato, è molto difficile da scalfire. Dalle ricerche è emerso che:
il pregiudizio è un atteggiamento negativo
lo stereotipo è una valutazione negativa
la discriminazione è un comportamento negativo, non giustificato, verso un gruppo o i suoi membri.
Inoltre il comportamento discriminatorio ha spesso origine in atteggiamenti pregiudiziali. Il pregiudizio rappresenta per bene il sistema del doppio atteggiamento, in quanto si possono avere sia atteggiamenti espliciti (consapevoli) o impliciti (inconsci) verso lo stesso oggetto (così come mostrato dagli studi condotti somministrando il test di associazione implicita di Carpenter).
Si tratta di un test che misura le cognizioni implicite (ciò che le persone conoscono senza esserne consapevoli), compilato online da oltre 6 milioni di persone; il test consente pertanto proprio di verificare se le persone tendono a comportarsi come realmente pensano/dicono, oppure no, in quanto sappiamo che non sempre le persone esprimono il loro parere. Inoltre dalle ricerche emerge che spesso le persone non sono neanche del tutto consapevoli del loro parere.
Gli atteggiamenti espliciti possono cambiare con l’educazione, mentre quelli impliciti perdurano e possono cambiare con la formazione di nuove abitudini. Numerosi studi mostrano come le valutazioni stereotipate possono avvenire al di fuori della consapevolezza. In alcune prove del test di Carpenter vengono ad esempio mostrate rapidamente facce o parole che innescano automaticamente degli stereotipi verso alcuni gruppi etnici, di genere o di età. Senza che ne siano consapevoli, i partecipanti all’esperimento vengono influenzati nelle loro risposte dagli stereotipi che si attivano automaticamente.
Vorrei che provaste ad immaginarvi ed immedesimarvi in una
persona che in un determinato momento della sua vita prende una decisione, suo
malgrado, perché in qualche modo costretto a farlo. Questa decisione è
drastica, di rottura. È successo qualcosa nella sua vita che lo ha portato ad
allontanarsi dalla sua casa, dalla sua famiglia, dal suo mondo. Improvvisamente
tutto è cambiato e quella persona si sente sola (forse lo è davvero). Uno
straniero in un luogo sconosciuto.
Immagino che, in una situazione simile, una persona si senta
come una pianta sradicata dal quel terreno dove presumibilmente è nata,
cresciuta e dove si è nutrita.
Come può sopravvivere questa pianta?
fonte: google
La situazione descritta brevemente può accumunare
l’esperienza di molte persone. Somiglia innanzitutto all’esperienza dei
migranti e dei nostri emigranti italiani.
Quando viene sradicata, una pianta, per far si che sopravviva e che cresca, bisogna ripiantarla in un altro terreno. Le piante sono molto “resilienti”. Riescono ad affrontare un evento così traumatico e improvviso, “riadattandosi” al nuovo terreno, al nuovo luogo, fino a giungere ad un nuovo equilibrio. Sfruttando al massimo il nuovo “ambiente”, usufruendo del supporto e dell’aiuto di chi gli ha offerto l’opportunità di “mettere radici” in un luogo estraneo (il contadino, il giardiniere).
La psicologia ha preso in prestito il concetto di
“resilienza” da un’altra disciplina, la fisica. In fisica il concetto di
resilienza indica la capacità e la forza che un corpo, generalmente un metallo,
ha di resistere agli urti improvvisi senza spezzarsi.
L’urto (nel caso della pianta lo sradicamento) genera un evento improvviso (stressante). La
pianta riesce ad essere abbastanza resiliente e resiste allo stress dello
sradicamento dal suo vecchio ambiente riadattandosi e sfruttando al massimo
quel cambiamento. Riuscendo finanche a crescere più rigogliosa.
In effetti, potremmo pensare alla resilienza come una capacità innata di ogni essere vivente. Noi tutti abbiamo la potenzialità innata di sfruttare le nostre capacità resilienti.
I “sistemi” stessi che viviamo sono anch’essi capaci di resilienza. Un Sistema Familiare, ad esempio, può contare sulla propria capacità di resilienza per far fronte ad eventi critici di crisi o conflitti, interni o esterni. Può, infatti, sfruttando anche la propria flessibilità, riuscire a riadattarsi e quindi riassestarsi, dopo il cambiamento, ristrutturandosi internamente e affrontare al meglio le crisi future caratteristiche del proprio sviluppo vitale.
Insomma, potremmo considerare la resilienza come la capacità umana di affrontare gli avvenimenti dolorosi e risorgere dalle situazioni traumatiche o meglio: “la resilienza corrisponderebbe alla capacità umana di affrontare le avversità della vita, superarle e uscirne rinforzato o, addirittura, trasformato” (Grotberg, 1996).
Sembra però che ci siano persone non capaci di attingere dal
proprio bagaglio di esperienze per sfruttare al meglio la propria capacità di
resilienza, ma ci sono sicuramente possibilità concrete di acquisire la
capacità di guardare e attingere alle risorse personali e sociali, in stato di
latenza, e ri-costruire le proprie
strategie di resilienza. Spesso i motivi di tale incapacità riguardano da
vicino la propria storia familiare e personale e quindi attraverso l’aiuto di
uno Psicologo o di uno Psicoterapeuta, questo è possibile iniziando percorsi
personali, familiari o di gruppo. Ovviamente tali strategie e abilità di
resilienza devono poter attingere anche da un “terreno abbastanza fertile” di
autostima positiva, legami significativi, creatività, curiosità, una buona rete sociale di appartenenza, una
cultura personale che consenta di dare un senso al dolore e diminuire gli
aspetti negativi di una situazione, permettendo la ricerca di alternative e
soluzioni davanti alla sofferenza.
Per concludere, ricollegandoci alla situazione della persona di cui vi ho chiesto di vestire i panni, possiamo quindi dire che è sempre possibile continuare a nutrire le proprie radici, anche in un terreno straniero, purché quella persona conservi il “nettare” del nutrimento della terra natia e sfrutti tutte le sue capacità per adattarsi, ricostruirsi e trasformarsi attraverso la propria capacità resiliente.